Libertà e Scelta

 

Felice Bianchini junio

(Corrispondente – notista politico)

 

ROMA – Era il 2003, quando Silvio si fece, come suol dire, riconoscere, con una battuta infelice a Schulz, in plenaria al parlamento di Strasburgo. Era poi il 2011, quando arrivò una “letterina” da Francoforte, con il piano di riforme per l’Italia, mentre Berlusconi si avviava a passare la campanella a Mario Monti.

Non proprio immagini di una storia d’amore, quindi, questi ricordi in salsa europea del Cavaliere. Eppure, nonostante tutto, negli ultimi mesi ha iniziato a battere nel petto di Silvio un cuore europeista.

Che nella vita si possa cambiare idea è logico, nonché lecito. Infatti, che non dia sentore di indignazione ciò che ho scritto, poiché è più che altro simpatia quel che suscita questa improvvisa redenzione sulla via di Damasco.

Tenerezza è invece ciò che esplode nel cuore alla vista della nostalgia delle varie “sardine” di Silvio, che ancora si illudono che per Salvini la soluzione ideale sarebbe ritornare, come il figliuol prodigo, nella dolce casa del centrodestra. Attenzione: nessuno vuole dire che la compagnia di Di Maio sia più gradita al Capitano; ciò che sembra palese è che nel futuro della Lega ci sia la “fiamma” della Meloni, piuttosto che le pie illusioni dei devoti vassalli del cavaliere, i quali ormai sembra quasi più probabile si ritrovino a braccetto con l’altro Matteo – e francamente, viste le circostanze e le posizioni espresse, per quanto mi venga insegnato che in politica la coerenza sia solo un biglietto da visita e poco più, la riterrei un’immagine molto più coerente di quella attuale.

Confusione è però la parola che più di tutte avvolge il dibattito politico, vuoi per la frenesia della “social-izzazzione” dell’informazione, che abbatte le distanze spazio-temporali; vuoi per la coerenza-incoerenza dell’intera e sottolineo intera classe politica; vuoi per il disinteresse e la superficialità con le quali viene affrontato il dibattito, da parte di tutti, o quasi – e dico quasi a malincuore, visto che non vorrei che finisse per diventare un’uscita d’emergenza, utile a qualche Pilato di turno per tirarsi fuori dal marasma.

Senza presunzione, credo di aver centrato il punto: la libertà. Perché parlare infatti di coerenza? Essere coerenti può cozzare con il senso di libertà di alcuni, che potrebbero ritrovare quest’ultima proprio nella liceità del cambiare idea; posto il problema su questi binari, non avremmo di che lamentarci, visto che, come abbiamo detto, la politica viene tacciata da alcuni di essere l’arte dell’incoerenza, della corruzione e del compromesso.

Non a caso, il senso di responsabilità che sente il nostro Cav viene fuori dal suo sentore di pericolo del sistema di valori liberali (anche se definirsi liberale apre le porte a un oceano di interpretazioni).

Continua ad essere tutto sempre più oscuro: su cosa si poggia lo scontro politico in atto? Sentiamo parlare di nazionalismo, sovranismo, capitalismo, liberalismo, un po’ meno di socialismo: ma chi è chi, e chi vuole cosa? Dovrebbero essere queste le domande da porsi, di fronte alla confusione di cui si parlava prima, che è un fatto e non una mera supposizione. “Non esistono più sinistra e destra”: vero, se la distinzione segue i canoni classici, visto che alcuni di quelli che si definiscono attualmente di sinistra fanno rivoltare nella tomba uomini ormai non più tra noi. Cosa vuol dire essere di sinistra, o di destra? Girando per strada c’è ancora chi divide la politica in fascisti e comunisti, alimentando la confusione.

No, inseguire queste persone non porta a soluzioni, ma solo a crisi di nervi. Visto che ognuno si prende la briga di dare le definizioni che preferisce (sia chiaro, tutti usufruiscono di questo diritto, dal bar, al parlamento, passando per i salotti), getterò anch’io nel minestrone ciò che, tra letture e riflessioni personali, ho cavato dal buco. Sarò breve, semplice, e ahimè forse anche poco originale: “di destra” è chi vuole mantenere lo status quo, mentre “di sinistra”, per converso, sarà considerato chi vuole ribaltare lo status quo.

Ma azzardiamo un approfondimento: per status quo intendiamo la relativa attuale divisione di forze e compiti entro le tre grandi “istituzioni” in cui si rende pratica la nostra vita, ossia Mercato, Stato e Democrazia. A seconda di quanto l’uno subisce o esercita influenza sugli altri, si delinea il tipo di società in cui si vive.

