Il trionfo della natura

Di Angelo Giubileo (scrittore)

Nel saggio è circoscritta un’attività di ricerca e analisi di vita, che molti direbbero filosofica secondo il comune uso del termine, ma sbaglierebbero, durata per me quasi quarant’anni. Così che, per prima cosa, voglio innanzitutto esprimere la mia gratitudine ai miei cari e poi all’editore ferrarese, La Carmelina, che ha voluto premiare questa mia enorme fatica.

Attraverso il contenuto di molti saggi riletti e soprattutto vissuti in base alla mia esperienza “umana” individuale e comune, la mia storia ripercorre il pensiero e quindi il cammino o la via di Parmenide all’essere, intero, che da solo “è”. Da un punto di vista “umano” e quindi in base all’unico discorso accessibile alla specie corrispondente, il pensiero dell’eleate si conferma e si dimostra inattaccabile o incontrovertibile.

Ciò che “è” l’“intero”, rispetto all’ottica “umana” viceversa di “parte” è quindi ciò che accade (nel tempo), e cioè un perenne incontro-scontro tra il de-stino (lo stare dell’essere e l’essere dello stare medesimo) dell’essere che chiamiamo Natura e il de-stino dell’Umano connaturato all’uso e allo sviluppo scientifico della Tecnica, così come in particolare emerge dall’epoca storiografica che lo storico della scienza Giorgio de Santillana individua agli albori della modalità di pensiero che chiamiamo per l’appunto “scientifico”. All’incirca, ma forse solo forse, collocabile storiograficamente e a ritroso, nel corso del VII-VI millennio dell’evo antico (e.a.).

Il dominio, ma, per chi ne scopre l’intera potenza, sarebbe meglio dire il trionfo della Natura anche sulla specie umana si estende all’intero “cosmo” pensato dai Greci ed è rappresentato dalla figura del Grande Pan. Il trionfo e il dominio sono assoluti, così che anche la specie umana partecipi, come in effetti accade, solo in misera parte alla verità o natura dell’intero Essere, che “è”, senza poter dire o aggiungere altro. Quest’antichissima dottrina – arcinota ai sofoi della tradizione dei “più antichi progenitori”, come li chiama Aristotele, ma evasa dai molti filosofi della tradizione almeno dal medesimo in poi – è nota come dottrina dell’“epochè” o “sospensione del giudizio”. Ogni giudizio “umano”.

A questa prima conclusione, direi che potremmo aggiungerne un’altra, e cioè che l’“umano” oltre a essere una parte destinata per se stessa allo spazio della natura dell’essere, sia anche, secondo viceversa la lettura del tempo, destinata al movimento, ciò che impropriamente chiamiamo anche divenire; così che, in specie nell’attualità e piuttosto all’orizzonte, s’intravede uno spazio che potremmo dire “postumano” o non più “umano”, nel senso per l’appunto aggettivale e comune del termine usato.

 

 

 

 

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