Famiglie, pargoli e crisi varie

 

Felice Bianchini junior

(Corrispondente e notista politico)

 

ROMA – Confusione. Sempre e comunque confusione, urla, proteste, manifestazioni attorno ad ogni tema. Ma ogni tema cela dietro di sé un problema, una domanda a cui dare risposta. E spesso, nel caos, le risposte si perdono, o addirittura non trovano spazio.

 

È quello che mi viene in mente pensando al recentemente concluso congresso sulla famiglia di Verona, che ha scatenato ira, indignazione di ogni tipo: da parte di chi era fuori nei confronti di chi vi partecipava, e da parte di questi ultimi nei confronti di chi non era presente. Ma dietro al tema della famiglia, che ha conquistato l’ordine del giorno per più di una settimana, scatenando addirittura la schiera di titoli su una presunta crisi di governo in atto, quale problema si cela?

 

Aberrando qualsiasi discriminazione di tipo sessuale, tanto quanto il fanatismo transgender oggi di moda, e ritrovandomi quindi in un ipotetico “centro”, credo di poter essere innanzitutto obiettivo. Dopodiché, mi preme dare una risposta al quesito posto sul tavolo. Il problema è molto semplice, mentre la sua soluzione complessa ai limiti del risolvibile.

 

Il problema è che in Italia (e in Europa) è in atto, già da un po’, una crisi demografica di importanti proporzioni. “L’Italia è un paese di vecchi”, è una verità che può non piacere, ma è una verità. E credo che un problema ad essa collegato sia che viene tirata in ballo solo se si parla di sostenibilità del sistema pensionistico – per carità!, un altro problema importantissimo, ma non la prima cosa che viene in mente quando si denuncia una crisi demografica (almeno per me è così, anche a costo di risultare meno “pratico” e più “chiacchierone” di altri).

Del resto, alla conseguente insostenibilità del sistema pensionistico ci si arriva, mentre la soluzione non passa strettamente da lì, visto che deve fare i conti con altre cause ed effetti della crisi demografica.

 

Alla base di questo problema troviamo ragioni sia culturali che economiche. Le prime non devono essere un tabù, e non devono scatenare indignazione, semmai far riflettere, senza pregiudizi. Quando parlo di ragioni di tipo culturale mi riferisco al crescente individualismo che si è andato costituendo all’interno della nostra società, che tra i suoi “contro” presenta la responsabilità di aver contribuito alla crisi demografica, favorendo un tipo di progettualità di vita divenuta sempre più di moda, ossia un carrierismo sfrenato che strizza l’occhio all’indipendenza di tipo sessuale (legittima sia chiaro) che non demolisce, ma nemmeno giova all’architettura familiare. Chi si scaglia contro l’aborto, o contro i contraccettivi, additandoli come causa, non ha capito un bel niente, tanto quanto chi fa il conto dei divorzi e vede nell’abolizione del divorzio la stabilità familiare – ma di solito i due profili coincidono in un unico individuo. I miopi guardano a valle, e sentenziano. Chi ha vero spirito critico risale a monte, e ragiona.

 

Alla sorgente di questo fiume in piena c’è una degenerazione dei nostri rapporti interpersonali, che sfocia, in campo amoroso, molto spesso, in relazioni precarie. Tanti di quelli che oggi criticano il congresso di Verona si sono spesi in questo senso, dando contributi di tipo sociologico/psicologico alla descrizione del panorama delle relazioni sociali del terzo millennio, parlando di deficit di comunicazione, di depressione cronica, di rancore e di chiusura nei confronti dell’altro. Questi problemi, esistenti, contribuiscono in modo attivo alla stagnazione delle nascite.

 

Al fattore culturale si aggiunge quello economico. Uscendo dalla logica “chiacchierona” della cultura, ed entrando in quella “pratica” dell’economia, sorge spontaneo il primo ostacolo da superare, quando ci si pone come traguardo la nascita di un bambino: chi se ne occuperà? Anche un bambino, come un’azienda, possiede un suo “fabbisogno finanziario”, al quale devono far fronte i genitori. Stando così le cose, se un essere umano non è in grado di far fronte tempestivamente alle scadenze del proprio figlio, alle primarie necessità, sarà costretto a rinunciare ad intraprendere quest’avventura, almeno volontariamente.

Come può, dunque, un lavoratore precario pensare di mettere al mondo dei figli, se ha uno stipendio che a mala pena può soddisfare i suoi bisogni, senza neanche la garanzia di continuare a guadagnarlo? Se si parte dal presupposto che un individuo prenda decisioni “razionali”, la risposta a questa domanda è molto semplice: non può. Stesso discorso valido per chi un lavoro lo cerca e non ha garanzie di trovarlo.

 

Sia il fattore culturale, sia quello economico potrebbero essere largamente argomentati. Basta però sommare le poche cose dette, per ottenere già così una solida base di un solido problema, difficile da scalfire, tale per il semplice fatto che si sta discutendo della libera scelta di un individuo di mettere su famiglia o meno. La costrizione non è contemplata. Come si evincerà dalla breve analisi fatta, tuttavia, ci si renderà facilmente conto di come sia diventato difficile anche per chi avrebbe voglia di costruire farlo. Senza contare che anche chi costruisce non ha vita facile, poiché dopo aver costruito deve affrontare la sfida del tenere insieme il tutto, cosa non scontata.

 

La situazione ce l’abbiamo, il problema pure: manca all’appello la soluzione. Tentiamo dunque di dare delle linee guida, da umile osservatore “laico”, sperando di non sembrare “eretico”.

 

Da un punto di vista economico, qualsiasi siano le misure che si vogliono adottare, la ricetta deve partire dallo Stato e coinvolgerlo, poiché, di fronte a situazioni precarie come quelle di cui si parlava prima, un individuo lasciato solo difficilmente sceglierà di favorire la natalità. Incentivi e tutele a livello familiare, prima ancora di quelle individuali, sono indispensabili per poter far ripartire le nascite. È banale aggiungere che intervenendo in generale sul mercato del lavoro, riducendo i precari e i disoccupati, si darebbe un taglio alla frustrazione e al rancore, che sarebbe un ottimo punto di partenza. In un’ottica non statale ma “cittadina”, è banale anche aggiungere che servirebbe un’inversione di tendenza rispetto alla stagnazione dei salari degli ultimi dieci anni.

 

Entrando in campo culturale, credo ci sia poco da dire. Come già detto, chi non vuole avere figli, non può e non deve essere costretto ad averne. Credo però che combattere l’eccessivo egoismo che la fa da padrone, oltre ai già citati frustrazione, depressione e rancore, sia un ottimo punto di partenza. Per farlo credo sia necessario una seria riforma scolastica, in grado di far coltivare il talento e favorire lo spirito civico e la coscienza collettiva, ambiti in cui stanno fallendo insieme scuola e famiglia, inaridendo e disunendo.

 

In queste righe non c’è la presunzione di risolvere un problema, ma la consapevolezza e la responsabilità di porne uno, senza pregiudizi, mentre gli altri pensano a fare denunce sibilline, a gridare allo scandalo, o più in generale a deviare, volontariamente o meno, la propria e l’altrui attenzione da un problema serio e reale, di cui si dovrebbe parlare di più.

 

 

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