Le radici della crisi

Non passa giorno negli ultimi mesi in cui non si senta parlare crisi e di una ripresa economica che stenta a decollare. Dal 2001, e ancora di più dopo la crisi dei mutui subprime, dal 2008 siamo entrati in uno dei periodi economici più difficili per l’Europa Occidentale, gli Usa ed il Giappone. Gli anni 2000 hanno segnato: – l’entrata in gioco nella scena economica internazionale di nazioni quali India, Cina, Brasile, Russia, Indonesia, Messico e Sudafrica, solitamente fino a quel momento considerate periferiche e ai margini dell’economia, sottosviluppati ed arretrati, -e contemporaneamente la perdita di potere da parte dei paesi sviluppati i quali, ultimamente, sono sempre più alle prese con problemi di risanamento di bilancio, riduzione del deficit e del debito e contenimento dell’inflazione. Da dove nasce questa crisi profonda, che sembra senza via d’uscita, che ha portato non solo al default tecnico della Grecia e dell’Irlanda (un tempo chiamata tigre celtica) ma anche a far annunciare  per la prima volta il possibile default degli Usa? A mio parere il tutto è nato da una visione sbagliata da parte dell’Occidente nei confronti di questi paesi in via di sviluppo; l’idea di fondo, a partire dagli anni ’80, è stata quella di spostare sempre più la produzione di bassa qualità verso paesi poveri in cui il costo della manodopera era più basso, e così è stato fatto con paesi quali Corea, Taiwan, Hong Kong, o altre nazioni sudamericane o nordafricane, paesi che avevano un mercato interno piuttosto piccolo; in questo modo si potevano aumentare i profitti per le aziende e abbassare i prezzi al dettaglio dei prodotti. Dalla fine degli anni ’90 e nei primi del 2000 sono entrati sulla scena economica internazionale dei colossi quali l’India e la Cina (fino ad allora poco avvezzi alle logiche di mercato) che, con il loro miliardo di abitanti ciascuno, rappresentano da soli un mercato grande quanto l’Europa e gli Stati Uniti. Il grande errore dei paesi “cosiddetti” avanzati è stato quello di spostare in maniera indistinta gran parte della produzione manifatturiera e a basso impatto tecnologico verso i paesi emergenti, considerando quei mercati un forte bacino di manodopera a basso costo e un mercato di produzione, mentre l’Europa, gli Usa e il Giappone si sarebbero potuti concentrare essenzialmente su produzioni ad alto livello tecnologico e di servizi, rimanendo inoltre il principale mercato di consumo. Tale modello si è purtroppo rivelato nel giro di poco tempo un grave errore di valutazione in quanto si sono sottovalutati due aspetti fondamentali: – Si è visto ai paesi avanzati solo o principalmente come mercato di consumo; ma diminuendo la produzione manifatturiera verso altre aree geografiche è aumentata la disoccupazione con la conseguente diminuzione dei consumi, l’aumento del deficit e del debito pubblico in quanto le produzioni ad alto contenuto tecnologico e di servizi, richiedendo un minor numero di addetti, non sono riuscite a colmare il gap occupazionale venutosi a creare: – Si sono sottovalutati i due giganti asiatici. La CINA, un paese si senza esperienza in materia di capitalismo, ma che ha sempre mantenuto un occhio verso il mondo occidentale con Hong Kong, protettorato britannico per 99 anni, tornato territorio cinese dal 1997. In tal modo questa nazione ha potuto utilizzare tale know how a proprio favore, e una volta aumentato il tasso di occupazione e sviluppo al suo interno ha deciso di sviluppare anche un suo mercato interno di consumo e aumentare la sua influenza soprattutto nell’area asiatica soppiantando il paese del Sol Levante come paese di riferimento. L’INDIA, ex colonia inglese, che ha ereditato, oltre alla passione per il tè e il cricket, un sistema educativo tra i migliori al mondo, con un sistema universitario di stampo anglosassone, che per qualità dell’offerta formativa uguaglia quello di nazioni come la Francia, gli Usa o l’Italia. In tal modo l’India è riuscita a soppiantare anche diverse produzioni di qualità e ad alto contenuto tecnologico oltre a quello delle produzioni di più bassa qualità (basti ricordare il distretto informatico di Hyderabad). Per uscire dalla crisi i nostri governi dovranno trovare delle soluzioni di medio lungo periodo che puntino ad una riduzione degli sprechi nel settore pubblico, e puntare su quelle produzioni tipiche e di qualità legate al territorio ( per l’Italia l’agroalimentare, la moda e il design ad esempio) e sviluppare in maniera ancora maggiore l’industria turistica pensando a quei paesi come nuovi bacini di utenza, in quanto una volta migliorato il loro tenore di vita, avranno le risorse economiche a disposizione per visitare i nostri paesi ricchi di storia e bellezze artistiche e paesaggistiche. Queste idee sono solo spunti, ovviamente, ma il mio augurio è che i governi occidentali riescano a mettere in piedi delle politiche economiche e sociali adeguate alla risoluzione della crisi in maniera più concreta, senza il continuo ricorso ad artifici contabili quali soluzioni temporanee e di breve periodo, che porterebbero solo a delle cure provvisorie.

 

 

Filippo Ispirato

 

 

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