BERNARDO TASSO, FERRANTE SANSEVERINO E LA LIRICA RINASCIMENTALE

 

di Giovanni Lovito

SALERNO – La storia letteraria del secolo XVI, oltre a scrittori regolarmente riconosciuti e studiati nel panorama generale della letteratura italiana, annovera poeti e studiosi segnalati, di solito, come ‘minori’. Tra gli stessi ricordiamo Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Galeazzo di Tarsia, il Trissino, Bernardo Tasso, lo Speroni, Veronica Gàmbara, Luigi Tansillo e, soprattutto, Pietro Bembo, le cui ragguardevoli opinioni in merito alla ‘questione della lingua’ ritrovarono la loro grande eco nelle Prose (1525), dialoghi che si fingono avvenuti a Venezia nei giorni 10, 11 e 12 dicembre 1502. La rivalutazione dei trecentisti, inoltre, contemplò la fioritura di una nuova corrente letteraria che assunse il nome di Petrarchismo, in stretta correlazione con lo studio minuzioso dello stile poetico del cantore di Laura che improntò di sé anche la più grande poesia del secolo. Dante, con il De vulgari eloquentia, era già intervenuto sulla questione linguistica, esaltando quel ‘volgare illustre’ formato da «quanto di meglio reca in sé ogni dialetto»:

«Trad. […] il volgare, che di sopra cercavamo, esser quello che in ciascuna città appare, e che in niuna riposa. […] dicemo che il volgare illustre, cardinale, aulico e cortigiano in Italia è quello, il quale è di tutte le città italiane, e non pare che sia di niuna, col quale i volgari di tutte le città d’Italia si hanno a misurare, ponderare e comparare.» (De vulg. eloq., I, 16).

A tali opinioni, nel Cinquecento, si opposero coloro che sostenevano la schietta fiorentinità del volgare ovvero una lingua nobilitata e disciplinata dallo studio analitico di quello stile poetico che in Francesco Petrarca, particolarmente, avrebbe dovuto ritrovare il suo fondamento. In altri termini, come per il latino gli umanisti avevano scelto il massimo prosatore, Cicerone, così per il volgare era necessario avere come punti di riferimento i trecentisti e, in modo particolare, l’autore dei Rerum vulgarium fragmenta, nel quale «tutte le gratie della volgar poesia raccolte si veggono» (P. BEMBO, Prose della volgar lingua, II):

«Questo medesimo della nostra volgare M. Cino et Dante et il Petrarca et il Boccaccio et degli altri di lontano prevedendo, et con essa molte cose et nel verso e nella prosa componendo, le hanno tanta autorità acquistata et dignità quanta ad essi è bastato per divenire famosi et illustri, […]» (Prose, I).

L’amore per il Canzoniere insegnò in Italia, come in Spagna e in Inghilterra, l’eleganza della forma e la ‘musicalità’ della parola e del verso, mentre i nuovi studi polarizzarono una schiera innumerevole di scrittori pronti a studiare e diffondere l’ars poetica dell’Aretino con dissertazioni accademiche e commenti volti a illustrare metafore, concetti o singole rime. Tra gli stessi ricordiamo Bernardo Tasso, padre di Torquato, autore di odi, egloghe, canzoni e sonetti ispirati alle forme liriche e allo stile poetico petrarchesco. Autore di quattro ‘libri’ che hanno come tema prevalente l’amore per la donna amata, anch’egli, come l’Ariosto nel Canto XLVI del Furioso, evidenziò e immortalò l’autorità letteraria del Bembo mediante il sonetto di seguito riportato:

«[…] Pietro
Bembo che ’l puro e dolce idioma nostro,
Levato fuor dal volgar uso tetro,
Qual esser dee, ci ha col suo esempio mostro.
(Orlando Furioso, XLVI, 15).

Bembo, che d’ir al ciel mostri il camino
Per mille strade; e con spedito volo
Ricerchi hor questo, e hor quell’altro polo,
Come canoro augello, e pellegrino;

Io pur vorrei al tuo volo vicino
Venir battendo l’ali; e talhor solo
Co chiari studi a tutt’altro m’involo;
E nol consente il mio fero destino.

