28 aprile 1963: un giorno da dimenticare

Aldo Bianchini

SALERNO – Quel giorno del lontano 28 aprile 1963 pur non essendo ancora maggiorenne avevo stazionato per diverso tempo dinnanzi ai seggi elettorali di Torrione. Si votava per le politiche dopo la caduta dell’ennesimo “governo Fanfani” ed il Paese era in un comprensibile stato di agitazione, niente a che vedere con i tempi di oggi ma la tensione c’era anche allora. Alla fine stravinse, o quasi, la DC scaraventandomi ancora per una volta in uno stato di insoddisfazione, ero di sinistra e la cosa mi dava sinceramente fastidio; mai e poi mai avrei pensato che di lì a qualche anno sarebbe decollato il famoso “centro-sinistra” come preludio al famigerato “compromesso storico” degli anni ‘70. Passai la seconda parte della mattinata, insieme ai miei amici del quartiere, nell’attesa spasmodica del grande evento sportivo del pomeriggio; difatti allo stadio Donato Vestuti (costruito nel 1932 come “stadio littorio”) si giocava Salernitana-Potenza, una partita di calcio che andava ben oltre la dimensione prettamente sportiva. Noi eravamo tutti lucani e, quindi, era d’obbligo il tifo per il forte Potenza. Era l’epoca della grande transumanza dei lucani verso Salerno, un fenomeno etico-sociale che avrebbe segnato in positivo la storia della Città nei decenni futuri; in pratica l’emigrazione lucana diede vita, in buona parte, al periodo della “grande cementificazione” anche un po’ selvaggia, se vogliamo, ma certamente esaustiva dal punto di vista economico e con riflessi fino ai nostri giorni. Per noi ragazzi non c’erano, però, i soldi o almeno non c’erano i soldi per una partita di calcio, anche se di cartello. Andammo, comunque, tutti allo stadio con la speranza di entrare con qualche adulto o di arrampicarci sul muro di cinta della curva nord. Non portammo con noi alcun segno distintivo, il tifo dei salernitani era troppo esasperato già per le strade della città che nessuno di noi se la sentiva di rischiare. Lungo Via Irno a causa di un gruppo nutrito di facinorosi, per non farci riconoscere, per la prima volta incominciammo anche noi a gridare per la Salernitana. Ricordo distintamente che la cosa non ci pesò più di tanto, segno inequivocabile che l’amore per Salerno (città in cui vivevamo già da alcuni anni) incominciava a penetrare nei nostri cuori. All’esterno dello stadio era tutta una bolgia, slogan, striscioni, spintoni ed anche qualche immancabile scazzottata tra tifosi. Non riuscimmo ad entrare con gli adulti, ripiegammo, quindi, verso il muro di cinta. Sul muro dovemmo fare a turno perché erano in tanti quelli che salivano e scendevano dalla scomodissima postazione. Fui fortunato, ma non so fino a che punto, perché tra i vari turni a me toccò anche quello dei minuti finali della partita. Capii poco o nulla di quanto stava accadendo, mi resi soltanto conto che gli spettatori della tribuna stavano entrando sul terreno di gioco avvolto in una nuvola di fumo. Scesi rapidamente e allertai i miei compagni e tutti ci precipitammo verso Piazza Casalbore per vedere e capire. C’era poco da vedere e da capire perché non si vedeva e non si capiva più nulla. Al centro della piazza c’erano un paio di auto che bruciavano e la gente gridava di fuggire verso le traverse laterali. Io (con Pietro, Michele, Tonino ed altri) riuscii ad imboccare Via Conforti ed a raggiungere dopo qualche minuto il dopolavoro ferroviario (io e Tonino eravamo figli di ferrovieri in servizio nella stazione di Salerno) ed a rifugiarci al suo interno. Fuori fu una vera e propria “caccia all’uomo”; giungevano voci di assedio intorno agli spogliatoi dello stadio. Soltanto nei giorni successivi compresi i contorni di quell’amara e brutta vicenda. L’arbitro alessandrino Gandiolo non aveva concesso un calcio di rigore evidentissimo su Oliviero Visentin (famosa ala destra dei granata) lanciato verso la porta avversaria e le recinzioni vennero giù, anche a causa della brutalizzazione di un tifoso da parte della polizia per impedirgli di invadere il campo. La partita vene sospesa al 30’ della ripresa sul risultato di 1 a 0 per il Potenza e poi venne data vinta ai lucani a tavolino; la Lega inflisse tre giornate di squalifica al Vestuti, scontata nel campionato successivo 63-64. Un tenente della polizia, Gaetano Parasole, aveva esploso tre colpi di pistola, verso l’alto, da metà campo per cercare di fermare i più scalmanati. Uno spettatore in tribuna, Giuseppe Plaitano (quarantottenne tifoso della Salernitana, uomo mite e stupendo capo-famiglia) morì. Quel giorno anche allo stadio San Paolo (Napoli-Modena) accaddero gravi incidenti. Il bilancio era stato tragico: 1 morto, 219 feriti e 250 fermati e 33 arrestati. Con lo sport si miscelarono anche frustrazioni e rivendicazioni di carattere politico. Il ministro dell’interno, Taviani, inviò a Salerno un super ispettore (Fiorita) e il prefetto Germini convocò una conferenza stampa. Tutto fu inutile, non si venne mai a capo della verità. Con il tempo è scomparsa ogni traccia della relazione autoptica del prof. Palmieri, della perizia balistica, dei verbali d’interrogatorio e dell’’intero fascicolo processuale. Il caso è passato alla storia come un altro dei misteri della Repubblica.

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