D’Andrea/8: il giallo della telefonata

Aldo Bianchini

SALERNO – Con il racconto della lunga ed incredibile storia di Cosimo D’Andrea, presunto potente camorrista, mi ero fermato nel dicembre scorso al ricordo della ricorrenza degli undici anni dalla sua morte avvenuta il 19 dicembre 2001 (all’età di 55 anni) nel “reparto detenuti–padiglione Palermo” dell’ospedale  Cardarelli (Napoli), sezione distaccata dell’istituto penitenziario di Secondigliano (Napoli). Era stato arrestato il 12 giugno 2001 e rinchiuso nel carcere di Opera a Milano dopo una lunga battaglia legale culminata con uno strano e, per certi versi, contraddittorio provvedimento dell’Autorità Giudiziaria che disponeva la “detenzione in carcere” del famoso collaboratore di giustizia che invece di essere tutelato venne mandato al massacro. Le sue condizioni di salute non erano tali da poter sopportare il regime carcerario; lo avevano scritto tre periti che non vennero per niente creduti; l’unica concessione fu quella di autorizzare il suo trasferimento presso il Cardarelli di Napoli. La Corte di Cassazione, dopo alcuni anni, ha stabilito che i tre periti avevano refertato le reali condizioni psico-fisiche del D’Andrea ed ha condannato il medico del reparto-carcerario del Cardarelli che, contro tutto e tutti, non provvide a rilasciare il malcapitato neppure quando era giunto allo stremo delle sue forze. Tutto questo lo avevo già scritto in data 19 dicembre 2012 nel giorno del ricordo della morte del D’Andrea. In quella occasione avevo anticipato una novità assoluta inerente una “strana telefonata” sul contenuto della quale ancora oggi è in atto un procedimento giudiziario per l’accertamento della verità. Per capire meglio l’accaduto dobbiamo fissare un periodo storico compreso tra il 12 giugno e il 19 dicembre 2001, cioè il periodo tra l’arresto di D’Andrea e la sua morte. Nelle more di questi sei mesi, secondo gli atti assunti a processo, ci sarebbe stata una telefonata tra un giudice di sorveglianza e un pm della Procura Antimafia di Salerno; per il momento è solo ipotizzabile il contenuto di quella telefonata, molto probabilmente il giudice di sorveglianza chiamava il pm antimafia per uno scambio di notizie e di opinioni sulle reali condizioni di salute dell’arrestato in relazione alle sue reali capacità di sopportare il regime carcerario. Cosa questa, se vera, assolutamente vietata dalla legge; in pratica tra pm e giudice di sorveglianza non può esistere un rapporto diretto, peggio ancora se telefonico. Insomma, come dire, che la vita delle persone non può essere affidata a sensazioni personali ma soltanto a precise relazioni medico-scientifiche. E le relazioni medico-scientifiche, come già detto, affermavano tutte che Cosimo D’Andrea in quei sei mesi era incompatibile al regime carcerario; relazioni che, però, vennero stranamente prese sottomano tanto che le condizioni di D’Andrea peggiorarono fino alla morte avvenuta nel padiglione carcerario del Cardarelli. Una cosa fuori da ogni logica umana. Mistero su come e quando la telefonata tra i due magistrati è venuta alla luce. Fatto sta che la figlia del D’Andrea, dopo qualche anno dalla morte del padre, esattamente nel 2009 chiama il giudice di sorveglianza al telefono per chiedergli legittime spiegazioni sul perché di quell’atteggiamento molto duro nei riguardi del genitore. E qui, forse, che  nasce il clamoroso caso piano giudiziario. Alle insistenti domande della figlia di D’Andrea il magistrato avrebbe risposto che lui non aveva mai visto e mai conosciuto l’imputato e non era a conoscenza della sua situazione giudiziaria e che “per questi motivi aveva deciso di chiamare il PM antimafia al fine di chiedergli consigli sul da farsi e su quale fosse la decisione più giusta in considerazione del presunto alto livello criminologico dell’arrestato”. Insomma dalla telefonata tra la figlia di D’Andrea e il giudice di sorveglianza sarebbe emerso un quadro poco chiaro. Ma questo lo vedremo nella prossima puntata.

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