Ma se mi stanco; e s’al mio tardo ingegno
Cadon le penne, almen con l’occhio audace
Cerco l’orme seguir, ch’a dietro lassi.

Et tanto il mio lavoro a me più piace,
Quanto de le tue fila è fatto degno,
Che vo cogliendo, ovunque volgi i passi.

(I tre libri degli Amori di BERNARDO TASSO ai quali nuovamente s’è aggiunto il quarto libro, Gabriel Giolito De’ Ferrari, Venezia 1555, p. 27).
La risposta del Cardinale fu la seguente:

«Con molto mio piacere ho veduto le vostre lettere, onorato M. Bernardo, e ricevuto il vago e gentil sonetto, col quale mi visitate con aperta dimostrazione dell’amor vostro, del quale vi rendo quelle maggiori grazie che io posso; […]; e tanto più, quanto l’avete accompagnar voluto con le tre Canzoni degli occhi, natevi ad un corpo, le quali assai chiaro fan vedere e l’ardire, e la capacità del vostro ingegno; che avendone per addietro fatte tre il Petrarca  di questo medesimo soggetto, […]; a voi è bastato l’animo di comporne tre altre quasi a gara di lui; acciocché al nostro secolo non mancasse questa lode. Di che mi rallegro con voi quanto debbo; e priego il cielo vi dia fortuna da potere a diletto vostro mandare innanzi questo vostro laudabilissimo studio. […]. A due d’Agosto, MDXXVIII. Di Villa» (Dall’Epistolario, vol. III).

L’incipit del primo libro degli Amori (dedicato a Ferrante Sanseverino e una cui edizione fu stampata a Venezia dal Giolito nel 1555) comprova l’inclinazione tassiana allo studio di quell’idioma ‘toscano’ che, equivalente per importanza alla lingua latina, nella lirica del Petrarca ritrovò il suo cardine:

«Porto fermissima opinione, Illustrissimo Signor mio; che la novità de’ miei versi; cosa non meno invidiosa che dilettevole; moverà molti a considerarli: et di questa novella tela, altri le fila, altri la testura, biasimerà; parendoli forse mal convenirsi alla lingua volgare, posto da canto le Muse Thoscane, alle Greche et alle Latine accostarsi; et quelle oltre il loro costume in varie et strane maniere di Rime, Hinni, Ode, Egloghe, et Selve, quasi per viva forza constringer a favellare. […]. […]. Né credo però, ch’ad alcuno debba cader nell’animo, me esser di sì folle ardimento, ch’io sdegni d’imitare i duo lumi della lingua Thoscana, Dante et Petrarcha. Ma havendo que’ gloriosi con un loro raro et leggiadro stile volgare sì altamente ritratti i lor divini concetti, che impossibile sarebbe hoggimai con quelli stessi colori depinger cosa, che ci piacesse, vana mi parrebbe ogni fatica, ch’io usassi, non pur per passar avanti, ma per andarli vicino, caminando di continuo dietro l’orme loro. […]. Né sia chi dica la lingua Toschana non esser degna dell’honore et degli ornamienti delle due prime; peroché veruna lingua mortale, qual che si sia, non hebbe, ne havra mai privilegio da sé di sovrastare alle altre; ma ogni sua excellentia è sola gratia et gentilezza del donatore» (I tre libri degli Amori di BERNARDO TASSO  cit.,  pp. 3 sgg.).

Un altro sonetto, che apre il primo libro, avvalora ulteriormente la predilezione per il Petrarca e,  particolarmente, per la «bellissima delle sue poesie», la canzone «Chiare, fresche e dolci acque», la cui tematica della donna che rivive nel ricordo del Poeta sembra profilarsi altresì nella lirica tassiana:

Chiare fontane,  ov’a Madonna piacque
Col netto avorio, e man gentili, e schiette,
Ne le vostre gelate, et lucid’acque
Lavarsi il viso, et quelle perle elette:
Se de la sua bellezza a lei non spiacque
Donarvi qualitate; in voi ristrette
Serbate quella imagine, che nacque
per esser Donna de le più perfette:
Ch’io verrò a voi con immortale usanza;
Et ne lo specchio de le lucid’onde
L’adorerò, poi che non posso viva.
Et prego il ciel, che ne la vostra riva
Pastor falce non ponga, o tagli fronde;
Né l’acque turbi, u fia l’alta sembianza.

