Nocera I.: Odio l’estate…

Lettera aperta di una professoressa

NOCERA  INFERIORE – Nocera non si può dire una città bella. Forse non può neanche dirsi una città. Ma d’estate diventa inquietante al punto che vorresti trovarti ovunque, purché non qui. Il perché non sapresti dirlo o, piuttosto, temi di cadere nel solito elenco qualunquista di geremiadi.

Certo è che questa estate infernale, popolata di demòni e sinistri imperatori sanguinari, è stata insopportabile a chi è rimasto in città. Il caldo umido, nella conca una volta fertile dell’agro, a Nocera si attacca alla pelle con un puzzo tutto suo: un misto di benzene e monnezza di cui, in verità, non ti accorgi distintamente, se non quando hai la fortuna di allontanartene per una mezza giornata di mare o monti in versione pendolare e la sfortuna di tornarvi a sera. Allora ti dici stranito: ma questa roba qui io la respiro tutti i giorni? E ti ricordi del servizio trasmesso dalla tv locale sull’incidenza insolitamente più alta di tumori delle vie respiratorie e della tiroide, triste primato degli ultimi anni.

Ti rassegni anche a questo e decidi di andare in piazza per non passare la serata giocherellando col telecomando, con la schiena sudata che si incolla al tessuto attaccaticcio del divano, popolato di acari ingrassati, come se non bastassero quelle zoccole di zanzare.

In strada comincia la vera e propria epopea: la zaffata che promana dall’asfalto ricorda quella che tanti anni prima hai avvertito uscendo sulla scaletta dell’aereo appena atterrato a Bangkok con 42 gradi all’ombra e il 90% di umidità; la stessa aria densa e greve, con la differenza che lì il lezzo era quello delle bancarelle che in strada friggevano di tutto con oli improbabili, qui è quello della confluenza Solofrana-Cavaiola, che d’estate vanno a nozze più che mai, e moltiplicano il fetore in un empito di entusiasmo irrefrenabile.

Ma ci si abitua a tutto (e poi l’unica alternativa sarebbe tornare agli acari), e così stringi i denti e vai. Sul marciapiede malfermo, ripiastrellato con materiali sempre più scadenti (ma non erano meglio quegli onesti, pur se brutti, conci bianchi e rosa? ti chiedi stizzito), ingombrato per metà dalle auto in sosta e per l’altra da cassonetti olezzanti, ti metti di sguincio per evitare di sfiorare con il deretano i rossi dell’umido, impiastricciati di salsine e colature, ma per avventura uno sgangherato materasso obliquo, disteso su un mucchio di bucce di anguria mangiucchiate, ti interdice il passo; sei costretto a tornare indietro e a circumnavigare il blocco, camminando praticamente in mezzo alla strada, nonostante il marciapiede di due metri, evitando fortunosamente le auto che sfrecciano ben oltre gli urbani 50 km e i motociclisti senza casco che ti mandano affanculo.

Pensi di averla scampata ed ecco la suola delle sneakers che si spiaccica su una bella merda che non sei riuscito a scansare nonostante lo slalom. A questo punto decidi di camminare a testa bassa come in un pellegrinaggio penitenziale o una via crucis espiatoria popolata di stazioni-escrementi di ogni foggia, lascito dei numerosi randagi rimasti soli in città proprio come te (o di cani con blasonati pedigree ma con padroni tanto spocchiosi quanto stronzi, che non hanno mai sentito parlare di scopino e paletta e di un minimo di buona educazione).

La tristezza della piazza degli eventi, però, supera ogni umana sopportazione ed è il colpo di grazia al senso estetico. Alle fioche luci dei lampioni, dalle panchine gremite di anziani addossati l’uno all’altro, con fazzoletti stancamente sventolanti nel tentativo di trovare refrigerio, tra bambini ipercinetici come eserciti di termiti e donnone con seni a davanzale che li richiamano urlando dalla parte opposta, sembra provenire un’unica, tacita ma lancinante domanda: perché non c’è più nemmeno uno straccio di fontana? Perché dalle opere d’arte che l’hanno rimpiazzata non sgorga uno zampillo di acqua fresca? Il solo gorgoglio dava già sollievo, era come la musica di un ruscello e potevi immaginare torrenti d’alta montagna e aria fina…

Per consolarti e dare un senso a questa uscita, di cui già ti sei pentito amaramente mille volte rimpiangendo i tuoi acari, ti fermi a mangiare una pizzetta e a bere una birra in una della rosticcerie del centro, frequentate da torme di brufolosi teenagers che ti sguardano pietosamente. Il piacere del gusto dura il tempo di cercare i cestini in cui gettare carta e vetro: alzando gli occhi ti accorgi di essere assediato da cartacce e rifiuti che trasbordano dall’unico bidone stracolmo, spandendosi sul marciapiede e in strada tra frantumi di bottiglie rotolanti, lattine e bicchieri di carta… non ne puoi più, al pensiero di aver mangiato in queste condizioni, e cominci a correre, correre all’impazzata verso casa tutto d’un fiato, centrando tutti gli impiastri che prima avevi accuratamente zigzagato, e solo quando hai chiuso la porta alle tue spalle, cominci a respirare…

Al soffio di Beatrice ti sei come svegliato da un incubo.

La prima sciacquata settembrina rivela di nuovo terso il profilo della collina con il suo mastio, e la pietrigna croce di Sant’Andrea si staglia contro l’azzurrità del cielo.

La schiena flessuosa e forte di Mont’Albino ti inonda i polmoni di ossigeno e le rampe della salita s’incuneano morbidamente nel verde, guidandoti al bianco ieratico santuario. A sera guardi le luci che lo punteggiano, amorevoli come stelle benigne, e non ti senti solo.

Al mattino sparuti gruppetti di studenti si avviano al Liceo per gli esami di settembre e la piazzetta si ripopola timidamente di sorrisi e fremiti. La storica facciata è lì rassicurante, pronta ad accogliere ancora una volta le giovani menti per guidarle nell’avventura del sapere.

Mentre sorseggi un caffè, anzi lo sguardo verso l’angolo bicolore di Santa Sofia, così vagamente toscaneggiante, e pensi che non l’hai mai vista così bella.

Rintocca la campanella del palazzo comunale nel silenzio della piazza e ti sembra di essere in un paese d’altri tempi o in un dolcissimo luogo dell’anima.

Forse semplicemente non è fatta per l’estate, Nocera.

Teresa Staiano

 

 

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