Arrivati a questo punto, serve un modo per definire il proprio orientamento politico nello specifico. A mio modo di vedere, credo ci si possa definire, al di là di obiettivi o battaglie particolari che ognuno vuole perseguire, ponendosi in relazione ad alcuni concetti fondamentali: libertà, uguaglianza, individuo e società. Dopo aver dato la relativa importanza a questi concetti, o per aiutarsi ad effettuare questo tipo di valutazione, credo sia necessario prendere posizione riguardo la produzione e distribuzione della ricchezza, che può essere affidata al solo Mercato, al solo Stato o ad entrambi, stabilendo quanto e come debba intervenire lo Stato: se ponendosi da semplice arbitro e regolatore del gioco, oppure se si ritiene giusto, se non necessario che entri in campo e si comporti da giocatore; se quindi lo stato debba essere minimo o massimo, attivo o passivo, e in che modo e misura. Se questo punto è cruciale, è dovuto alla stretta connessione che c’è tra l’equilibrio che intercorre tra le tre “istituzioni” e il risultato che si ha in termini di libertà e uguaglianza, e della relativa importanza che hanno individuo e società.

L’ago della bilancia, nonché “unità di misura” del sistema, ovvero delle relazioni tra i vari concetti che abbiamo elencato e le tre istituzioni, altro non è che il benessere. Minore è il benessere, maggiore sarà la spinta verso il cambiamento dello “status quo”.

Ma da cosa passa sostanzialmente questo benessere?

Sfido innanzitutto il lettore, se già non l’ha fatto, a dedicare due minuti del suo tempo a trovare il suo punto di equilibrio tra libertà e uguaglianza, tra individuo e società, e infine tra Stato, Mercato, e Democrazia. Dopodiché, sarà più semplice, oltre che decisamente più utile, procedere all’interno di un labirinto, apparentemente privo di uscita, che può essere rappresentato da una figura concettuale-geometrica che mi piace chiamare “triangolo della vita”.

Partiamo dal principio: l’essere umano può essere generalmente definito “essere vivente”; questo suo vivere credo sia riassumibile in un flusso o meglio ancora un movimento, ahimè con una meta già nota, visto che – non me ne vogliano gli ottimisti – dobbiamo ricordarci che dobbiamo morire, a prescindere dalla propria fede religiosa, dalle speranze di vita eterna, o se la morte sia o meno “annientamento”. Ciò di cui abbiamo perlomeno contezza, ossia il lasso di ciò che definiamo tempo che intercorre tra la nascita e la morte, è quindi una serie di “sotto-obiettivi” che precedono quello finale, i quali vengono ogni momento perseguiti e richiedono un costo, in termini di tempo e di “opportunità”, dove per “costo opportunità” intendiamo banalmente una scelta. Questo continuo processo di “pagamento” di tempo e opportunità, questo continuo scegliere cosa fare (e di conseguenza non fare), che non è altro che il vivere, si manifesta con le azioni, l’insieme delle quali forma l’Agire. Il vivere è dunque un flusso di scelte, di azioni, un movimento.

Per ritornare al “Triangolo” di cui parlavo occorre riconsiderare la direzione, il senso di questo movimento: qual è la meta? Dove è diretto questo flusso? Alla morte, è chiaro, ma a parte chi decide di fermarsi, la maggior parte di noi sente il bisogno di “muoversi” e dare un senso, una direzione al movimento tramite quella serie di “sotto-obiettivi” che è la vita, che possono essere raggiunti solo muovendosi, ossia scegliendo e agendo. E qui entra in gioco il triangolo: al vertice superiore è posta la Vita, mentre alla base si collocano Sopravvivenza e Realizzazione. Il concetto di Sopravvivenza non necessita di definizione. Per Realizzazione, invece, estremizzando il concetto, intenderemo una condizione in cui si potrebbe collocare la fine del “movimento”, per impossibilità di raggiungere una posizione migliore; più semplicemente potremmo dire di stare parlando di felicità. Entrambi i concetti rappresentano due insiemi di “sotto-obiettivi”. Lasceremo all’intuito del lettore collocare degli obiettivi che vengono lui in mente in uno dei due gruppi.

Il triangolo mette in evidenza, scindendo in due il movimento vitale, ciò di cui necessita un individuo, per non cessare di vivere: sopravvivenza, senza la quale è chiaro non ci possa essere vita; e realizzazione, che non preclude la prima via, ma che è indispensabile per poter definire la vita tale, e non mera sopravvivenza. È infatti in nome di ciò che stiamo chiamando realizzazione che sono stati affermati principi come quello di autodeterminazione alla base della libertà.