(I tre libri degli Amori di BERNARDO TASSO  cit., p. 26).
Non v’è, certo, il costrutto lirico delle stanze petrarchesche, tanto meno le immagini e le figure retoriche del sonetto permettono un accostamento completo alla canzone che, senza alcun dubbio, sembra anticipare e precorrere l’atmosfera idilliaca e quasi surreale della poetica dannunziana, particolarmente di quella alcionia. Anche nei versi del Tasso, tuttavia, riaffiorano e predominano quelle tematiche e quei ‘ritratti’ naturalistici che fanno da sfondo all’opera dell’Aretino: alle «chiare, fresche e dolci acque» del Sorga corrispondono, nel sonetto, le «chiare fontane» (sta per «fonti») ove ‘madonna’ lavò il suo viso e le «perle elette» (Met., sta per trecce bionde, sulla scìa dei versi petrarcheschi «Qual fior cadea sul lembo, / Qual su le trecce bionde; / Ch’oro forbito e perle / Eran quel dì a vederle;»).
E ancora, con uno stile poetico che ricalca il precedente:

O puro, o dolce, o fiumicel d’argento
Più ricco assai, ch’Ermo, Pattolo o Tago,
Che vai al tuo cammin lucente e vago
Fra le sponde di gemme a passo lento;
O primo onor del liquido elemento,
Conserva intera quella bella immago
Di cui non pur quest’occhi infermi appago,
Ma pasco di dolc’esca il mio tormento.
Qualora in te si specchia, e ne le chiare
E lucid’onde tue si lava il volto
Colei, ch’arder potrebbe orsi e serpenti:
Ferma il tuo corso: e tutto in te raccolto
Condensa i liquor’ tuoi caldi ed ardenti
Per non portare tanta ricchezza al mare.

Il tema della donna/angelo, a metà strada fra l’empirico e il trascendente, sembra predominare anche nei versi del Tasso, per cui se nella lirica petrarchesca il sovrumano va a coincidere con la rappresentazione della figura femminile ‘immortalata’ dal Poeta nel mondo surreale in cui la intravide per la prima volta, nei sonetti è la natura stessa e, in modo particolare, le «chiare fontane» e le «lucide onde» del fiume che animeranno, rendendole eterne e immortali, le sembianze della donna amata. Allo stesso modo, i versi «Sacro arbuscel che ’l glorioso nome / Serbi di lei, che nel mio canto honoro» (Ibid., p. 26) rievocano i petrarcheschi «Gentil ramo, ove piacque / […] / a lei di fare al bel fianco colonna; […].».  Neppur mancano componimenti lirici (soprattutto nel secondo libro dedicato ad Isabella Villamarino) indirizzati al Brocardo, a Vittoria Colonna, ad Alfonso D’Avalos (marchese del Vasto e di Pescara oltre che generale delle truppe imperiali nella battaglia di Pavia e nella spedizione di Carlo V a Tunisi) e a Ferrante Sanseverino, celebrato e immortalato insieme al Nifo con un altro sonetto, significativa testimonianza dello stato di avvilimento e desolazione in cui versava il Poeta negli anni più difficili della sua esistenza:

Mentre col Sessa illustre alto Signore
Le cui vivaci charte e honorate
Lo fanno eterno; in bel soggiorno state,
Cercando pur, come si merchi onore:
Et trappassate i dì fugaci e l’hore
In opre così degne e si lodate;
Accio l’antica e la futura etate
Vi porti invidia e quanto può v’honore:
Io scorto da destin nemico e fero,
Di pensier tenebrosi e d’amor pieno
Volgo gli afflitti pie’ dietro al desio;
Perch’Adria accolga nel suo puro seno
I miei sospiri; e ’l Re de’ fiumi altero
Corra superbo anchor del pianto mio.

