Dossier Salerno/19: la nascita del sistema di potere, parte seconda

 

Aldo Bianchini

SALERNO – Nella precedente puntata di questa inchiesta ho parlato nuovamente della famigerata “delibera 71/89”. Secondo alcuni fu lo strumento necessario per bloccare l’enorme e sconsiderata colata di cemento che aveva attraversato tutti gli anni 70 e 80 per avviare un risanamento serio della città con la predisposizione di un innovativo “P.R.G.” (piano regolatore generale) in grado di dare a Salerno un riassetto urbanistico degno di qualsiasi altra città europea. Secondo altri fu lo strumento politico che i socialisti dell’epoca ritennero utile utilizzare per bloccare l’orientamento politico delle grandi famiglie di imprenditori cittadini e per convincerli con la forza a cambiare le bandiere sotto cui rifugiarsi. All’apparenza la delibera 71 sembrava davvero efficace ed efficiente, comunque in grado di ridisegnare la città anche attraverso gli standard urbanistici che, nelle intenzioni degli ispiratori, no n dovevano guardare in faccia a nessuno. Verosimilmente non fu così e si ebbe lo scardinamento del “sistema di potere” che con molta intelligenza le truppe socialiste erano riuscite a mettere in piedi in una realtà comunale che per oltre dieci anni aveva voltato spesso bandiera ed aveva prodotto ben 14 sindaci, tutti di matrice democratica cristiana. Poi arrivò Vincenzo De Luca e pronunciò le famose parole Partecipate ed arricchitevi, parole indirizzate alle suddette grandi famiglie che, grazie a tangentopoli, erano completamente allo sbando senza una forte guida politica. E De Luca si pose proprio come una guida forte e sicura e le sue parole furono le parole chiave della grande colata di cemento che ha invaso, invaderà e sommergerà la Città di Salerno. Parole più volte gridate da Vincenzo De Luca all’indirizzo degli imprenditori più facoltosi dell’intera provincia, senza distinzione di ceto sociale e colore politico. Su questo slogan assolutamente legittimo, però, il sindaco De Luca ha fondato il suo impero egemonico che in fatto di longevità si sta dimostrando il più attrezzato e coriaceo di tutti i tempi, almeno per quanto riguarda la provincia di Salerno. A dargli una mano importante è stata la non casuale e oggettivamente ben costruita “tangentopoli salernitana” pilotata dalla sinistra e violentemente utilizzata dalla magistratura in una sorta di disegno corale che, in poche battute, polverizzò gli astri nascenti della politica nostrana

