Sicurezza sul Lavoro: la morte di Beniamino Tafuri nel Porto di Salerno riporta a galla i soliti problemi.

Felice Bianchini junior

SALERNO – Recentemente una nostra corrispondente, Maria Vittoria Maltese, ha trattato il difficilissimo tema della “sicurezza e igiene sui posti di lavoro” affermando che “il 1° articolo della Costituzione sancisce che L’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul Lavoro”.

La Carta Costituzionale, quindi, tutela a tutto tondo il lavoro ma anche la salute del lavoratore; difatti, e non a caso, l’art. 32 della Costituzione recita “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività…”.

L’infortunio mortale occorso al lavoratore portuale Beniamino Tafuri di appena 42 anni riapre la discussione, con le solite chiacchiere inutili, sulla necessità di tutelare l’integrità fisica e, quindi, la salute dei lavoratori.

Questo caso drammatico mi dà la possibilità di ricordare a tutti che, per dare una svolta decisiva alla complessa materia della difesa della salute del lavoratore, il legislatore si impegnò per ben sette anni nello studio della sicurezza per arrivare nel 1955 all’emanazione del DPR n. 547 del 27.04.55, una specie di Testo Unico delle leggi sulla sicurezza che rappresenta ancora oggi un punto di riferimento a livello mondiale. Purtroppo, come spesso accade, lo strumento scaturito da quel decreto nel nostro Paese non ha mai funzionato seriamente, anzi con il passare dei decenni si era perso nella notte dei tempi.

Fino a quando nel 1994 a seguito di alcune direttive della Unione Europea in Italia venne deciso di riprendere il discorso sospeso dal 1955 e partorire il D.Lgs. n. 626 del 19 set. 1994; un decreto legislativo che ha dato una svolta decisiva al modo di approcciarsi alla cultura della sicurezza e dell’igiene sui luoghi di lavoro. Quel momento ha segnato un vero e proprio spartiacque tra il passato e il futuro; e dire che noi italiani tutte le regole del 626/94 le avevamo già da ben quarant’anni ma non le avevamo mai pienamente applicate.

Con l’esperienza maturata in tanti anni di vigilanza ispettiva sul lavoro e di giornalismo, mi azzardo anche a dichiarare che addirittura lo Statuto dei Lavoratori (legge n. 300 del 20.05.70) rispecchia in buona parte quel DPR del 55 che il mondo intero ci ha invidiato, fino al punto di indurre la UE ad attivare le famose dieci direttive che hanno avuto una pesante ricaduta, in termini di benefici per la sicurezza e l’igiene sui luoghi di lavoro, in tutti gli stati della comunità.

Prima parlavo di “cultura della sicurezza e dell’igiene”  ed a conti fatti è proprio così; la prevenzione (cioè la sicurezza e l’igiene sui luoghi di lavoro) deve passare come un messaggio culturale e colpire l’immaginario collettivo di tutte le categorie dei lavoratori e, soprattutto, le giovani generazioni scolastiche che si avviano ad essere i lavoratori del domani. Su questo fronte deve essere portata avanti un’azione capillare scuola per scuola e cantiere per cantiere perché tutti devono capire che la sicurezza non è una concessione del datore di lavoro ma un diritto sacrosanto di tutti, anche degli studenti che a scuola naturalmente lavorano anch’essi.

Per parlare della nostra provincia va detto che negli anni della famigerata crescita industriale del territorio a cavallo degli anni 70 e 80, dalla Piana del Sele fino a Salerno ed alla Valle dell’Irno, venne registrato uno strano fenomeno in quanto le grandi multinazionali impiantavano i loro opifici industriali con grande dispendio di risorse sul piano della sicurezza quasi sconosciuta dai nostri lavoratori. Ebbene la maggior parte dei lavoratori, nei grandi opifici, mal digeriva la presenza e l’utilizzo dei tanti “presidi personali” per la sicurezza sul posto di lavoro; gli scarponi erano troppo pesanti, i guanti fastidiosi, le cuffie e il cotone antifonico imbarazzante per le comunicazioni relazionali; insomma c’era un netto rifiuto di tutti quegli strumenti (addirittura della cintura di sicurezza ritenuta sempre ingombrante per il normale svolgimento lavorativo) che avrebbero potuto limitare il fenomeno degli infortuni sul lavoro che nel nostro Paese ha un costo sociale paragonabile ad una grossa manovra economica. La situazione fortunatamente è cambiata in questi ultimi anni anche se moltissimo rimane ancora da fare.

Difatti non sono stati sufficienti le migliaia e migliaia di corsi di formazione che hanno prodotto un dispendio inutile di risorse pubbliche, anche le specifiche responsabilità del personale specializzato sono valse a ben poco. Si continua a morire sul lavoro (quasi tre morti al giorno !!) e si continua a registrare migliaia di infortuni, molti dei quali comportano danni fisici permanenti. Ci vorranno ancora molti anni per salutare l’azzeramento di una piaga sociale come quella di perdere la vita o rimanere invalidi per colpa del lavoro.

Alla luce di tutto questo viene naturale affermare che sicuramente la morte di Tafuri poteva essere evitata ma rimane il problema di chi poteva fare e non ha fatto tutto quello che era giusto e necessario fare.

Le inchieste non si conteranno e proprio per questo, forse, la verità non la sapremo mai.

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