(I tre libri degli Amori di BERNARDO TASSO  cit., p. 134).
Se da un lato, dunque, il genere lirico improntato sulla tematica fondamentale dell’amore sembra caratterizzare l’incipit e l’evoluzione dell’attività poetica del Tasso, dall’altro, non mancano rari sconfinamenti in ambiti prettamente diversi; come nei seguenti sonetti, in cui l’amore e l’affezione nei confronti del territorio campano si fondono con l’auspicio di vedere, un giorno, la città di Salerno resa immortale dal suo principe, lume e gloria del Rinascimento italiano:

Lieto terren, ne le cui vaghe sponde
Alza Salerno l’honorata fronte;
Le glorie cui saranno al mondo conte
Mentre gli arbori havranno et rami et fronde:
Ti sian le stelle sì larghe e feconde
Che corra sempre latte il tuo bel fonte,
Et oro e gemme fia ciò, che ’l tuo monte
ne l’ampio grembo suo serra e nasconde;

Piova dal ciel su la tua ricca sede
In vece di rugiada fresca e pura
I diletti de gli Angeli e le gioie
Sì che l’ordine suo l’alma Natura
Cangi; e faccia immortal chi ti possiede
Lungi dal mar de le mondane noie.

Poi che nel tempio de la Fama havete
Si ricco seggio, a que’ be’ spiriti a paro,
Che le sue chiome di triomphi ornaro
Né più la morte o’l tempo homai temete:
Poi c’havete Signor spenta la sete
in Helicona; che ’l suo puro e chiaro
Fonte v’aperse, con stil colto e raro
Agli anni invidi avari altrui togliete;
Sì vedrem poi nel suo famoso monte
Napoli bella alzarvi altari et templi,
Archi, theatri e mille statue d’oro
Acciò Salerno vostro vi contempli
Fra suoi degni Signor di doppio alloro
Cinto la saggia et honorata fronte.

(Ibid., pp. 132-133).

Esaminiamo, infine, due sonetti dal contenuto ‘storico-politico’: il primo, scritto da Torquato per commemorare l’ormai defunto padre, distintosi in territorio africano, al seguito di Carlo V e del principe salernitano, per  difendere le coste napoletane e siciliane dalle incursioni musulmane (1535); il secondo, invece, fu composto da Bernardo in memoria dell’Imperatore d’Asburgo, a cui «l’un mondo domar sì poco parve, / Che vinse l’altro» e il cui imponente sepolcro fu onorato e venerato da Tedeschi, Italiani e Spagnoli (quest’ultimo sonetto risale, evidentemente, agli anni successivi alla morte dell’Imperatore avvenuta nel 1558 ovvero al periodo in cui il Poeta, sulle orme del Principe di Salerno, aveva abbandonato sia gli imperiali che la Corte di Francia, stabilendosi prima a Urbino poi a Mantova, dove morirà nel 1569):

Quest’arca fu di preziosi odori
Ch’or è vaso d’inchiostro; e fra le prede
Ch’egli acquistò nell’Affricana sede
Ancor lui tolse il mio buon PADRE a’ Mori;
E ’n quest’uso adoprollo, e i vaghi amori
Per lui fe conti, e la sua stabil fede;
né del gran CARLO, o del felice erede
Senza di lui celebrò l’arme e gli allori.
Ed oltra l’Alpe e la famosa Ardenne
nell’esiglio portollo, e nella morte.
Lasciollo a me cara memoria acerba.
GALENGO, a me fortuna ancora il serba;
Deh! Quando io lodo il saggio ALFONSO e forte
Mai non sia scarso alla mia stanca penna.

Già intorno al marmo che ’l gran Carlo asconde
Arsi avean mille cari arabi odori
Germania, Italia e Spagna: e quel di fiori
Sparso, e di pianto e di funerea fronde:
Già Febo adorne le sue chiome bionde
Di sempre verdi e trionfali allori
Cantava le sue glorie, e i tanti onori
Ch’alto grido di lui sparge e diffonde;
Quando con dolce e con più udito suono
L’eternitate a l’improvviso apparve
E nel sasso scolpì: qui colui giace,
Cui l’un mondo domar sì poco parve,
Che vinse l’altro, e d’ambi altrui fe’ dono;
Augurate a quest’ossa eterna pace.

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