SANITA’: Riflessioni sulle vicende mediatiche delle foto in sala operatoria

Da Antonio Mignone

I medici dei romanzi inglesi alla Cronin, quelli dei thriller dei romanzi americani, il famoso “doctor House” oppure i medici di “ER” e di “Grey’s Anatomy”: sono questi i modelli che girano nelle teste di chi vede dall’esterno la professione sanitaria. Un misto di spregiudicatezza, idealismo, eroismo e un pizzico di menefreghismo.

Poi ci sono le realtà: indubbi esempi di grandissimi medici che operano in prima linea nella ricerca clinica o direttamente in prima linea (intesa come quella dei fronti di guerra), e questi medici fanno notizia, danno lezioni in tema di impegno civico e professionale.

E poi c’è la realtà quotidiana, quella di ogni giorno, quella in cui i medici delle sale operatorie, si confrontano continuamente con il mistero della morte, con la sofferenza della malattia, con la pena degli ammalati e l’ansia dei loro congiunti, dove un intervento chirurgico riuscito è una piccola “vittoria”…ma questa “vittoria” no, non fa notizia, non vale una riga di romanzo o un trafiletto di giornale.

Il tutto poi, viene complicato e reso più difficile al giorno d’oggi, dove si parla di tagli al personale e alle risorse con nuove regole sulla colpa grave e le assicurazioni professionali, di orari contingentati e di nuove normative applicate, che rendono il lavoro dei sanitari ancora più stressante. C’è la carenza di personale e c’è il carico di lavoro che soccombe questi “eroi senza identità”, che devono rispondere a nuove richieste aziendali, per rispettare un numero prefissato di interventi chirurgici e che questi, inoltre, vengano eseguiti secondo criteri standardizzati e in tempi prefissati. In altre parole si sta superando il concetto di “orario di lavoro” da quando si è iniziato a ragionare in termini di “salario di risultato”. E’ ciò che già accade nel resto dell’Europa, soprattutto nei paesi occidentali (es.: USA), nonché in alcuni paesi del resto del mondo.

A quanto detto si aggiunge la sempre più dilagante “medicina difensiva”, quella che deve fronteggiare le richieste dei familiari dei pazienti che, se va bene l’intervento chirurgico, vogliono tutte le informazioni possibili come è lecito che sia, ma se accade qualcosa di “sbagliato” gli stessi familiari sono lì pronti a chiedere risarcimenti; in altre parole, un altro nostro nemico è la stessa medicina difensiva, che fa spendere più soldi allo stato italiano e impone cautele esagerate nell’azione del medico.

In questo clima di pressioni lavorative, oltre le indiscutibili pressioni emotive legate all’attività sanitaria quotidiana, spesso, gli operatori sanitari soffrono di fenomeni di “burnout”…ovvero avvertono quella sensazione strana di “bruciarsi”. La sindrome del burnout è una patologia legata allo stress che deriva dalle professioni umanitarie, le cosiddette “helping professions”, e si caratterizza di esaurimento emotivo, depersonalizzazione, frustrazione, e infine apatia…che nessun paziente, credo, voglia mai leggere negli occhi di chi lo sta operando.

E, come se non bastasse, da un paio di giorni dilaga la notizia, per l’opinione di alcuni, “sconcertante” che riguarda medici che durante il loro lavoro scattano “selfie”. A questo punto mi domando e vorrei chiedere: è normale, anzi diciamo “umano”, che un medico al termine di una sessione chirurgica possa sentirsi stanco e stressato ma, ancora carico di endorfine come un atleta a fine gara, perché magari le cose sono andate nel modo giusto, lo stesso medico possa scaricare la sua tensione emotiva ascoltando musica, facendosi una risata con un collega, scaricando una foto o finanche facendosi un selfie? Mi chiedo quale norma del codice deontologico della professione medica sia stata violata, quale norma del codice civile o penale sia stata violata diffondendo un’immagine in cui non ci sono elementi identificativi dell’identità del paziente. Chiedo di verificare se ci siano gli estremi perché l’Ordine dei Medici ricorra nei confronti di chi ha leso l’onorabilità dei suoi iscritti ripresi in scatti privati e utilizzati per soli usi personali, diffondendo le immagini e travisandone palesemente il significato.

Bisogna sapere che le immagini che sono filmate e registrate nelle sale operatorie, sempre nel rispetto della privacy dell’identità del paziente, possono essere utilizzate a scopi scientifici e per la diffusione della conoscenza e dell’esperienza clinica. E sinceramente trovo inutile e superfluo scandalizzarsi, ma soprattutto strumentalizzare una foto, che di contro può essere vista come un momento di distensione per un lavoro che sempre viene tacciato di pressapochismo e negligenza senza tenere conto del “burnout” a cui gli operatori sono sottoposti. Credo che questa sia una mera lapidazione mediatica…sarebbe meglio occuparsi di più delle carenze di organico, e di mettere in sicurezza dal punto di vista tecnologico e strutturale gli ospedali come già succede nel resto dei paesi occidentali.

In un mondo globale dove all’Italia è richiesto di stare al passo con i tempi sempre più velocemente, dove i social network sono le più veloci forme e fonti di comunicazione, che ci permettono di confrontarci costantemente con colleghi stranieri, e che garantiscono la conoscenza e la diffusione della propria esperienza clinica e della ricerca scientifica, io credo che combatteremmo una battaglia impari e senza scambio culturale se non ci adeguassimo in questo senso.

 

Firmato

Antonio Mignone

 

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