MORO: terrorismo e leggi speciali … delimitare e circoscrivere le verità da dire al Paese !!

 

 

Aldo Bianchini

 

SALERNO – L’occasione del 40° anniversario dell’eccidio di Via Fani (rapimento di Aldo Moro e uccisione dei cinque uomini della scorta) impone a tutti delle riflessioni di carattere generale su quanto avvenuto quel giorno e, soprattutto nei giorni e negli anni successivi, fino ad oggi.

Alcuni brigatisti, del calibro di Prospero Gallinari (il temibile carceriere fisico di Moro, deceduto nel 2013), di Raffaele Fiore (che materialmente prelevò dalla Fiat/130 l’onorevole Moro in Via Fani) e di Valerio Morucci (ancora uno dei più freddi e lucidi), sostengono che gli uomini delle Brigate Rosse non avevano una preparazione militare specifica e che non erano allenati a sparare né con le pistole e né con i mitra. I brigatisti la mattina del 16 marzo 1978 andarono (come raccontano unilateralmente) quasi allo sbaraglio con delle armi che si incepparono addirittura più volte e che anche per questo motivo furono costretti ad avvicinarsi moltissimo alle due autovetture del convoglio che trasportava Aldo Moro verso il Parlamento dove doveva essere varato il nuovo “governo Andreotti” con l’appoggio esterno del PCI.

Mi sono chiesto in questo periodo se baggianate del genere possono essere confezionate e mandate in onda sui principali canali televisivi del Paese senza un minimo di contraddittorio.

Insomma i brigatisti, vecchi e ormai spenti, continuano a mettere in cattiva luce l’autonomia dello Stato ai tempi dell’agguato di Via Fani; mi spiego meglio, se lo Stato si fece mettere in ginocchio da un manipolo di uomini non abituati a sparare, e quasi bravi ragazzi, era il segno che lo Stato, in quel momento, aveva toccato il punto più basso e più debole della sua storia non soltanto repubblicana.

Fortunatamente un generale dei Servizi Segreti qualche anno fa ha spiegato che l’azione di Via Fani fu una perfetta esecuzione di una puntuale strategia militare studiata nei minimi dettagli e messa in atto con una violenza ed una spietatezza senza confronti, altro che approssimazione.

Nella realtà lo Stato italiano era, molto probabilmente, in un momento in cui aveva abbassato la guardia anche di fronte ad un fenomeno come quello delle Brigate Rosse che non riusciva a debellare, vuoi per la qualità del messaggio rivoluzionario che portavano avanti e vuoi per la sommersa ma sostanziale solidarietà che riuscivano a conquistare giorno dopo giorno.

E lo Stato ebbe bisogno delle leggi speciali antiterrorismo che fecero sicuramente vincere la guerra contro le BR; se è vero come è vero che l’assalto in Via Fani fu il momento più alto della strategia militare delle BR è anche vero che quel momento segnò la parabola discendente del fenomeno brigatista.

Le leggi speciali consentirono da un lato lo smantellamento delle BR ma dall’altro offrirono ai singoli militanti numerose vie di uscita rispetto ai lunghi anni di carcerazione che li aspettavano; molti furono condannati all’ergastolo ma nessuno è ancora in carcere, neppure quelli che sono ancora in vita. Venne fuori una polemica incredibile sulla validità delle leggi speciali, si arrivò addirittura a sostenere che non dovessero passare al vaglio ed all’approvazione delle Camere. Ma le leggi passarono a larga maggioranza e con la promessa, più o meno esplicita, che sarebbero state presto revocate.

Come spesso accade nel nostro Paese quelle leggi non sono mai state più abrogate e sono tuttora in vigore con numerosi aggiustamenti, tanto da essere state subito utilizzate anche nella lotta che lo Stato, sull’abbrivio della vittoria contro le BR, ha portato in questi ultimi quarant’anni contro le varie mafie, la cui mutazione è altra storia rispetto al fenomeno del terrorismo; quello era una lotta armata, una specie di guerra in campo aperto contro lo Stato che riuscì a vincerla proprio perché era una guerra a viso aperto. Le mafie sono altra cosa, la loro azione criminale è prevalentemente un atteggiamento comportamentale; difatti vengono presi e incarcerati soltanto gli sparatori criminali e mai, o quasi, i capi delle cupole mafiose.

