Commissione Europea: che fare ?

 

Felice Bianchini junior

(Corrispondente – notista politico)

 

ROMA – È dall’insediamento del governo Conte che è iniziata l’escalation di eventi e di dichiarazioni (o meglio frecciatine) che hanno coinvolto i gialloverdi e la Commissione Europea; quest’ultima si è espressa sulla manovra italiana, che è ormai arrivata all’esame delle camere, dopo che al governo era stato intimato di modificarne il contenuto, al fine di renderlo compatibile con i parametri dell’Unione. Il giudizio è negativo, anche se non di immediata comprensione: vengono tirati in ballo in continuazione debito, deficit, PIL, e via dicendo, senza che rimanga chiaro all’opinione pubblica ciò che sta avvenendo.

 

La Commissione, per effetto dei “Trattati” (TUE e TFUE), ha il compito di coordinare le politiche economiche degli stati membri (con moneta euro), coordinamento che, con la legge 209, 2 Agosto 1997 (e i regolamenti 1466/97 e 1467/97 ad essa collegati) e il regolamento 1176/2011, si manifesta come una sorveglianza vigile e approfondita, tanto da prevedere anche missioni interne al paese che mostri di essere fragile da un punto di vista economico, al fine di smentire o confermare il rischio percepito.

A questo si aggiunge la stretta ai bilanci dell’Eurozona che è avvenuta nel corso dell’ultimo decennio, culminata con l’adozione del Patto di bilancio, il quale ha previsto: l’inserimento in costituzione del pareggio di bilancio, il mantenimento del deficit strutturale al di sotto dello 0,5% del PIL e, in caso di debito pubblico superiore al 60% del PIL, una riduzione annua di almeno un ventesimo della parte che eccede il suddetto 60% (nel caso dell’Italia l’eccedenza è circa del 71%, con un rapporto debito/PIL del 131%).

Sotto il governo Monti, l’intero “pacchetto” del Patto di bilancio fu mandato giù senza fiatare e vi fu una riforma sostanziale della costituzione, effettuata con la modifica dell’articolo 81 – e lascia perplessi che parte dell’opinione pubblica ignori che l’articolo così com’è oggi non sia stato né mai concepito, né tantomeno scritto dai nostri padri costituenti. Le regole d’oro del Patto di bilancio si andarono ad aggiungere ai parametri di Maastricht in tema di finanza pubblica, i quali prevedono che ciascun paese abbia: un rapporto deficit/PIL non superiore al 3% e un rapporto debito/PIL inferiore al 60%.

In caso di non rispetto di una parte dell’insieme di regole, somma di tutto ciò che abbiamo detto, la commissione è nella posizione di inviare un richiamo, accompagnato da una serie di aggiustamenti da apportare alla rotta intrapresa dallo stato membro; infine, se le raccomandazioni venissero ignorate, di avviare una procedura di infrazione, che può prevedere delle sanzioni.

Come noto, già nel 2011 c’erano stati problemi di Spread e di debito pubblico, nonché “letterine”, le quali hanno propiziato l’avvento di un periodo di riforme strutturali del paese; in cambio di sacrificio, venivano promessi il risanamento e la rinascita, come tutt’ora parte della politica crede ancora sia stato e sia possibile, nonostante, dopo ormai più di 5 anni, non vi sia un risultato reale soddisfacente (per quanto alcuni numeri possano timidamente dire il contrario).

 

Ritornando ai giorni nostri: il 13 Luglio 2018 si è tenuto l’Ecofin, al margine del quale è stato pubblicato un rapporto; in allegato sono state pubblicate tutte le raccomandazioni ad hoc per ogni paese. La raccomandazione italiana, tra le più scottanti, è un documento articolato in 33 punti, di cui 29 “considerazioni” e 4 finali nei quali sono esplicitati gli aggiustamenti da mettere in atto.

