Sulla natura dell’essere e della ricerca – Transumanar significar per verba non si poria; però l’esemplo (di Glauco) basti a cui esperienza grazia serba (Paradiso, I, 70-72)

Di Angelo Giubileo (scrittore)
SALERNO – Di cosa sono fatte le cose sensibili? Esse, in origine di discorso (logos) è ciò che dicesi MATERIA. Ma, si chiede Aristotele, ma non è di certo il primo, cos’è “causa” della materia medesima? Quest’indagine, è specificato, attiene pertanto alla NATURA delle cose sensibili (per i Greci: gli “enti”).
Nel discorso della Metafisica, Aristotele riflette: “alcuni dei sostenitori dell’unità (di tutte le cose) dicono che l’uno e la natura tutta è immobile, non solo quanto al nascere e perire (questa infatti è una concezione antica e che tutti i primitivi condividono) ma anche riguardo ad ogni altra trasformazione” (DK A 3. 984 a 27).
Il problema dunque, per Aristotele, è trovare una ragione, una causa che giustifichi “ogni altra trasformazione” delle cose che non sia il nascere e il perire, ovvero una spiegazione che dia ragione, allo stesso modo, del trascorrere del tempo. In effetti, su questo punto, mi sia permesso, l’istanza di Aristotele è condivisibile. E lo dico, facendo riferimento a quanto viceversa sembra sostenere Lucrezio nel IV libro del suo De rerum natura, allorché annota che è impossibile spiegare il perché delle cose, dal momento che si tratta di un procedimento retto dal “caso” e quindi che esula da ogni “finalità”. Ma, in specie, è corretto obiettare che il “caso” rappresenterebbe già una spiegazione possibile della trasformazione delle cose, e quindi su questo punto ha ragione Aristotele quando dice che sbagliano coloro che “trattarono del tutto come fosse una natura unica”.
Semplificando, possiamo ben dire, una natura sia immobile che mobile. Se l’uno, correttamente, è (sarebbe) immobile; il tutto, altrettanto correttamente, è (sarebbe) mobile. Nel brano in questione, Aristotele prosegue dicendo anche che “tra coloro che sostengono che il tutto è uno a nessuno viene fatto di scorgere una causa di tal genere, eccezion fatta di Parmenide, e a costui in tanto in quanto non solo pone l’unità ma insieme in certo modo due cause”. Ma, e qui occorre particolare attenzione, le due “cause” di cui dice Parmenide sono comunque il risultato dell’indagine o ricerca compiuta dall’“uomo” sulle cose sensibili.
Parmenide dice infatti: Ma poiché tutti gli enti sono denominati luce e notte e queste secondo le loro potenze [sono applicate] a questi o a quelli… (Frammento 9, 1-2). Pertanto, correttamente, occorre dire che l’indagine personale non consente al sapiente (sofos) di disvelare la “natura” delle cose, ovvero il “tutto”, come se abbia o non abbia la stessa causa dell’“uno”. Ma qui, occorre anche aggiungere, siamo su un livello o piano diverso rispetto alla ricerca: l’inconoscibile o innominabile (che è anche di Calasso) è appunto il mistero ovvero il “divino”; in ordine al quale, cinque secoli circa più tardi, Plutarco elabora una sintesi del ragionamento, che reputo concludente. Infatti, nel brano riguardante La fine degli oracoli, a un certo punto, egli scrive:
L’essenza e il potere di questi fenomeni vanno ricercati nella natura e nella materia, dicono i sapienti, salvaguardando però, come è giusto, la loro origine divina. È assurdo e puerile credere che il dio stesso, come i ventriloqui soprannominati un tempo Euricli e oggi Pitoni, entri nel corpo dei profeti e parli servendosi della loro bocca e della loro voce come strumenti. Chi mescola dio alle funzioni umane non rispetta la sua maestà, e offende la dignità e il prestigio della sua, superiore statura». «Hai ragione» disse Cleombroto. «Ma siccome è difficile comprendere e stabilire in qual modo e fino a che punto si possa far intervenire la provvidenza, succede che nell’opinione di alcuni il dio non c’entra per niente, per altri invece egli è la causa di tutte le cose senza eccezione. Ma né gli uni né gli altri tolgono la giusta misura. E dunque dice bene chi sostiene che Platone, presupponendo un elemento sottostante alle qualità in divenire – quello che viene chiamato oggi materia o natura – abbia liberato i filosofi da molte gravi difficoltà. Ma, a mio parere, molte difficoltà ancora più gravi sono state risolte da quelli che immaginarono il genere dei demoni, a metà fra dèi e uomini, il quale istituisce in certo modo un rapporto reciproco fra noi e la divinità. Poco importa se tale teoria si debba ai magi e a Zoroastro, o venga dalla Tracia e da Orfeo, oppure dall’Egitto o dalla Frigia, come testimoniano le cerimonie di questi due paesi, pervase dal lutto e dal senso della morte sia nei riti orgiastici sia nei drammi sacri.

