TERREMOTO/6: la grande ricostruzione, da Zamberletti a Piano … passando per Bertolaso

Maddalena Mascolo

 

SALERNO – Tutti scienziati, tutti saccenti, tutti schierati con il potente di turno; dai salotti televisivi alle conferenze di servizio, soprattutto quando si parla di ricostruzione post sisma e/o disastri naturali. Le linee di pensiero sono diverse, una più incredibile dell’altra, ma passa ad ogni tragica tornata la linea che sposa il potente di turno: Fanfani/Andreotti/Forlani, Berlusconi, Monti e Renzi. Ognuno di loro ha avuto il proprio propagandista della linea che doveva passare in quel momento storico; alcuni portatori di una certa autonomia (almeno a livello di immagine) altri completamente sottomessi al potere costituito: Zamberletti, Bertolaso, Gabrielli e Curcio. Naturalmente i quattro massimi interpreti delle diverse linee di pensiero si sono fatti affiancare, sempre, da veri e propri scienziati (singolarmente e/o in gruppo) che hanno sponsorizzato e sostenuto nel corso dei tempi le varie tesi propugnate dai grandi capi politici. E il successore sempre pronto a sconfessare il predecessore in maniera palese e a volte spregiudicata; Zamberletti che sconfessò tutti i suoi predecessori con la novità del grandioso successo in Friuli (ancora oggi evocato dai grandi saccenti), Bertolaso sconfessò Zamberletti, Gabrielli sconfessò Bertolaso e Curcio che, al momento, non si è ancora pronunciato ed aspetta riverente la risoluzione delle incertezze di Renzi che sembra, comunque, essersi orientato verso i centieri leggeri e il casa-bonus, sposando esattamente la linea di pensiero di Giuseppe Zamberletti. Una linea che è giusto ricordare ebbe un notevole successo in Friuli e un clamoroso disastro in Irpinia. Sembra, dunque, scomparire (non si sa se momentaneamente o per sempre) la filosofia della “new-town” tanto amata da Berlusconi. Le new town, dette anche città giardino (in realtà “figlie” della città giardino), sono sorte in Inghilterra a partire dal 1947 per controllare la crescita preoccupante di Londra. Le new town inglesi sono ben collegate con la capitale tramite servizi ferroviari e autostradali, e provviste di tutti i servizi, dai cinema alle università. Ci vivono attualmente circa un milione di persone. Le new town seguono generalmente lo stesso schema urbanistico: al centro si trova un’area amministrativa-commerciale, circondata interamente da quartieri residenziali, separati da parchi e piccole aree agricole caratterizzati da colorate villette a schiera con il tradizionale giardino (da cui il nome; in verità Ebenezer Howard, inventore della “città giardino“, intendeva, usando tale termine, qualcosa di più sostanziale e complessivo). Le new town hanno conosciuto un successo internazionale e il loro modello è stato esportato in tutto il mondo. Negli ultimi giorni sembra, però, prevalere una filosofia nuova e diversa, esattamente a metà strada tra i cantieri leggeri e le new town; una filosofia già avviata in parte dallo stesso Berlusconi per il post terremoto del 2009. Da Amatrice a Arquata ed ad Accumoli le popolazioni colpite dal sisma del Centro Italia chiedono sistemazioni provvisorie nelle unità in legno sul modello di Onna, a L’Aquila: i 2.500 sfollati del terremoto del 24 agosto tra Reatino e Ascolano hanno le idee chiare in tema di ricostruzione. “Né container, né new town dopo le tendopoli mini-chalet sul modello di Onna, a L’Aquila, vicini a dove abitavamo“. Il modello a cui guardano, dunque, è il Map (modulo abitativo provvisorio) a un unico piano, dai 40 ai 70 metri quadri a famiglia e interamente realizzato in legno. Per ritrovare il calore di una casa, anche se precaria, e per tentare di recuperare la quotidianità sotto un tetto sicuro. La situazione, comunque, è ancora molto fluida anche perché prima di avviare le scelte future è giusto e necessario un momento di sana riflessione, anche se il tempo incalza, il freddo sta per arrivare, i bambini devono ritornare a scuola e i terremotati devono avere un tetto sicuro. Dopo questo ampio preambolo è giusto rifare la storia di quanto accaduto, invece, nel dopo terremoto dell’80 e della ricostruzione avviata e mai definitivamente completata. La legge Zamberletti, la famigerata legge n. 219/81, diede il via alla più grande ricostruzione mai avvenuta nella storia del nostro Paese. Non è stato mai possibile fermare una stima precisa dei costi che vengono enunciati sempre per approssimazione e mai con assoluta chiarezza. Solo per l’emergenza lo Stato impegnò circa 