GIUSTIZIA: decreto sicurezza tra prescrizione e immigrazione … il pensiero di Cecchino Cacciatore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Aldo Bianchini

SALERNO – Sicurezza, prescrizione e immigrazione, sono questi i temi che tengono banco a livello politico nazionale italiano. Sul tema molto difficile, complicato, poco discutibile e insufficientemente discusso, non è agevole azzardare commenti e considerazioni. Si deve forzatamente partire dalle cosiddette “linee di pensiero” (che sono tantissime) per cercare di giungere ad una soluzione quanto più possibile accettabile da tutti; insomma, come dire, un’impresa dal colore hollywodiano della “mission impossibile”.

            L’aspetto più brutto dell’intricata vicenda è che a turno e quasi tutte le forze politiche in campo cercano di legiferare in materia utilizzando lo strumento del “decreto legge” che è una vera e propria aberrazione giuridica se utilizzato fuori dalle grandi emergenze e calamità naturali che investono il Paese.

            Su questo difficile tema abbiamo il piacere di ospitare oggi il pensiero personale ma rispettabilissimo di uno dei migliori giuristi salernitani che da alcuni decenni tiene viva la fiaccola di un’intera famiglia che a Salerno si è sempre distinta per le grandi qualità espressive e capacità operative in materia di “diritto”; parlo del noto avvocato penalista-cassazionista Cecchino Cacciatore che ancora una volta  ha ritenuto di continuare il dibattito molto interessante sulla giustizia attraverso questo giornale:

