Spending review: è l’ora del pubblico impiego

Aldo Bianchini

SALERNO – Conosco troppo bene i pregi e i difetti del cosiddetto “pubblico impiego” e non soltanto per il fatto di esserci stato dentro per oltre trentasette anni. Per questo motivo non vorrei che i tagli sul numero impressionante dei pubblici dipendenti diventasse un “leit motiv” dei prossimi mesi alla stregua di come è diventata la politica in generale. Per distrarre l’attenzione è sufficiente sparare sui politici o sui pubblici dipendenti.  Se così sarà si rischia un serio aggiramento del problema con l’allontanamento di ogni possibile soluzione. Ho assistito l’altra sera alla puntata speciale di “Porta a Porta” su Rai/1 non senza indignazione, per la sfacciata insipienza dei sindacalisti presenti, per l’ignavia dei politici interpellati, per le menzogne vomitate di fronte a milioni di telespettatori. Finanche Bruno Vespa si è arrabbiato arrivando a bestemmiare un “chiudeteli questi cavoli di microfoni” perché tante erano le scientifiche bugie elargite a piene mani. Quello del pubblico impiego è un problema gravissimo che viene da molto lontano. Fin da quando, negli anni 50 e 60, il miraggio del cosiddetto “posto fisso” era un punto fermo di ogni famiglia italiana: almeno uno dei suoi componenti doveva essere un pubblico dipendente. E in tale direzione, soltanto in tale direzione ha lavorato la politica, il sindacato e l’immaginario della gente per il ristabilimento di uno “stato sociale” che fu solo intravisto e mai seriamente raggiunto. Su questo problema è caduto Silvio Berlusconi che non è riuscito a trasfondere nel settore pubblico le sue riconosciute esperienze nel privato. E’ caduto perfino Pietro Ichino (uomo chiaramente di sinistra!!) che dopo aver scritto “I nullafacenti” ha avuto addirittura bisogno della scorta armata. Eppure Ichino aveva scritto cose sacrosante, forse enfatizzando soltanto gli aspetti negativi del pubblico dipendente ma dicendo certamente cose assolutamente vere. Pietro Ichino con il suo libro ha bacchettato i politici, i sindacati, i dirigenti ed anche la mitica e mai tanto deleteria “perequazione” tanto voluta dai sindacati e che aggravò ancora di più la già precaria situazione. Quel poco di identità umana e professionale, quel poco di interesse e di sostegno verso una barca che fa acqua da tutte le parti, per colpa della perequazione è stato spazzato letteralmente via fino a creare livellamenti incredibili e al limite del parossismo più sfrenato. Ecco perché “i nullafacenti” di Ichino sono cresciuti a dismisura nel numero e nelle funzioni bloccando letteralmente anche quei pochi stacanovisti volenterosi che hanno, comunque, fatto del pubblico impiego la loro ragione di vita. Nel corso dei miei quasi trentotto anni di pubblico impiego ne ho viste di tutti i colori. Non posso far nomi, per carità e solo al fine di tutelare la privacy, di chi è ancora in vita. Ricordo sempre con incredulità un impiegato che per circa quarant’anni di pubblico impiego ha utilizzato un solo timbro per un incarico di una mediocrità assoluta, incarico che lui furbescamente faceva pesare verso il mondo esterno. Un timbro per una vita lavorativa. Incredibile ma vero. Ho sempre pensato che quel collega non sapesse neppure per chi stava lavorando, qual era la missione dell’Ente da cui dipendeva e perché utilizzava quel timbro tutti i giorni. Sapeva soltanto di essere stato assunto d’imperio perché così avevano voluto i suoi genitori, avellinesi, che si erano rivolti all’allora ministro Fiorentino Sullo. Raccontava la sua prima giornata di lavoro come un vanto; il dirigente dell’epoca lo aveva subito apostrofato come “pacco raccomandato di Sullo” e lui di questo si è beato per un’intera vita lavorativa. Peccato, un vero peccato, ma anche questo è stato ed è il “pubblico impiego” nel nostro Paese. Pubblico impiego nel quale, comunque, non mancano splendidi esempi di grande attaccamento al lavoro ed a  tutto quello che è pubblico. Non so se Mario Monti, se il ministro Elsa Fornero, se l’intero Governo del Paese, riusciranno mai a mettere un freno, non dico tagli, all’andazzo che nel pubblico impiego è imperante. E che in un certo senso potrebbe anche essere sopportabile, almeno fino a quando l’andazzo non si trasforma in una organizzazione associativa a delinquere che sotto la copertura dell’invisibile e impalpabile “burocrazia” tutto muove e tutto dirige e indirizza verso obiettivi devastanti ed illegali. E Pietro Ichino, nel merito, ha scritto di tutto e di più. Alla prossima.

 

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