4.684 miliardi di lire; per l’edilizia residenziale e opere pubbliche circa 15.288 miliardi; per interventi di competenza regionale circa 1.951 miliardi; per interventi mirati allo sviluppo altri 1.951 miliardi; solo per Napoli circa 12.784 miliardi; per interventi delle amministrazioni dello Stato circa 2.412 miliardi e circa 6.375 miliardi come disponibilità residue; un totale che supera i sessantamila miliardi di vecchie lire, paragonabili a circa 30miliardi di euro dei giorni nostri. Una cifra assolutamente impensabile ed improponibile di questi tempi, anche se non bisogna mai dimenticare che quello dell’Irpinia fu un terremoto dalle proporzioni apocalittiche e dalle dimensioni mai registrate, né prima e né dopo. Giuseppe Zamberletti ebbe subito una grande intuizione, quella di suddividere in  fasce A e B le aree di immediato intervento. Le fasce di Zamberletti erano molto strette intorno al cratere che andava, a cavallo della catena appenninica, dalla Sella di Conza (Av) fino a Balvano (Pz) passando per la Valle del Sele. Ma l’azione restrittiva del commissario varesino Zamberletti fu subito sepolta dai magnati della politica che allargarono a dismisura le fasce di intervento fino a comprendere zone che erano state soltanto sfiorate dal potente sisma e da qui l’inarrestabile sciupio del danaro pubblico. Se a Zamberletti può essere imputata una colpa, la colpa è quella di non aver saputo dire di no alla politica dilagante. Soltanto oggi i politici, da Ciriaco De Mita ad Antonio Bassolino, gridano alla scandalo dell’allargamento delle fasce e dimenticano che ieri, probabilmente, anche loro furono tra i fautori di quello scellerato allargamento. I comuni effettivamente colpiti erano relativamente pochi; qualche decina i disastrati, un centinaio i danneggiati in modo più o meno grave, Nel maggio dell’81 però un decreto dell’allora Presidente del Consiglio Arnaldo Forlani classificò come “gravemente danneggiati” (con un grado di distruzione dal 5 al 50 per cento del patrimonio edilizio) oltre 280 comuni: tutta la provincia di Avellino, Napoli e tutta l’area metropolitana, 55 comuni del salernitano, 34 del potentino, 50 comuni del beneventano, 8 comuni del casertano e 9 del materano. Un numero impressionante se paragonato ai disastri del Friuli, di L’Aquila, dell’Emilia, del Centro Italia e dello stesso Belice (tanto per un ricordo al passato). Alla fine dell’81 il disastro venne ulteriormente allargato (subentrò un nuovo governo)  ed altri 312 comuni entrano nella fascia B dei danneggiati. Alla fine i comuni ammessi alle provvidenze risultano essere ben 687 con 59.816 case da ricostruire e 146 mila case da riparare: una enormità. In Parlamento si formò uno schieramento trasversale (dalla DC fino al PCI) che in un libro Isaia Sales ha successivamente definito come “il partito degli occasionisti” con a capo De Mita, Gava, Scotti, Cirino Pomicino, De Vito (ministro per il Mezzogiorno), Fantini, Di Donato, De Lorenzo, ecc. Letteralmente stravolta la mappa delle ricognizioni ordinata da Zamberletti che, a quel punto, non aveva più voce in capitolo.  Il partito degli occasionisti fece letteralmente arricchire i tecnici progettisti che stimolarono le domande da parte delle famiglie ma anche dei discendenti in linea diretta; qualcuno sussurra che ci fu anche una sorte di cavallo di ritorno tra politici, tecnici e beneficiari. Difficile dirlo; si può solo affermare che centinaia di persone, soltanto perché anagraficamente residenti nei paesi terremotati, ma domiciliate da decenni all’estero, riuscirono a costruirsi la casa per le vacanze dei loro discendenti. Alcuni dei titolari dei “buoni contributo” non sono mai rientrati in Italia, neppure per vedere le loro nuove case. Rimane un dubbio: il terremoto è stato una occasione di sviluppo o un canale privilegiato di trasferimento di risorse pubbliche nella gestione di pochi. Difficile rispondere a questa domanda che in questi giorni ha ripetuto Bruno Vespa dal suo “Porta a Porta” rimanendo quasi sepolto sotto una valanga di critiche. C’è anche in questo caso una sola certezza, quella delle parcelle tecniche. Pensate, per ogni progetto i tecnici ottennero un compenso pari al venti per cento del buono-contributo che a sua volta fu quasi sempre superiore ai cento milioni di lire. Ora è più facile capire perché dopo trentasei anni e dopo 150 mila case ricostruite, qualche migliaio di terremotati è tuttora costretta a vivere nei prefabbricati.

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