(e più precisamente il socialista Carmelo Conte e il democristiano Paolo Del Mese trascinando nel baratro anche il primo vero, e forse unico, sindaco della gente: Vincenzo Giordano) che invece propugnava una partecipazione imprenditoriale sotto il controllo assoluto della pubblica amministrazionee, indirettamente, della politica. Con un semplice slogan De Luca ribaltò in pochi secondi tutto quello che era stato pensato e parzialmente progettato dal laboratorio laico e di sinistra degli anni ’80 che urbanisticamente guardava ad una città diffusa e non ad una città compatta come quella ispirata da De Luca al grande urbanista catalano Oriol Bohigas. La Città ipotizzata negli anni ‘80, secondo la direttiva urbanistica dell’epoca, doveva espandersi tutta ad oriente nell’ambito di una politica che prevedeva ”una città diffusa”, almeno verso la parte orientale come imponeva ed impone la stessa orografia territoriale. A tal fine, secondo qualcuno ed anche secondo una filosofia di pensiero molto diffusa tra i magistrati, era stata anche artatamente studiata a tavolino, redatta ed approvata in Consiglio Comunale la famigerata delibera n. 71 del 1989 che prevedeva la fissazione degli standard urbanistici, a mò di vincoli insormontabili, in modo da bloccare qualsiasi tipo di sviluppo urbanistico all’interno di “una città compatta”. Non a caso nella zona orientale era già  sorta, in quegli anni, la cittadella finanziaria, lo stadio Arechi e lì dovevano  sorgere la cittadella giudiziaria, il palazzetto dello sport, ed altro. Insomma da un lato c’erano i politici che programmavano gli interventi urbanistici, dall’altro lato c’erano soltanto alcune grandi famiglie che facevano incetta di terreni agricoli sui quali si sarebbe sviluppata la città del futuro. Questi due interessi furono raccolti nella Iniziativa ‘90e fu proprio questo avamposto di grande potere a scatenare la reazione delle tante altre “grandi famiglie” che ispirarono, spinsero e sorressero l’ondata giudiziaria nel più vasto disegno della tangentopoli. Tanto è vero che molti investimenti della società, soprattutto per l’acquisto dei terreni sui quali doveva sorgere la cittadella giudiziaria, naufragarono sotto i colpi di maglio della magistratura salernitana tutta schierata con il gran numero di famiglie tenute fuori da ‘“Iniziativa 90”. In partenza l’affare era dalle mille e una notte e, a mio avviso, benissimo fece il cavaliere Amato a prendere parte alla cordata ristretta di imprenditori che sponsorizzavano l’azione aggressiva della società; in pratica lì si decideva il futuro della Città dal punto di vista urbanistico, politico e imprenditoriale. Poi l’affare naufragò, è vero, ma naufragò per le ragioni sopra esposte che in partenza non erano assolutamente prevedibili. Quello che sto raccontando (la reazione brutale della grandi famiglie tenute fuori dall’affare miliardario !!) non è storia inventata, è soltanto il riassunto (semmai leggermente armonizzato e incasellato) di una lettera che fu inviata nel luglio del 1993 dal carcere di Fuorni al Presidente della Repubblica da uno dei maggiori protagonisti politici di quell’epoca che, suo malgrado, era finito dietro le sbarre. Il quadro tracciato in quella lunghissima lettera era ed è assolutamente agghiacciante per contenuti e per verità storiche; quella lettera, ovviamente, evidenziava una pecca in quanto non indicava le modalità e i parametri di scelta delle imprese facenti capo alle grandi famiglie incluse nell’affare. In quella battaglia senza esclusione di colpi si scontrarono interessi non solo di imprese e di famiglie ma di politici importanti che, dall’avellinese e dal napoletano, volevano allungare le mani sulla città di Salerno. Tutto questo Vincenzo Giordano lo sapeva benissimo ed a ragion veduta volle tenacemente che venisse approvata la delibera 71/89 al fine di fermare sul nascere la minacciata invasione barbarica. Ma a far naufragare tutto ci pensarono, probabilmente, proprio quelle famiglie di cui alla lettera spedita dal carcere al presidente Scalfaro. Ma naturalmente la “delibera 71” non passò nella sua versione originale in quanto alla stessa fu messo un vincolo temporale (se ben ricordo di 5 anni) per l’approvazione del PRG senza alcuna indicazione circa la direttrice (città diffusa o compatta) sulla quale doveva muoversi il piano regolatore. E qui si registro un altro capolavoro della strategia politica di Vincenzo De Luca il quale, una volta preso il potere reale nel 1993, fece di tutto per preparare e far approvare una bozza del nuovo PRG dandogli, però, con l’aiuto di Oriol Bohigas una direzione verso la “città compatta” che era esattamente il contrario di quella ipotizzata dalla succitata delibera comunale. Ma De Luca sapeva benissimo che solo con la v”città compatta” avrebbe potuto cancellare gli standard urbanistici in città per fissarli esternamente alla cinta cittadina in modo da dare ampia possibilità per la colata di cemento in quello che fino ad allora era considerato il centro storico, con le sue varie propaggini, entro il cui perimetro non poteva essere mossa neppure una pietra. Ecco il potere, anzi il sistema di potere che regge da oltre venti anni e che si connota con radicamento inattaccabile ben lungi dal quel sistema di potere quasi scolastico di Conte e Del Mese. E le grandi famiglie accorsero ed accorrono come api verso il miele. Il motto “partecipate ed arricchitevi” aveva vinto la sua battaglia.

