TANGENTOPOLI: una delle tante storie

 

 

Aldo Bianchini

 

SALERNO – La storia, quella scritta, fissa una data: 17 febbraio 1992, giorno in cui parte la tangentopoli nazionale. I posteri ricorderanno questa data come transito storico-politico dalla Prima alla Seconda Repubblica e, forse, non sapranno più nulla.

Ma cosa accadde quel giorno in cui iniziò tangentopoli o, meglio ancora, la famosa “mani pulite” portata avanti dalla Procura della Repubblica di Milano con un pool specializzato nei reati della pubblica amministrazione e costituito dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, con il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio e con i sostituti Antonio Di Pietro, Pier Camillo Davigo, Gherardo Colombo, Ilda Boccassini, Armando Spataro, senza dimenticare Tiziana Parenti (detta Titti) alla quale fu affidato il filone “cooperative rosse” che produsse l’arresto di Primo Greganti (il comunista che è stato nuovamente arrestato qualche mese fa per la vicenda delle tangenti milanesi legate all’Expo) ma procurò anche tanti guai alla Tiziana che presto si rifugiò in politica.

Ma ritorniamo a quel giorno del febbraio 1992.

ll pomeriggio del 17 febbraio 1992  (limpida giornata invernale) l’ingegnere Mario Chiesa (Presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano) riceve nel suo elegante ufficio un modesto imprenditore, Luigi Magni, la cui impresa assicura la pulizia di uno dei rami dell’istituto.

L’incontro trai due é così tratteggiato nel libro Le Mani Pulite di Enrico Nascimheni e Andrea Pamparana:

Magni: “Ecco i soldi ingegnere“;

Chiesa: “Solo sette milioni“;

Magni: “Si, non ho potuto mettere insieme la cifra intera, soprattutto cosi, in contanti“;

Chiesa: “L’accordo, pero, e …;

Magni: “Lo so, ingegnere. lo so. Porterò senz`altro gli altri sette“.

L’ingegnere Mario Chiesa è in piedi, dietro la pesante scrivania in noce. Prende in mano 70 pezzi da centomila lire, apre un cassetto della scrivania e butta dentro lestamente il danaro

Magni pungola Chiesa a parlare. Ha una valigetta con una microtelecamera e sul risvolto della giacca una potente microspia.

Dopo qualche minuto, la porta dell’ufficio di Mario Chiesa si spalanca. Entrano il dottor Antonio Di Pietro, uno dei sostituti della Procura di Milano, il capitano dei Carabinieri Roberto Zuliani, che comanda il gruppo di investigatori del nucleo-operativo e altri tre militari dell’Arma in borghese.

Il presidente tenta un minimo di difesa e abbozza: “Questi sette milioni sono miei“, Di Pietro risponde: “No, quelli sono soldi nostri“.

Parte cosi, nella maniera più semplice e sbrigativa, la tangentopoli italiana. Da quel momento tutti tremano: politici, magistrati, imprenditori, amministratori, comuni funzionari di apparato e semplici faccendieri, anche se tutto fila liscio, almeno all’apparenza, fino alle consultazioni elettorali politiche del 5-6 aprile 1992. Poi l‘onda lunga, che rapidamente travolge tutto e tutti.

Sono passati 25 anni da quel giorno ed è accaduto di tutto e di più. Possiamo, però, affermare in tutta certezza che quella del pm Di Pietro fu l’ultima indagine giudiziaria che si muoveva ancora sul solco delle indagini tradizionali (accertamenti, pedinamenti, blitz e confessione) e fu la prima che introdusse la microtecnologia che prese rapidamente il sopravvento su tutte le altre tecniche unitamente al pentitismo che era nato con le Brigate Rosse e che, proprio in quegli anni, si consolidava come unico strumento di indagine.

In pratica con “mani pulite” nacque anche il “processo con patteggiamento” sull’onda del nuovo c.p.p. che era stato partorito da poco più di due anni e che non aveva ancora trovato valido radicamento nell’ordinamento giudiziario.