Sintetizzando:

1) L’“essenza” e il “potere” delle cose sono entità fondamentalmente connesse, nel senso che l’una rappresenta l’altra e viceversa. A giudizio – e qui semplifico il discorso storico e viceversa della tradizione -, dei presocratici: l’“origine” delle cose resta un mistero – e questo è ciò che deve intendersi per divino – mentre “l’essenza e il potere di questi fenomeni (le trasformazioni delle cose) vanno ricercati nella natura e nella materia”. E quindi, ricapitolando: il divino giace su un livello più alto, inaccessibile all’uomo. Su un livello più basso, essenzialmente “umano”, è posta invece la ricerca che per i presocratici deve tenere conto sia della materia che della natura delle cose in trasformazione …

2) E tuttavia, dice Plutarco, che “dice bene chi sostiene che Platone, presupponendo un elemento sottostante alle qualità in divenire – quello che viene chiamato oggi materia o natura – abbia liberato i filosofi da molte gravi difficoltà”. E dunque, il pro-getto della ricerca è cambiato. Alla stregua di Platone, il metodo d’indagine – di cui parla con validità ed efficacia Heidegger nel suo Parmenide – sulle cose in trasformazione presuppone ora (Plutarco dice: oggi. E cioè, al tempo della fine degli oracoli) un elemento sottostante chiamato “materia” o “natura”, al quale imputare – alternativamente – non solo l’origine (il nascere e perire) delle cose ma anche loro ogni altra trasformazione.

3) Infine, Plutarco giudica che sebbene “Platone … abbia liberato i filosofi da molte gravi difficoltà” – ovvero, presupponendo un elemento sottostante, far derivare il movimento delle cose da questo “elemento” (genericamente inteso) medesimo -, molte difficoltà ancora più gravi sono state risolte da quelli che immaginarono il genere dei demoni, a metà fra dèi e uomini, il quale istituisce in certo modo un rapporto reciproco fra noi e la divinità. Poco importa se tale teoria si debba ai magi e a Zoroastro, o venga dalla Tracia e da Orfeo, oppure dall’Egitto o dalla Frigia, come testimoniano le cerimonie di questi due paesi, pervase dal lutto e dal senso della morte sia nei riti orgiastici sia nei drammi sacri.

Illustrare e capire perché io stesso condivida questo giudizio di Plutarco, in effetti riguarda tutto il percorso culturale che mi ha portato oggi fin qui, e per ultimo alla redazione di Il grande Pan è vivo. E pertanto, riassumendo brevemente:

a) condivido il giudizio dei sapienti (e non dei filosofi della tradizione) che l’origine delle cose e del mutamento resta per l’uomo un mistero;

b) condivido il giudizio dei sapienti che l’essenza e il potere delle cose vadano ricercati nella natura e nella materia di esse;

c) nell’attualità, annoto inequivocabilmente che la “materia” delle cose muta ma non allo stesso modo di come potrebbe talvolta mutare la “natura” di esse, e in particolare dell’“uomo”, attraverso un de-stino (intorno a, come traduce Severino, lo stare dell’essere e l’essere dello stare medesimo) che oggi – come direbbe Parmenide – chiamiamo “trans-umano”.

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