Tutto il resto sono soltanto chiacchiere che hanno travolto anche i progetti faraonici delle grandi opere strutturali di interesse pubblico. Prima fra tutte la strada a scorrimento veloce denominata “Fondovalle Calore” che da sola doveva servire da raddoppio dell’A3 in un tratto difficilissimo utile per baipassare il tratto Eboli-Atena Lucana e che sempre da sola procurerà guai giudiziari impensabili fino a quel momento; si parla anche del riammagliamento stradale e autostradale dell’intera provincia, si vara il prolungamento della tangenziale fino all’Aeroporto di Pontecagnano e successivo tratto fino ad Agropoli con bretella verso San Nicola Varco per favorire la costruzione del terminale dell’alta velocità nell’ambito del cosiddetto “interporto” che doveva rilanciare in campo nazionale le quotazioni socio-economiche di tutto il nostro territorio. Per la città di Salerno il piano progettuale era ancora più ambizioso: si progettò il trincerone ferroviario (tre lotti) per collegare il centro con la tangenziale in zona Sala Abbagnano, la lungoirno, la metropolitana, la cittadella finanziaria e quella giudiziaria, l’ampliamento del porto turistico, il nuovo lungomare, la nuova strada litoranea più a monte di quella esistente, l’ampliamento della Salerno-San Severino  e del collegamento in galleria e superstrada tra Mercato S.S. ed Eboli in modo da superare il nodo di Fratte ed allacciare direttamente la superstrada sia con l’A3 (Salerno_Reggio) che con la costruenda Fondovalle Calore. Ma si pensò anche al risanamento del centro storico ed all’arredo urbano dell’intera città, senza dimenticare il Teatro Verdi, il ripascimento di tutto il litorale da Salerno a Paestum, senza trascurare la progettazione del nuovo mercato ortofrutticolo e di un polo agro-alimentare capace di servire l’intera area metropolitana di nuova concezione. Si pensò inoltre al collegamento in galleria (due superstrade) tra il porto commerciale e la zona di Cernicchiara ed alla futura e possibile delocalizzazione dello stesso porto commerciale con ampliamento di quello turistico dalla foce dell’Irno fino alle Rocce Rosse. La gente comune, l’elettore medio, il grande elettore e il mondo industriale e imprenditoriale avvertirono che la mossa strategica di De Luca poteva essere quella vincente, la nuova legge elettorale fece il resto e dopo il 5 dicembre 1993 il nuovo sindaco si trovò a gestire un potere immenso che trovava il suo radicamento nello sconfinato consenso popolare.  E’ forse tutta qui la nascita del “sistema di potere deluchiano” che, a differenza del laboratorio socialista, disponendo di un largo consenso popolare imponeva la legge del “prendere o lasciare” alle grandi famiglie che non ci pensarono neppure un secondo per buttare all’aria il sistema che aveva preceduto quello del kaimano. Prima di chiudere è necessario rimarcare un altro concetto. Carmelo Conte lasciò incautamente ad altri il potere locale per cercare di entrare in quello nazionale sull’onda del successo del suo laboratorio. Vincenzo De Luca solo per un tratto del suo potere ha commesso lo stesso errore ma, più freddo e calcolatore, è ritornato subito sui suoi passi spedendo a casa il suo sostituto (De Biase) e mandando a Roma e poi tenendolo ben stretto il più pericoloso tra i suoi successori (Bonavitacola) ed ora ha fatto sedere al suo posto colui che è stato eletto a furor di popolo e che non ha avuto ancora il coraggio di entrare nella sua stanza.

One thought on “Dossier Salerno/19: la nascita del sistema di potere, parte seconda