“L’Italia presenta squilibri macroeconomici eccessivi”, questo è ciò che sta alla base dell’attenzione speciale che ci è riservata. Viene tirato in ballo l’articolo 126 del TFUE, ma non è la prima volta: anche nei precedenti due anni, infatti, eravamo finiti sotto le bacchettate di Bruxelles, tra il 2016 e il 2017. Il motivo principale sempre lo stesso: non rispetto della regola del debito. Il nostro debito pubblico, dall’inizio dell’esperienza euro – e in particolare dall’inizio dell’ultima legislatura Europea -, anziché diminuire, è aumentato, subendo solo alcune piccole deviazioni al ribasso. La giustificazione, nei precedenti anni, è stata il peso dei terremoti e l’intensità del flusso migratorio: per questi due motivi non fu criticata oltre l’inosservanza – che potremmo definire ormai quasi strutturale – della regola del debito, e fu ritenuto ingiustificato l’avvio di una procedura per disavanzo eccessivo. L’onere di questa ormai famosa procedura di infrazione potrebbe ricadere sul nuovo governo dopo nuove valutazioni dei dati, in vista da qui alla primavera del 2019 – che si prospetta quindi una primavera più calda dell’autunno, viste anche le elezioni.

Infatti l’attuale governo viene accusato di non stare rispettando la regola del debito e di aver messo in conto un deficit eccessivo. Stando ai numeri, il deficit è del 2,4%, quindi apparentemente al di sotto del 3% richiesto; tuttavia, la sua consistenza è vincolata alle stime di crescita, che se dovranno essere riviste al ribasso, come rimprovera la Commissione, lo porterebbero al di sopra del 3%. La previsione della Commissione, in sostanza, è che il governo italiano non ridurrà il debito e spenderà in deficit più del dovuto.

 

Ma cosa raccomanda il Consiglio alla luce del rapporto della Commissione? Oltre al debito, per il quale viene raccomandato un utilizzo di entrate straordinarie da destinare alla sua riduzione, si parla di occupazione, che è cresciuta, anche se gonfiata dal tempo determinato e dalla precarietà; si parla di sistema pensionistico, che presenta una spesa tra le più alte, con l’aggravante di una popolazione che invecchia; c’è poi il capitolo catasto, il quale è da aggiornare, e il tema pagamenti, che vede la fatturazione elettronica all’orizzonte, ma al contempo un innalzamento del limite di spesa in contanti, che va ad appesantire il “sommerso” del paese, il quale pesa anche sul dato occupazione. Viene poi presa in considerazione la fuga di cervelli in atto, nonché ciò che spesso è causa ed effetto di questa fuga, ovvero la riduzione degli investimenti, sia privati che pubblici, in innovazione, ricerca, sviluppo e formazione – e viene additata come colpevole l’abbondanza di microimprese. Non potevano mancare la corruzione e in generale il sistema giudiziario: per la prima, vengono fatte considerazioni positive, ponendo l’accento sulla prescrizione, la quale può essere d’aiuto contro la corruzione se abolita dopo la condanna in primo grado – suggerimento arrivato dal gruppo di Stati del Consiglio d’Europa; l’anticorruzione viene collegata dalla prescrizione alla necessità di un miglioramento dell’efficienza del sistema giudiziario, che passa necessariamente per la celerità dei processi.

Alla luce di tutto ciò, viene chiesto all’Italia di: spendere meno, ridurre il debito, investire di più, tenere più a lungo le persone sul mercato del lavoro, e al contempo migliorare il dato di disoccupazione giovanile, continuando, nel mentre, anche a risanare i bilanci delle banche.

 

Al di là della realizzabilità e degli effetti delle due visioni, ovvero quella del governo e della commissione, il vero punto è: se alla fine della fiera, l’unica possibile soluzione ai problemi dell’Italia è seguire passo passo il percorso di obiettivi a medio e lungo termine dell’Unione, a che pro far continuare a votare le persone? Se esiste una Commissione, scelta per competenza, che vigila e ammonisce quando vengono fatti degli errori, che chiede di ridurre a zero la spesa pubblica e un aumento delle privatizzazioni come rimedio al debito pubblico, perché continuare a esprimere maggioranze complesse, multicolore, perché perdere tempo a fare accordi, alleanze, a firmare contratti, se chi deve decidere è la “competenza” e gli altri devono seguire?

