Kramer vs. Kramer: quando finisce un amore, la storia salernitana di un farmacista e di un’avvocatessa

Aldo Bianchini

SALERNO – Di solito i film, ed anche le fiction, servono per veicolare precisi messaggi positivi verso la società in crescita ed in evoluzione e, soprattutto, per fare chiarezza in materia di rapporti di coppia in quella specie di eterna discussione per la conquista della parità di genere. Quarant’anni fa ci ha provato il famoso film-cult statunitense del 1977, Kramer vs. Kramer, nel quale i due protagonisti Joanna (Maryl Streep) e Ted (Dustin Hoffman) se le suonano di santa ragione in un tribunale già molto avanzato rispetto ai nostri per l’affidamento del figlio Billy. Oggi è stato il turno di un reality, terra terra, come il vituperato “Grande Fratello Vip” nel corso del quale Francesco Monte ha accettato con grande dignità maschile ed umana la fine del suo grande amore nei confronti di Cecilia Rodriguez.

            E’ triste dover constatare che il film-cult e il reality-show non ci hanno insegnato nulla; l’eco mondiale e storica del film così come l’eccessiva invadenza del reality si sono fermati, purtroppo, sulla porta di casa che viene ermeticamente chiusa sui “delitti di coppia” che quotidianamente vengono proditoriamente consumati -quasi sempre- in nome e per conto di una presunta superiorità maschile rispetto all’altro genere. In questo contano poco il rango sociale e lo spessore culturale dei protagonisti che continuano ad esibirsi in violente aggressioni verbali e psicologiche, ma anche fisiche arrivando, spesso, addirittura al femminicidio. Un quadro che è sempre lo stesso, non cambia mai e si ripete con inarrestabile cadenza temporale in uno scenario in cui la realtà va sempre e ben oltre il film o il reality. E lo Stato assiste impotente, con le sue lentezze e manchevolezze, al degrado di una società che rischia di sprofondare nelle nebbie del passato.

            Fatta questa necessaria, anche se lunga premessa, è possibile passare alla inquietante e incredibile vicenda salernitana (un’avvocatessa contro un farmacista) che è stata svelata, qualche giorno fa, dal noto quotidiano “La Città” che, forse incautamente, ha pubblicato anche le generalità dei due personaggi schierati l’uno contro l’altro e trattando la notizia come una semplice “notizia gossip del giorno”, quando invece è un accadimento che necessita di un sereno e lungo approfondimento, ha veicolato il messaggio di sempre, cioè la fine di un rapporto di coppia tra accuse e violenze. Punto. E se mi astengo dal fare, adesso, di nuovo i nomi dei due protagonisti è soltanto perché sono già pubblicamente noti ed anche perché l’avvocatessa denunciante sicuramente non andava e non va alla ricerca di pubblicità ma si muoveva e si muove, in sintonia con i suoi obiettivi e con la sua cultura legale, sull’onda di un sentire comune di tutte le donne che, purtroppo, non hanno la capacità e neppure gli strumenti per ribellarsi allo strapotere soffocante dell’altro sesso; strapotere che in alcuni casi (come nella fattispecie salernitana) arriva a livelli parossistici e molto pericolosi. E’ questo il succo del problema che bisogna cogliere dall’analisi della vicenda in questione. Del resto se una donna, nella fattispecie un’avvocatessa molto nota a Salerno, esce allo scoperto vuol dire che la stessa ha una necessità superiore a quella che può essere una pur triste vicenda familiare; ma questo non deve dirlo soltanto lei attraverso una ridotta dichiarazione, questo appartiene a tutti noi (soprattutto se giornalisti) e tutti dobbiamo impegnarci affinchè il messaggio di una donna non solo diventi virale ma riesca a penetrare le coscienze della gente e di chi può e deve fare di più per fermare la strage di donne e di famiglie che ci scivola addosso senza colpo ferire. Insomma, scrivere la storiella non serve a niente se poi non c’è un approfondimento convinto che possa toccare ogni substrato della società; se non facciamo questo, tutti insieme, il sacrificio dell’avvocatessa non servirà a niente

            Non possiamo, difatti, fermarci alla dichiarazione  dell’avvocatessa che è scesa in campo per dire che “La scelta di denunciare il padre dei propri figli è sempre una scelta drammatica. Tuttavia vorrei che il mio fosse un invito a tutte le donne a denunciare ogni forma di prevaricazione, soprattutto se perpetuate anche nei confronti dei loro figli. Quando un rapporto finisce non è possibile accettare limitazioni della propria personalità come una conseguenza fisiologica, occorre avere il coraggio di chiedere l’intervento dello Stato avendo fiducia nelle istituzioni e negli organi di supporto”; abbiamo l’obbligo di andare oltre per trasformare il suo sacrificio in un simbolo valido per tutte le donne, e non soltanto per una donna coraggiosa che è stata costretta a subire per anni la violenza fisica e psicologica di un uomo che sfiora il “caso patologico”.