La cosa più importante di tangentopoli venne, però, costruita a tavolino tra la Procura Penale, la Procura Generale, la Presidenza del Tribunale e l’Ufficio GIP; in pratica tutte le inchieste di tangentopoli confluirono dai vari pm nella competenze del solo Gip Italo Ghitti che in pratica viveva in simbiosi con il pool mani pulite di cui sopra. Il pool, quindi, aveva un riferimento unico e fisso e il gip navigava a vista sull’esito delle indagini del pool. Ghitti lasciò abbastanza presto il pool per transitare al CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) e poi in Parlamento. Sulle vicende relative a Mani pulite Ghitti ebbe occasione di rompere il silenzio in una intervista in cui ammise che le decisioni da lui assunte nel 19921993 erano spesso pedissequi accoglimenti delle richieste della Procura della Repubblica, non essendogli possibile o pratico revisionare tutti gli elementi di prova (che venivano ritenuti fondati spesso senza neppure aver avuto il tempo di esaminarli): a sua volta, sostenne Ghitti, lo stesso PM spesso prende per buone le attività di indagine effettuata dalla polizia giudiziaria, senza un reale riscontro. Peraltro Ghitti si è sempre vantato che in ben 60 occasioni non aveva convalidato le proposte del pool mani pulite.

Questa la prima mossa vincente della Procura milanese che seppe, comunque sfruttare al meglio l’affermazione con cui Bettino Craxi aveva definito Chiesa “un piccolo marioncello”, in pratica buttandolo a mare pensando di evitare guai seri per se stesso visto che Chiesa era, per Milano, il suo braccio destro. Andò a finire che il pool seppe inserirsi molto bene nel subconscio di Chiesa spingendolo contro Craxi reo di quelle affermazioni; allora Chiesa sciolse qualsiasi esitazione e decise di parlare. Per ben cinque giorni il pool, con la presenza anche del Gip, incassò tutte le rivelazioni di Chiesa che descrisse alla perfezione il “sistema politico di potere e di collusione” finalizzato alla percezione di tangenti illecite. Il pool, nel massimo riserbo istruttorio, andò alla ricerca di tutti i riscontri prima di partire con la devastante azione giudiziaria che coinvolse tutti i partiti politici (fatta eccezione per il PCI che fu soltanto sfiorato) e tutti gli uomini che li rappresentavano, così come vennero coinvolti i maggiori Enti pubblici quali l’ENI, la Montedison e l’Enimont.

Il 29 aprile del ‘93 la Camera dei deputati negò l’autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi, uno degli inquisiti più celebri di Tangentopoli. Quello stesso giorno Craxi si era presentato nell’aula e in un discorso ammise di aver ricevuto finanziamenti illeciti, ma si giustificò sostenendo che i partiti non potevano sorreggersi con le entrate legali e attaccò l’ipocrisia di coloro che, all’interno del Parlamento, sostenevano le tesi dei magistrati, ma in realtà anche loro avevano beneficiato del sistema delle tangenti. Mentre il Presidente della Camera, Giorgio Napolitano, leggeva i risultati delle votazioni contrari all’autorizzazione, i deputati della Lega Nord e del MSI insultarono i colleghi dando loro dei ladri e degli imbroglioni ed esponendo il famigerato “cappio” costituito da una fune con nodo scorsoio.

Pochi più di un anno dopo le confessioni devastanti di Mario Chiesa iniziò anche la stagione dei tanti suicidi. Il 20 luglio 1993, l’ex presidente dell’ENI, Gabriele Cagliari, da oltre quattro mesi in carcere preventivo, si uccise, dopo aver scritto una lettera in cui accusava i PM di Milano di tenerlo in carcere con l’intento di farlo confessare; in seguito, sua moglie restituì oltre 6 miliardi di lire di fondi illegali. Tre giorni dopo (il 23 luglio) si uccise con un colpo di pistola anche Raul Gardini, presidente del gruppo FerruzziMontedison. Gardini aveva saputo dal suo avvocato che stava per essere coinvolto nelle indagini di Mani pulite sulla tangente Enimont. Alcuni ipotizzarono che il suicidio di Gardini abbia avuto tra le cause scatenanti, oltre al tentativo di eludere il proprio coinvolgimento nel caso Enimont, anche l’intento di non esporsi a collegamenti con Cosa nostra che stavano emergendo dalle indagini; altri ancora ipotizzarono addirittura che il suicidio fosse in realtà un omicidio premeditato negli ambienti politici e che si inscrivesse in un disegno di copertura della corruzione cui appartenne anche il presunto suicidio di Sergio Castellari. La connessione di Castellari con lo scandalo Enimont sarebbe stata costituita dalla sua carica di ex direttore generale del ministero delle Partecipazioni Statali, nella cui veste Castellari aveva seguito, insieme al Ministro Franco Piga, tutta la vicenda della joint venture: eppure, pochi giorni prima che scomparisse e che il suo corpo senza vita fosse trovato in una collina a Sacrofano –ucciso da un colpo di pistola sparato alla nuca– aveva inviato al suo avvocato un memoriale in cui spiegava di essere stato completamente escluso dalle trattative che avevano concluso la vicenda Enimont.