Il problema di fondo è che non sempre tutto va secondo i piani, come è chiaro che sia. Le nostre scelte, quindi le nostre azioni, hanno alla base delle aspettative, degli obiettivi, i quali non sempre vengono raggiunti, vuoi per nostre valutazioni (scelte) sbagliate, vuoi perché sopravviene ciò che potremmo chiamare “sconfitta”. La nostra vita è infatti competizione: come potrebbe essere altrimenti, svolgendosi all’interno del connubio Stato-Mercato? Nient’altro che un gioco, con le sue regole, i suoi vincitori e i suoi sconfitti.

Ma più sconfitti, ovvero individui che non saranno sopravvissuti/realizzati, ci saranno, minore sarà il benessere e quindi, come detto prima, maggiore sarà la volontà di cambiare aria. Credo ci sia questo principio alla base di migrazioni e rivoluzioni.

Sull’onda di questa analisi, c’è un’altra famosissima domanda da fare al lettore: la somma del benessere individuale è maggiore o minore del benessere della collettività nel suo insieme?

 

Ed eccoci giunti al muro di questo vicolo cieco: “La libertà finisce dove inizia quella degli altri” frase sacrosanta, sentita e risentita, che ispira fiducia, ruba sorrisi. Tuttavia, va con riguardo distaccata la libertà dalla realizzazione di un uomo: si è pensato che riuscire a lasciar vivere un uomo in un sistema “libero” bastasse a “renderlo felice” o “permettergli di realizzarsi”. Ciò che la libertà, nel senso più stretto, concede è semplicemente la possibilità di correre verso il tuo obiettivo, che non vuol dire che esso sia a un passo e ti sia garantito il suo raggiungimento. Sia chiaro: non sto criticando la condizione di libertà in cui vivo; analizzo il titolo che secondo me erroneamente le viene concesso di “condizione ideale”. Criticare la libertà come condizione ideale non necessariamente vuol dire etichettarla come un qualcosa di negativo. Nel nostro caso, infatti, la libertà non risulta incapace di essere condizione ideale a prescindere, bensì risulta incapace di esserlo “da sola”. Se si prende il sistema “individuo”, il sistema “singolo”, esso trova la sua libertà nell’assenza di limitazioni, o meglio nella possibilità di realizzazione, di raggiungimento del proprio obiettivo. Lasciare libero un singolo di realizzarsi, però, non racchiude in sé un’assicurazione sul fallimento: qui si gioca la partita fondamentale. Se in un mondo in cui vige la legge del più forte viene stabilito che i più deboli vanno rispettati, ciò che si frappone tra l’affermazione e la realizzazione di questo principio è un progetto sul piano pratico, che impedisca la gogna e la miseria a chi ha fallito. Tuttavia non ci si ferma qui: anche se la libertà di realizzazione e il rispetto della dignità venissero affermati e resi pratici sempre, comunque, in caso di fallimento, vi sarebbe la mancata possibilità di realizzazione, visto che il desiderio di partenza dello “sconfitto” non verrebbe esaudito.

 

Mentre sembrava che stessimo volando alla Pindarica maniera, in realtà il nostro filo ci ha riportato all’inizio, alla “crisi liberale” di cui parla il nostro Silvio. Secondo il ministro Savona, la crisi del liberalismo si è avuta per via dell’attrazione fatale esercitata su di esso dalla “giustizia sociale”. Dopo una parte di secolo passata a rincorrere il welfare state e a farsi corteggiare dal socialismo, il liberalismo si è rivolto nuovamente al libero mercato, confluendo nella nuova dottrina del capitalismo finanziario. Questo perché la mano statale è stata e viene accusata di due possibili derive: assistenziale, che rende assuefatto il cittadino all’aiuto dello stato; e totalitaria, che vede la mano statale stritolare e invadere la libertà individuale fino a condizionarne l’esistenza. Si è preferito mettere prima l’individuo, cercando invano di porre tutti allo stesso punto di partenza, finendo col fondare una società in buona parte egoista, individualista e nichilista.

“Tutto questo è già stato visto”, si dice, e in parte è vero. Ciò non toglie però che tutto ciò sia effetto e non causa. Giusto sarebbe dunque rimuovere le cause, scegliendo la strada dell’intervento, al posto dell’immobilismo.

Ed è qui che si conclude questo tentativo di alzare il livello del dibattito dalla chiacchiera e la confusione in cui è relegato.

 

Sul muro del vicolo cieco c’è scritta l’ultima domanda: cosa si fa per e con uno sconfitto?

 

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