            Perché ? E’ presto detto. Se si legge attentamente la cronistoria temporale della violenza ampiamente descritta dal PM Elena Cosentino si ha la netta sensazione di trovarsi di fronte ad un soggetto che ritorna stranamente ed incredibilmente all’attacco della ex consorte e dei suoi due figli dopo un periodo piuttosto lungo nel corso del quale, dal 2009 al 2016 (dopo le prime violente esternazioni del suo disagio), sembra aver incubato, covato e maturato uno stato di violenza ancora maggiore e peggiore di quello già evidenziato otto anni fa; un aspetto questo che non può e non deve essere sottovalutato anche in sede giudiziaria in quanto, a prescindere dalle insane motivazioni che hanno spinto alla violenza, può scoperchiare la pentola di un mondo antico quanto l’uomo in cui il concetto della donna succube rimane pietrificato in maniera veramente surreale e fuori di ogni logica e di ogni ragionamento pacato e civile. 

            Ma quando finisce un amore ? La domanda è contenuta nel titolo e non ha una facile risposta; più banalmente si potrebbe dire che l’amore finisce perché vengono meno i presupposti che l’anno ispirato, costruito e portato avanti per mesi, per anni e per decenni. Ed è proprio in queste circostanze che l’uomo (o donna che sia) deve dimostrare di essere uomo fino in fondo, deve capire le esigenze dell’altro, deve ricondurre in un rapporto di estrema civiltà ogni discordia, non deve covare rancori, e deve accettare il principio che così come è nato un amore può finire. E quando finisce e quando ci sono, oltretutto, i figli è il momento di dimostrare tutto quello che si ha dentro sul piano umano, culturale e sociale; se non si ragiona in questi termini si rischia di arrivare alle estreme conseguenze che sono sempre dannose per tutti i protagonisti in campo.

            Sulla scorta di queste considerazioni riesce molto difficile capire come un uomo di una certa cultura e di una certa levatura sociale (il farmacista) possa aver usato violenza non solo verbale e morale ma anche fisica, con percosse che indignano solo a raccontarle, sulla moglie (avvocatessa) di altrettanta cultura e levatura sociale, arrivando a pronunciare frasi minacciose del tipo “ti rovino la vita e per tutta la vita farò questo” e con altri epiteti assolutamente irripetibili per arrivare all’allucinante minaccia finale “io ti uccido, ti soffoco”. Men che meno possono essere minimamente capite le volgarissime aggressioni verbali, psicologiche e fisiche perpetuate in danno della figlia minorenne e adolescente fin da quando aveva l’innocente età di appena 11 anni, rischiando di incidere profondamente ed irrimediabilmente sulla psiche della ragazza con conseguenze drammatiche per il presente e il futuro di tutta la sua vita. Nella richiesta di rinvio a giudizio, sulla quale dovrà decidere il GUP Renata Sessa la mattina del 23 novembre prossimo, non c’è traccia di eventuali minacce perpetuate nei confronti del figlioletto (oggi tredicenne) ma è altrettanto innegabile che l’atmosfera familiare, le grida, le percosse sui suoi familiari (mamma e sorella) hanno potuto incidere inevitabilmente sulla stabilità psico-fisica del ragazzino.

            Ma chi è l’attuale indagato e, probabilmente, futuro imputato ?, un mostro, un disumano, un disadattato mentale o, peggio, un uomo sconnesso da quello che dovrebbe essere il canovaccio di una vita lineare. Probabilmente non è niente di tutto questo, e più verosimilmente, è soltanto un uomo che non ha mai capito l’amore e non ha mai amato seriamente, perché se avesse amato ora capirebbe immediatamente che l’amore non è soltanto quello che si esprime in una relazione fisica, è soprattutto disponibilità verso il partner e verso i suoi figli ai quali dovrebbe sempre, e comunque, garantire un’atmosfera familiare soft e mirata alla crescita globale dei ragazzi che più di tutti soffrono il cattivo rapporto tra i genitori, per non parlare delle minacce e delle violenze fisiche.

            Io non appartengo alla classe dei giornalisti che si limitano a dare la notizia e quindi oltre a raccontare i fatti per porre domande mi chiedo “Cosa deve fare a questo punto l’avvocatessa ?” oltre a quello che ha già fatto denunciando l’ex marito. Anche in questo caso la risposta non è agevole, ma io provo a darla comunque. Nei suoi panni partirei dalla terribile vicenda personale e umana per trasferirla in campo nazionale al fine di trasformare una vicenda vissuta in uno strumento pubblico valido per aiutare sul serio le migliaia di donne che non denunciano e non si ribellano, o che lo fanno soltanto quando è ormai troppo tardi; l’avvocatessa ha tutte le capacità e gli strumenti per farlo, del resto è assistita dal noto avvocato penalista Giovanni Annunziata che ha sempre dimostrato uno spiccato livello professionale nella ricerca del “fattore umano”che spesso si nasconde dietro un foglio di carta, un fascicolo legale o un faldone processuale.

            Per onestà intellettuale e deontologica mi corre l’obbligo di precisare che dei due personaggi sopra descritti conosco soltanto l’avvocatessa che mi è apparsa sempre serena in tutti i suoi atteggiamenti lavorativi e professionali, e mai e poi mai avrei immaginato minimamente la tempesta che la stessa vive da anni sulla sua pelle e su quella dei suoi figli; per questo mi sono inorridito nella lettura dei capi d’imputazione a carico del suo ex marito, e nel confermare la mia fiducia nell’opera della magistratura spero che questa volta non si fermi all’esame obiettivo dei capi d’accusa per commutarli in pena, ma che vada oltre, innanzitutto per garantire una vita normalissima all’intera famiglia dell’avvocatessa e poi per dare un punto di riferimento, da Salerno, con una sentenza giusta – equilibrata e necessaria a tutte le donne in sofferenza, e non sono poche.

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