Nel 1994, Silvio Berlusconi entrò in politica (con le sue parole, «scende in campo») e a fine marzo il suo partito vinse le elezioni. Poco dopo la vittoria, Berlusconi propose pubblicamente a Di Pietro di entrare a far parte del suo governo come Ministro dell’Interno e a Davigo come Ministro della Giustizia, ma entrambi rifiutarono. Nel 2006, Berlusconi negherà di aver mai chiesto ai due magistrati di entrare nel suo governo.

Nel corso del 1993 e a seguito della sua testimonianza al processo Cusani, emersero sempre più prove contro Bettino Craxi: con la fine della legislatura e l’abolizione dell’autorizzazione a procedere, si fece sempre più vicina la prospettiva di un suo arresto. Il 15 aprile 1994, con l’inizio della nuova legislatura in cui non era stato ricandidato, cessò il mandato parlamentare elettivo e, di conseguenza, venne meno l’immunità dall’arresto. Il 12 maggio 1994 gli venne ritirato il passaporto per pericolo di fuga, ma era già troppo tardi perché Craxi, come si seppe solo il 18 maggio, era già ad Hammamet, in Tunisia; il 5 maggio era stato avvistato a Parigi. Il 21 luglio 1995 Craxi fu dichiarato ufficialmente latitante.

Il 13 luglio 1994 il governo emanò un decreto legge (cosiddetto “decreto Biondi” –dall’allora Ministro della Giustizia Alfredo Biondi– spregiativamente soprannominato dai critici “decreto salva ladri”) che favoriva gli arresti domiciliari nella fase cautelare per la maggior parte dei crimini di corruzione: erano invece esclusi dal decreto i reati che riguardavano la criminalità organizzata, il terrorismo, l’eversione, il sequestro di persona e il traffico di stupefacenti. Nel merito un imputato poteva essere tenuto in carcere solo se il rischio di fuga era effettivo e ogni altra misura appariva inadeguata. Veniva inoltre ampliata la possibilità del patteggiamento. Il decreto fu votato lo stesso giorno in cui alle semifinali del Campionato Mondiale di calcio 1994, l’Italia sconfiggeva la Bulgaria. Questa coincidenza alimentò il sospetto che si volesse sfruttare un momento in cui l’opinione pubblica era distratta dai Mondiali. Francesco Saverio Borrelli dichiarò polemicamente: “Hanno approfittato di una partita di pallone per fare il decreto”. I ministri approvarono il decreto all’unanimità (nonostante qualche scetticismo di Raffaele Costa e Altero Matteoli) e il giorno dopo fu firmato dal Capo dello Stato.

Contro il decreto si schierò il pool al completo e con loro la maggior parte dei magistrati milanesi dichiararono che avrebbero rispettato le leggi dello Stato, incluso il decreto Biondi, ma che non potevano lavorare in una situazione di conflitto tra il dovere e la loro coscienza, chiedendo, con un comunicato letto da Di Pietro in diretta televisiva, di venire assegnati ad altri incarichi. Nel testo, firmato da Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco e Gherardo Colombo, c’era scritto: “”Fino ad oggi abbiamo pensato che il nostro lavoro potesse servire a ridurre l’illegalità nella società convinti che la necessità di far osservare la legge nei confronti di tutti fosse generalmente condivisa. L’odierno decreto legge a nostro giudizio non consente più di affrontare efficacemente i delitti su cui abbiamo finora investigato. Infatti persone raggiunte da schiaccianti prove in ordine a gravi fatti di corruzione non potranno essere associate al carcere neppure per evitare che continuino a delinquere e a tramare per impedire la scoperta dei precedenti misfatti, perfino comprando gli uomini a cui avevamo affidato le indagini nei loro confronti. Quando la legge, per le evidenti disparità di trattamento, contrasta con i sentimenti di giustizia e di equità, diviene molto difficile compiere il proprio dovere senza sentirsi strumento di ingiustizia. Abbiamo pertanto informato il Procuratore della Repubblica della nostra determinazione a chiedere al più presto l’assegnazione ad altro e diverso incarico nel cui espletamento non sia stridente il contrasto tra ciò che la coscienza avverte e ciò che la legge impone””.

Per scriverla tutta la storia di tangentopoli ci vorrebbero libri e libri, un articolo è forzatamente molto riassuntivo. Seguirono indagini, perquisizioni, arresti, rinvii a giudizio e poche condanne definitive; furono anni che, comunque, hanno cambiato la storia di questo Paese e che continuano, forse, a cambiarla.

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