Tra i principi dell’Unione vi è il rispetto per le generazioni future, quindi mi chiedo: se quella presente, quando era ancora futura, non è stata rispettata – e visto che questo è ciò che viene detto, in salsa diversa, da ogni parte politica, riguardo l’ammontare del debito pubblico italiano: è frutto di errori passati -, perché far pagare pegno a questa generazione, azzoppando la politica e lo Stato nazionale, togliendo loro, di fatto, il controllo sulla politica economica, che viene appiattita a tagli alle spese e pagamento del debito?

Se poi tra i principi ci sono anche la piena occupazione e l’incremento del grado di benessere della popolazione, perché costringere uno Stato a tagliare sanità, istruzione, ricerca? Perché consentire ad un’azienda che fa profitti di spostare la produzione in un territorio in cui la mano d’opera costa meno, lasciando senza lavoro intere famiglie? Perché dobbiamo continuare a vedere gli edifici che cadono a pezzi, le strade sconnesse, i ponti che crollano, le imprese che chiudono, il lavoro che diminuisce e la povertà che aumenta? È credibile che sia tutta colpa dell’Italia indisciplinata, corrotta, ignorante e sfaticata?

Continuare a chiedere sacrifici a un sistema affannato, frustrato e che non vede prospettiva, può significare due cose: o una rivolta, o un crollo.

 

Sento sempre più spesso paragonare lo Stato ad una famiglia, ad un’azienda – ed effettivamente è la situazione che si è venuta a creare nell’Eurozona, la quale, direi di conseguenza, viene paragonata ad un condominio: gli stati membri, con economie diverse, lingue diverse, obiettivi e strategie politiche estere e interne diverse, hanno deciso di mettersi insieme economicamente, senza unirsi politicamente. Una moneta senza governo, e i governi senza moneta: un’eccezione che nella testa dell’opinione pubblica è diventata regola. Questa scelta è comprensibile se si focalizza quale sia l’obiettivo (nessun complotto, solo scelte in funzione di obiettivi): far muovere liberamente capitali, persone e merci in un mercato libero, privo di mano statale, in cui l’autodeterminazione dell’individuo faccia da motore alla crescita e allo sviluppo; tuttavia, questo è un gioco a somma zero, e chi ha guadagnato è in inferiorità numerica rispetto a chi ha perso.

In Europa non c’è un governo, ma c’è una banca centrale – al di sopra di tutte le altre sue simili di stampo nazionale, nonché dei governi – i cui dipendenti sono liberi di comunicare o meno al pubblico ciò che avviene al suo interno e che, non appena usciti, devono rispettare il segreto professionale.

La BCE, così come le banche centrali nazionali, effettua operazioni sul mercato finanziario, senza però curarsi dei debiti degli stati membri, i quali devono chiedere finanziamenti al di fuori del sistema bancario, rischiando, in mancanza di fiducia, di rimanere a secco. Non c’è cura dell’aspetto debiti pubblici perché il compito della BCE, anche se l’articolo 3, concernente i principi dell’Unione, parla di piena occupazione e benessere, è – e direi logicamente, visto l’obiettivo ultimo, ovvero la creazione di un mercato unico a concorrenza libera, che necessita di una moneta unica – il controllo della stabilità dei prezzi, ovvero il controllo sull’inflazione (e deflazione).

L’Europa così com’è strutturata, però, non può tenere fede ai suoi principi (art 3), poiché il controllo sull’inflazione non assicura né la piena occupazione, né l’accrescimento del benessere; anzi, sta favorendo, oltre alle disuguaglianze sociali, il fenomeno del moral hazard: per assicurarsi sul rischio dell’Italia, nell’ultimo periodo, sono schizzate alle stelle le vendite di credit default swap, che non sono altro che scommesse/assicurazioni sul crollo del paese.

 

Le cose da fare sono tante, le persone povere e disoccupate in aumento, e c’è un debito da pagare: dove prendere i soldi? La svalutazione non è consentita: essendo il perno dell’unione monetaria la stabilità dei prezzi e del tasso di cambio, la moneta non può essere svalutata, poiché i prezzi ne risentirebbero; inoltre, le nostre economie si sono talmente aperte che è diventato impensabile svalutare, poiché diminuire il potere d’acquisto al nostro interno comporterebbe difficoltà in entrata, per via di costi maggiori, mentre in uscita si verificherebbe una sorta di svendita. Oltretutto, non esistendo un “Euro italiano” distinto dagli altri, svalutare l’euro è impensabile poiché significherebbe dire ad altri, che magari sono messi meglio di noi, “da ora avrete minor potere d’acquisto su scala mondiale”. Ma se non si svaluta la moneta, finiscono per essere svalutati i salari.