  1. Certe ricostruzioni storiche, sinteticamente ma oggettivamente condotte con toni imparziali e attenti a non travisare il succedersi degli avvenimenti, sono utili per far conoscere anche a chi, per età o per altre motivazioni, non aveva avuto modo di assistere a quanto, nel corso degli anni, accadeva nel lungo processo di ricostruzione del tessuto urbano salernitano.
    È noto che ancora negli anni successivi al secondo conflitto mondiale Salerno era una cittadina con poche decine di migliaia di abitanti, per giunta semidistrutta per gli eventi bellici che avevano interessato il suo territorio comunale e quelli circostanti.
    Percorrendo la strada statale 18 verso sud, si incontravano solo piccoli agglomerati di case che individuavano le cinque frazioni di Torrione, Pastena, Mercatello, San Leonardo e Fuorni, separate fra loro da terreni utilizzati prevalentemente per coltivazioni agricole.
    Con l’inizio della massiccia urbanizzazione cominciata nell’era della ricostruzione postbellica, gli spazi del centro cittadino dove far sorgere case ed edifici per soddisfare le richieste di abitazioni dei nuovi arrivati, risultarono insufficienti. Cominciò quindi l’assalto ai suoli, dichiarati edificabili a volte in maniera affrettata.
    Le urgenze di quei momenti, la mancanza di certe conoscenze specifiche e di adeguate sensibilità verso la salvaguardia ambientale, l’assenza di visioni condivise per armonizzare esigenze abitative con sviluppo di infrastrutture e insediamenti congeniali alla crescita socio economica della città, furono tutti fattori determinanti per l’insorgere di contrasti di opinioni, già a partire dai primi anni della ricostruzione.
    Anche se in termini non esplicitamente dichiarati, nei dibattiti e nei confronti fra le possibili soluzioni, non mancavano i paladini della “città compatta” in contrapposizione a quelli della “città diffusa”.
    Entrambe le categorie – e senza con questo voler minimamente tirare in ballo comportamenti leciti o illeciti delle parti in causa oppure evocare fini palesi o reconditi per scalate ai … privilegi dei “poteri forti” – ebbero in comune la capacità di incidere sul saccheggio del territorio in maniera purtroppo irreversibile.
    Due grosse calamità naturali succedutesi negli anni (alluvione e terremoto) furono ancora occasioni per far convivere, fra alti e bassi, proposte e decisioni non sempre opportunamente meditate perché ispirate ancora dall’emergenza, ma in molti casi furono apportatrici comunque di danni sul territorio.
    Venne poi il momento di redigere un Piano Regolatore Generale con l’intento di predisporre un più moderno strumento organico di riqualificazione e di sviluppo urbanistico-economico-industriale della città.
    Sarebbe stato strano se nella elaborazione, discussione ed esame di quel documento programmatico non si fosse assistito all’insorgere di partiti contrapposti, ciascuno portatore di opinioni e critiche proprie, valide oppure semplicemente opinabili, ma pur sempre degne di attenzione. E ancora esse non sono sopite nonostante il trascorrere degli anni, anzi trovano alimento nel procedere lento di molti lavori e nel parziale avanzamento dell’iter previsto per il completamento degli stessi.
    L’elenco quindi delle tante opere ipotizzate con il suddetto Piano, come riportato nell’articolo, non poteva sfuggire all’intreccio di critiche e commenti sempre pronti e manifestarsi in simili circostanze.
    Dal mio punto di vista, esso ha rappresentato un momento di svolta, se non altro per aver approntato con una visuale di più ampio respiro un programma di sviluppo e crescita della città, sfaccettato e di tipo polivalente, anche se di difficile realizzazione in tempi contenuti, sia per l’onerosità degli impegni assunti che per il reperimento dei fondi necessari per attuarlo nella sua totalità.
    Esso ha avuto il merito, pur con qualche inevitabile forzatura, di evidenziare l’importanza di curare anche altri aspetti della vita cittadina, oltre alla reperibilità di spazi da destinare ad uso abitativo. Quindi nuova viabilità per creare assi si scorrimento capaci di sopperire alla situazione asfittica vissuta dal capoluogo in tale settore; costruzione di più ampi e moderni edifici e/o strutture destinati a pubblici uffici e ad attività sportive e ricreative; linee di trasporto pubblico di tipo alternativo; interventi specifici in aree a connotazione industriale onde incrementarne la produttività a beneficio della crescita socio-economica e occupazionale sul territorio; ecc.
    In tale contesto, mi sono soffermato ancora su detto elenco per evidenziare – e non con intenti critici ma solo con fini propositivi – come gli estensori di quel Piano, pur audaci (direi incoscienti !!) nel proporre certe architetture, infrastrutturali e non solo, non ebbero abbastanza coraggio, anzi si dimostrarono incerti ed elusivi, quasi inadatti per affrontare “l’annoso problema” di come superare il grosso ostacolo di natura orografica esistente nell’area retrostante il porto commerciale. Infatti nell’elenco suddetto non se ne fa menzione.
    Ora sono quasi tentato di definire un alibi trincerarsi dietro la fatidica, generica e riaffiorante idea della “delocalizzazione” dello scalo commerciale: nelle condizioni date – di adesso ma anche di allora e prima di allora – sarei curioso di conoscere dove si intenderebbe individuare il sito idoneo ove trasferire impianti moli banchine e quant’altro, senza incontrare difficoltà, quelle sì insormontabili, di tipo facilmente immaginabile.
    Risale, a mio parere, proprio a quella mancata volontà o capacità di avvicinarsi alla tematica specifica, se si è andata sedimentando la convinzione che lo scalo marittimo salernitano doveva rinunciare (e … poteva farne a meno) ad un potenziamento e ammodernamento delle sue infrastrutture e in particolare ad avere almeno una bretella di collegamento ferroviario diretto fra le sue aree interne di movimentazioni dei carichi e la rete nazionale.
    Con il risultato inaccettabile che, quasi per una inconscia volontà di andare controcorrente, si continua ad ignorare il trend della moderna portualità e non si è presenti con proposte e progetti ad hoc nelle sedi decisionali, neanche nella attuale congiuntura che vede le autorità politiche consapevoli della valenza dei trasporti su rotaia a servizio degli scali marittimi (*) e quindi ben disposte a incoraggiare e finanziare prioritariamente importanti e impegnativi interventi mirati, proprio i9n tale settore, o per migliorare l’esistente o per creare nuove infrastrutture ad hoc ove mancanti.
    Le recenti delibere del CIPE ne sono una conferma.

    (*) Si registrano incrementi percentuali anche di 2 cifre nei volumi di traffici gestiti con l’impiego di tale modalità di trasferimento delle merci, da e per le banchine portuali.

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