Ma le leggi speciali, seppure largamente inefficaci restano e consentono ad investigatori poco attenti e poco professionali di vivacchiare sulle delazioni o sulle pseudo confessioni, spesso elargite a rate dai singoli componenti la malavita organizzata.

L’altro giorno in Via Fani c’era lo Stato nella sua massima espressione possibile: Presidente della Repubblica, Sindaco di Roma, Presidenti delle Camere, Presidente della Regione ed anche i familiari dei cinque agenti trucidati nell’agguato di quarant’anni fa.

Alla cerimonia ha fatto capolino soltanto Agnese Moro (la figlia) che, almeno per una volta, ha disatteso “il silenzio con lo Stato” volutamente e fermamente, ma anche giustamente, imposto a tutta la famiglia da Nora Moro (nata nel 1915 e morta nel 2010 all’età di 95 anni), la moglie dello statista e Presidente Nazionale della Democrazia Cristiana.

È Nora Moro che tra i primi giunge in via Fani e indica agli inquirenti i nomi dei componenti della scorta barbaramente uccisi. È sempre lei che, alla notizia del ritrovamento del corpo di Moro, si precipita in Via Caetani e «ancora una volta trattiene le emozioni, fronteggia le incombenze immediate tra facce sbigottite e pianti trattenuti» (p. 397 del libro “Roma 1978 – Dietro le quinte del sequestro Moro” di Giovanni Bianconi).

Ma in fondo cosa è il “caso Moro”; i quattro processi, le due commissioni parlamentari d’inchiesta e quarant’anni di indagini hanno contribuito a formare la consapevolezza che all’epoca “ci fu un’azione vasta e coordinata per delimitare e circoscrivere le possibili verità da dire al Paese”.

Nel quarantesimo anniversario c’è stata, infine, un’esplosione di speciali televisivi abbastanza inquietanti che hanno suscitato l’indignazione di molti; anche il capo della Polizia Franco Gabrielli ha detto la sua: “Oggi riproporli in asettici studi televisivi come se stessero discettando della verità rivelata credo sia un oltraggio per tutti noi e soprattutto per chi ha dato la vita per questo Paese“. Sono perfettamente d’accordo con Gabrielli, vedere Adriana Faranda quasi commossa (nel film di Rai/3 a firma di Ezio Mauro) nel raccontare la sua verità sempre contro lo Stato e le modalità della scelta di Moro, senza mai essere contraddetta, è stato davvero deprimente. Per la cronaca Faranda è stata una delle più scatenate terroriste a livello almeno dell’Europa intera; forse anche più violenta di Ulrike Meinhof dell’omonima banda armata tedesca (Bader-Meinhof) che insanguinò la Germania agli inizi degli anni ‘70. E ce n’è anche per Andrea Purgatori, di La/7, che se ha ragione sul principio “chi fa informazione deve ascoltare tutti” ha torto marcio quando esibisce in tv autentici mostri, quasi fossero angioletti dimessi e pentiti. I conduttori televisivi si atteggiano non a semplici magistrati ma addirittura a Corte di Cassazione; veramente molto brutto. Tanto la verità vera i brigatisti non l’hanno mai detta e non la diranno mai, semplicemente perchè non la conoscono neppure loro fino in fondo, manovrati come furono dal grande vecchio.

Pochissime parole e pochi ricordi per i cinque uomini selvaggiamente scannati in quella lugubre mattina (Oreste Leonardo, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino e Giulio Rivera); Claudio Magris ha scritto sul Corriere della Sera del 16 marzo 2018: “Qualche tempo dopo l’assassinio di Moro, una sua strettissima congiunta inviò, a Natale, dei panettoni ai suoi uccisori. Le chiesi pubblicamente, sul Corriere, se si era ricordata di mandarne pure alle vedove dei poliziotti assassinati, anche considerando che, per chi vive con la pensione vedovile di un agente di pubblica sicurezza, oltre ad essere un segno di affetto, può essere anche un piccolo aiuto per il pranzo di Natale. Non ci aveva pensato.

Insomma quella mattina, nel giro di tre minuti, l’Italia piombò nell’incubo e da allora per quarant’anni ha infilato soltanto misteri.

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