La soluzione può essere allora chiedere un finanziamento, dei soldi in prestito – e qui ritorna il paragone Stato-Famiglia: la possibilità di ricevere denaro in prestito per uno stato dell’Eurozona è vincolata alla fiducia del mercato finanziario, che se si pone in maniera rigida, se vede un rischio alto, o si astiene dall’acquisto di credito (dal prestare soldi), o richiede una ricompensa per il rischio più alta (che significa un rialzo del tasso di interesse); non solo: se le vendite di titoli calano, non c’è nessuno che si impegni a sorreggerle ad un livello stabile. In mancanza di fiducia del mercato, anche il miglior venditore, con in mano il miglior prodotto, non riuscirà a convincere facilmente.

In Italia il paradosso è che prima di pagare gli interessi abbiamo un quadro sostanziale positivo, per via del nostro avanzo primario; quando però arriva il conto degli interessi, le tasche rimangono vuote, anzi i debiti aumentano.

Il metodo più comune di finanziamento statale è il prendere soldi tramite il gettito fiscale, ovvero con le tasse. In Italia, tuttavia, le tasse sono a un livello decisamente più alto rispetto agli altri paesi d’Europa; e, come se non bastasse, siamo tra i primi anche in quanto a evasione fiscale.

Se non si possono fare operazioni sul valore della moneta, e diventa difficile, quasi al punto da essere controproducente chiedere soldi in prestito, e la fiducia negli strumenti finanziari e nei titoli di stato italiani diminuisce – e se la pressione fiscale è una delle più alte, insieme con l’evasione -, allora non rimane che tagliare. Ma dopo che a suon di tagli l’economia è diventata quasi improduttiva, dopo che l’investimento da dieci anni è calato e non è più tornato ai livelli di prima, cosa bisogna fare?

Buona parte di chi dice di appoggiare la politica e parte dei politici non si accorge che, nel sistema in cui ci siamo infilati, chi è in una situazione come la nostra avrà sempre la “coperta corta”, riceverà richiami continui e sarà costretto a sacrifici a tempo indeterminato per far abbassare un debito che con le ricette stabilite non fa altro che aumentare.

Economisti e politici (alcuni addirittura che si definiscono di sinistra) strizzano l’occhio al liberismo economico, storcono il naso quando sentono parlare di reddito minimo garantito e di rete di sicurezza sociale, riempiendosi la bocca di “lavoro”, dicendo che “non si crea per decreto”, senza considerare che alla politica, tolto – o tagliato, se preferite – il potere sull’economia, non resta che lo scrivere leggi, che spesso neanche vengono rispettate.

 

È in atto un rallentamento globale, dovuto anche e soprattutto al momento di incertezza politica a cui stiamo assistendo; questo ci obbliga a un ripensamento del sistema in cui viviamo, per riuscire a riportare al centro del dibattito il cittadino e i suoi diritti e doveri, mettendo al suo servizio e sotto la sua responsabilità una rete sociale che altro non è che lo Stato, che non può morire, essendo alla sua base la semplice relazione tra un gruppo di persone, il loro agire e lo spazio in cui è ambientato.

Vincendo la sfida del ripensare lo stare insieme e la cura dell’ambiente in cui lo stare insieme si realizza, si potrebbe ottenere un nuovo equilibrio politico e sociale, in vista di sfide future ancora più ambiziose, ma che necessitano una pace che non sia semplice abbassamento di armi, ma una nuova organizzazione che garantisca il benessere mondiale.

 

Mantenendo questo passo, invece, si soffocherà, senza che nessun politico o economista debba o possa fare niente: nessuna colpa, nessun complotto, è solo il destino segnato dalla rotta intrapresa da questa macchina automatica che chiamiamo UE. Non serve conoscere il vertice per capirlo, basta guardare la base, che sorregge tutto il peso che grava dall’alto.

 

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