  • Il decreto sicurezza fa dell’immigrato la minaccia, frantuma il diritto di cittadinanza, limita il diritto di difesa. Il decreto Salvini cambia i connotati della disciplina dell’immigrazione, arrivando a toccare profili apparentemente distanti col tema, quali la materia dei subappalti illeciti o quella dell’invasione di edifici e terreni. Sembrerebbe, solo ad una lettura superficiale, che tali materie non abbiano una comunanza di intenti, ma, inserite nella cornice del decreto, l’identità di ratio è più che evidente: l’immigrato- e chi lo aiuta- è la minaccia alla sicurezza, appunto. E, dunque, vanno colpite genericamente le manifestazioni delittuose in cui si ritiene che uno straniero- con buona dose di luogo comune- c’entri sempre, come i subappalti in cui è impiegata manodopera in nero o le occupazioni di edifici in cui vanno a stabilirsi degli abusivi (così il Sole 24ore). Per di più, il decreto guarda a un vero e proprio nuovo diritto degli stranieri, completamente differente rispetto ai canoni culturali degli ultimi trenta anni dell’esperienza italiana: un’ottica securitaria, con etichetta di sospetto e di qualificazione negativa a priori (Flick). Rivisitati risultano il diritto di asilo e di protezione umanitaria, la riforma dei trattenimenti e del sistema di accoglienza, in particolar modo si assiste  a restrizioni in materia di cittadinanza italiana. Con palesi perplessità circa la tenuta di costituzionalità, viene prevista la revoca della cittadinanza a chi non è italiano per nascita ed è condannato per gravi delitti, con l’effetto di considerare cittadini “diversi” costoro rispetto a quelli nati italiani. In parole povere- l’abominio giuridico!– per lo stesso reato sono previste conseguenze diverse a seconda di chi sia nato in Italia e chi no, con la conseguenza che la legge non sarà più uguale per tutti. Sul piano culturale e politico, si tratta della fuoriuscita dall’idea unitaria di cittadinanza, nata come eguale garanzia dei diritti per tutti coloro che la possiedono nei confronti dello Stato che non può essere benigno solo con alcuni; una delle più caratterizzanti la civiltà europea, dalla Rivoluzione francese in poi, da quando, cioè, si è inteso che, a differenza di quelli liberali, i regimi speciali si sono accompagnati all’autoritarismo ed ai reati di mero sospetto. In ultima analisi, anche il diritto di difesa nel famigerato decreto non è uguale per tutti. Incredibile: si prevede l’audizione dello straniero da parte del giudice senza la presenza del difensore e l’obbligo di costui di comunicare, prima dell’udienza, l’eventuale sussistenza di malattie infettive e, nel caso, l’ulteriore obbligo di produrre certificazione medica attestante l’assenza di pericolo di contagio. Con una fava due piccioni: è leso gravemente il diritto di difesa di parte di cui all’articolo 24 della Costituzione, che ne prevede la sua assoluta inderogabilità, nonché il divieto di rivelare dati ultrasensibili. Ma tant’è. L’impostazione securitaria va di pari passo con una svilita concezione dei diritti umani fondamentali. Eppure, sembrava chiaro che la giustizia nel tempo si fosse  evoluta solo quando poneva a sua tutela il rispetto della persona; ma, si sa, libertà e democrazia sono beni preziosi, quanto fragili e l’idea primitiva di giustizia riaffiora facilmente, soprattutto quando si fa uso dello strumento del decreto legge basato su emergenze e necessità percepite ma non affatto concrete, evitando un processo legislativo ordinario che avrebbe garantito, viceversa, un più meditato esame di questioni così rilevanti e delicate sul campo delle garanzie e dei diritti. La civiltà dell’antica Grecia, in cui affonda la nostra cultura occidentale, ci insegna il salto dell’umanità a favore della ragione contro le paure, quando, ad esempio, Eschilo attribuisce ad Atena- dea della ragione, per l’appunto- il compito di fondare il tribunale dell’Aeropago proprio al fine di superare la concezione della giustizia basata sull’idea della vendetta. Il fatto è che, però, il buio non è lontano, è solo oltre la siepe e per conservare i lumi alla civiltà c’è bisogno che si continui a ricordare quello che i classici rappresentarono sulle scene per far comprendere bene a tutti: la tragedia rappresenta la vita pubblica in cui la divisione diventa minaccia assoluta e si insinua in una città ammalata e lacerata dallo scontro dei cittadini tra loro.
  • Qualche riflessione sul tema della prescrizione. All’insulto di essere un azzeccagarbugli, come molto erroneamente sostiene il ministro (malgre’ soi) della giustizia si oppone una risposta ragionata, per non contribuire a gettare il Paese in rissa. L’incidenza sulla punibilità di un reato fa della prescrizione un istituto di diritto penale sostanziale e non meramente processuale. La distinzione è notevole:  va ricercata nel problema della rilevanza del tempo trascorso rispetto alle esigenze di risposta del reato, a seconda che la concezione dello stato sia liberale o meno. La Corte costituzionale ha affermato il principio che l’eventuale esenzione da pena debba essere il frutto di un bilanciamento dei valori in gioco, atteso che la prescrizione è il contrario del processo infinito, ripudiato dalla nostra stessa Carta fondamentale. Gli studiosi -gli studiosi!-  affermano che l’idea che lo scorrere del tempo sia indifferente, con pretese di assolutezza, si rivela compatibile con una visione autoritaria del diritto penale, e non con una giustizia consapevole dei suoi limiti, per la quale il tempo dell’oblio ha un solido fondamento nell’orizzonte costituzionale della pena. Non si nega certo che, in quanto rinuncia alla normale risposta prevista dalla legge per il reato, la prescrizione sia un istituto foriero di ambiguità: è in ogni caso la presa d’atto di un’obiettiva defaillance del sistema. Il punto cruciale è, però, che la finalità nobile di questo tanto vituperato istituto è quella di presidiare l’interesse oggettivo alla ragionevole durata del processo, collegando l’effetto estintivo al superamento dei termini processuali (non certo brevi: 30 anni per un’associazione mafiosa; 40 anni per una finalizzata al traffico di stupefacenti; 30 per una volta all’agevolazione della immigrazione clandestina; 25 per la violenza sessuale; 25 per lo spaccio di stupefacenti; 17 anni e sei mesi per un omicidio colposo per infortunio sul lavoro; 18 anni e nove mesi per una bancarotta fraudolenta 12 anni e sei mesi; 25 anni per la corruzione 15 anni per la concussione. Solo qualche piccolo esempio!). Dunque, la prescrizione non è uno strumento idoneo ad assicurare (come vorrebbe l’art. 111 Cost.) la ragionevole durata del processo penale. Essa, al contrario, è per definizione l’esito di un processo che si è concluso ad irragionevole distanza temporale dal reato. Come si vede, allora, la riflessione sulle ragioni  e sulle condizioni del tempori cedere (tutte dentro i problemi veri del diritto penale della quotidianità: la mancanza della carta per fare le fotocopie, per non parlare dell’organizzazione delle notifiche che risale ai tempi del pony express), è molto più seria, attenendo all’equilibrio tra i due opposti poli, quello autoritario del solo finalismo repressivo e quello liberale, nel quale l’esigenza prioritaria è piuttosto prendere di petto la realtà del sovraccarico giudiziario in tutte le sue dimensioni, senza falso moralismo che dimentichi- tra le altre- una saggia espressione  del senso di giustizia di uno Stato di diritto democratico, che pure viene da lontano e pertanto noto (dovrebbe essere) a chi di questa materia ne mastica per professione: tempus infectum fieri nequit (forse è meglio tradurre: l’aforisma di Plauto vuol significare che non si possono togliere le conseguenze di un determinato evento. Se oggi siamo quello che siamo, ciò accade perché siamo stati quello che siamo stati ma la freccia del tempo viaggia verso il futuro, non verso il passato). Ed allora, tre considerazioni finali: a) Lo scorrere (enorme) del tempo in uno Stato laico fa venir meno l’interesse a punire laddove si assegni alla pena (da Beccaria in giù) scopi socialmente utili; esalta l’esigenza garantista di assicurare la salvaguardia del diritto di ciascuna persona di pianificare libere scelte di vita; quanto più un reato è lontano tanto più difficile è provarlo, perchè le prove sbiadiscono (si pensi al ricordo dei testimoni) mano a mano che ci si allontani dal momento del delitto. b) Un processo senza fine, quello che si verificherà se passa la proposta ultima di sospendere la prescrizione dopo il primo grado, non è consono alla Costituzione repubblicana, a meno che non si voglia sospendere proprio la Costituzione stessa. c) E’ un crocicchio ideologico che non merita risposte come quelle pervenute all’avvocatura preoccupata di assicurare garanzie e diritti, alimenti democratici.

