TORTORELLA: la morte dell’imbianchino

Aldo Bianchini

SALERNO – La triste vicenda relativa alla morte dell’operaio imbianchino, prevedibilmente già pensionato, avvenuta “per causa violenta in occasione di lavoro”, in un locale adiacente alla clinica Tortorella, ripropone in tutta la sua drammaticità il modo con cui argomenti del genere vengono trattati dalla stampa locale non adeguatamente preparata a discernere su problemi attinenti la sicurezza e l’igiene sui luoghi di lavoro. Non per colpa dei giornalisti, badate bene, loro fanno quello che possono partendo dalla cronaca e dalle notizie velinate ma quasi sempre distorte; la colpa è degli editori che fanno sempre prevalere la ragione economica e la velocità della notizia in danno della qualità professionale. Difatti per parlare di infortunistica sul lavoro non è sufficiente rifarsi alla sola e sterile cronaca che pure è assolutamente necessaria sviscerare in tutti i suoi aspetti. Ma la cronaca, lo sappiamo benissimo tutti, tracima dai suoi canali tradizionali quando si è in presenza di un nome conosciuto o, peggio ancora, quando questo nome rappresenta una bella fetta della società salernitana. A questo punto conta poco la storia personale, la professionalità e la dedizione al proprio mestiere di imprenditore ovvero la professionalità dell’apparato sanitario di una clinica che da decenni è all’avanguardia nella sanità privata provinciale e regionale. E quale occasione migliore offre la cronaca per annunciare ai quattro venti che addirittura Giuseppe Tortorella (legale rappresentante della struttura sanitaria), i professionisti medici Michele Guglielmi (primario di cardiologia) e Luigi Bernardis (medico), e infine Paolo Leone (presunto locatario del locale-garage in cui si consumata la tragedia, perché di tragedia comunque si tratta) sarebbero stati tutti raggiunti da avviso di garanzia da parte della Procura della Repubblica (pm Vittorio Santoro). Leggendo i report giornalistici mi sono chiesto se può mai essere sufficiente un “semplice avviso di garanzia”, sicuramente notificato come “atto dovuto”, a consentire alla stampa di scrivere: “Nel mirino due camici bianchi”; leggendo rapidamente quelle poche parole confesso di essermi spaventato ed indignato ed ho pensato che i due medici (intervenuti per cercare di salvare una vita) fossero stati loro stessi gli autori del misfatto; poi ho riletto con attenzione e mi sono indignato ancora di più pensando all’impatto psicologico dei suddetti alla lettura, anche con i colleghi, dei giornali. “Nel mirino” è un’espressione molto particolare ma anche molto significativa e pesante sul piano della contaminazione dell’immagine di due uomini che, solo per il fatto di aver tentato ogni manovra sanitaria per salvare una vita, ora si trovano a dover essere indagati per un atto dovuto (altra distorsione presente nel codice penale). E che dire, poi, del legale rappresentante della Clinica Tortorella, Giuseppe Tortorella, che con la cugina Giovanna sovrintende ottimamente al buon andamento di una struttura sanitaria privata che, come detto, ha tracciato profondamente la storia di questa città, e non solo sotto il profilo medico-assistenziale; probabilmente Giuseppe Tortorella (come del resto i due medici coinvolti) non ha mai conosciuto il malcapitato Luigi Gaeta (un’altra vittima del lavoro) che, per arrotondare, era costretto a continuare nel suo lavoro di imbianchino ben oltre la pensione che presumibilmente già aveva in godimento. La stampa, noi tutti, prima di gridare allo scandalo e scrivere e dire inesattezze dovremmo cercare di capire innanzitutto il dramma di Gaeta costretto a lavori usuranti e poi soffermarci sulle dinamiche infortunistiche che, purtroppo, crea delle vittime innocenti nel numero di circa tre morti sul lavoro al giorno in tutto il Paese. Prima di parlare dovremmo sapere che le fasce di età più a rischio per il verificarsi di infortuni gravissimi e/o mortali sono quella comprese tra i 25 ed i 35 anni e quella tra i 50 e i 60 anni; nel primo caso c’è l’inesperienza, nel secondo la grande esperienza e quindi l’assuefazione al pericolo con grave percentuale di infortunio. Soltanto dopo si potrà allungare lo sguardo alla cronaca per cercare di capire se l’assunto iniziale “per causa violenta in occasione di lavoro” dia la possibilità di scoprire se si tratta di un “lavoro dipendente” oppure di un “lavoro autonomo” e se le due differenti posizioni siano regolarmente tutelate da una copertura assicurativa. Successivamente, e solo successivamente, ci si potrà inoltrare sulla strada della ricerca delle responsabilità con l’individuazione di un “responsabile della sicurezza” nel caso di lavoro dipendente ovvero della “responsabilità diretta” del committente che deve, per legge, contrattualizzare l’incarico lavorativo facendo salvi tutti gli obblighi assicurativi conseguenti. Ma ci sarebbero tante altre cose da capire e sapere nel determinismo dell’infortunio di che trattasi: caduta dall’alto, qualità del ponteggio o del trabattello e sue caratteristiche antinfortunistiche, violenza subita da terzi oppure un semplice malore tenendo conto sia dell’età che delle condizioni temporali e climatiche in cui operava il povero imbianchino. Queste sono una piccola parte di tutte le cose che bisognerebbe esplorare in tutti i casi di infortunio sul lavoro, a maggior ragione quando l’infortunio determina la morte del lavoratore, autonomo o dipendente che sia. La mia non è una difesa di parte, non conosco nessuno dei personaggi coinvolti, ma semplicemente un tentativo di rimettere le cose al loro giusto posto nell’attesa delle decisioni che spettano soltanto al magistrato inquirente che si pronuncerà sulla base dei rapporti degli organi istituzionalmente preposti alla vigilanza sulla sicurezza e igiene nei posti di lavoro.

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