 

Considerazioni:

            Ripeto spesso che questo è un giornale di nicchia che cerca da sempre di stimolare interessanti dibattiti; mi auguro che anche questa volta le riflessioni dell’ottimo Cecchino Cacciatore (riflessioni che condivido pienamente) possano far lievitare la discussione su un tema assolutamente interessante che non può essere affidato al pensiero di poche migliaia di iscritti alla “piattaforma Rousseau” che ha generato la cosiddetta “democrazia della rete” voluta a piene mani dal Mov. 5 Stelle proprio quando è la stessa rete che viene messa fortemente in discussione da molti Paesi del mondo e per diverse realtà. Gli iscritti di quella piattaforma non sono né la maggioranza del Movimento e ancora meno rappresentano la maggioranza di un intero popolo. Per cui, pur rispettando la loro identità vanno presi con le molle della ragione.

            La seconda riflessione riguarda il modo con cui noi italiani approcciamo i temi di difficile risoluzione; sicuramente lo facciamo con innegabile senso della democrazia, vera e pura senza bisogno della rete; altrettanto sicuramente, però, siamo ancora una democrazia che sembra intrisa di odiosi residui imperialisti e dittatoriali che impediscono un discorso più sereno anche se solo apparentemente meno democratico.

            Terza ed ultima riflessione, per il momento, riguarda tutto ciò che accade al di fuori dei nostri confini; è sufficiente pensare agli USA che quasi sempre e ingiustamente viene presentato come un Paese dove la libertà democratica è assoluta. Frutto questo della tracimante propaganda occidentale che nello scontro biblico tra la Russia e gli USA ha materializzato su quest’ultimo Paese la bandiera mondiale della democrazia. Negli Stati Uniti d’America il concetto di “sicurezza” è molto diffuso ed è vissuto in maniera completamente diversa da noi; lì si ha una percezione molto sovranista del concetto, eppure quel Paese viene sempre indicato come quello più democratico-liberale del mondo. E c’è di più; i tanti milioni di italiani che vanno negli USA per turismo e/o per lavoro sanno benissimo che ogni volta, anche ogni giorno, si viene sottoposti al prelievo delle impronte digitali; da noi, invece, si discute ancora se e in quali casi prendere le impronte agli immigrati.

            E’ storia che Eschilo, come dice Cecchino Cacciatore, diede incarico alla dea Minerva di fondare il “tribunale Aeropago” (sito sull’omonima collina a metà strada tra l’agorà e l’acropoli di Atene) per le supreme magistrature, ma quel sistema giudiziario apparentemente super partes ebbe vita alquanto breve, grazie anche alle randellate di Pericle; oggi regna in parte l’intrigo e la vendetta; soprattutto nei tribunali odierni che si fregiano della denominazione di “Aeropago”.

            Ecco perchè la materia è assai difficile da risolvere, men che meno può essere risolta da pochi attraverso il web.

            Questo giornale, con il pensiero dell’avvocato Cecchino Cacciatore, ha cercato di offrire il suo contributo al dibattito che dovrà essere forzatamente a 360°.

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