il Quotidiano di Salerno

direttore: Aldo Bianchini

Isabella Villamarina: la principessa del Rinascimento

di Giovanni Lovito

(docente – scrittore)

La principessa Isabella Villamarina, moglie del principe Ferrante Sanseverino

[Estratto dal volume Il principe e la corte: Ferrante Sanseverino e il Rinascimento meridionale, in corso di stampa].
N. d. A.: [In questo breve saggio per evidenti ragioni ‘editoriali’ e di spazio sono state omesse le note che il lettore potrà consultare nel testo originale].

Nel pregevole studio sul Rinascimento italiano ed europeo, George R. Potter mise in luce alcuni aspetti rilevanti del secolo della rinascita, condensandoli in tre punti essenziali: il consolidamento del governo del principe e il declino dei rivali della monarchia; la creazione di una rete di relazioni internazionali basate sul principio dinastico; l’instabilità della Chiesa e il fiorire di nuove tendenze spirituali, secolari, religiose. Sorte e consolidatesi in seno al movimento comunale, tra XV e XVI secolo le signorie costituirono il centro nevralgico dell’attività politica delle città italiane, mentre la corte diventava sempre più il catalizzatore della vita intellettuale. Vi fu sempre una tradizione monarchica che affiancò quella repubblicana, per cui se da un lato Machiavelli fu repubblicano per Firenze, dall’altro, non tardò a mostrarsi, sulle orme del «Ghibellin fuggiasco», un appassionato fautore del ‘principe’ per la Nazione. Non va sottaciuto, ancora, il carattere unitario che la letteratura italiana assunse grazie all’attività culturale svolta dai tanti studiosi e letterati presenti all’interno delle residenze principesche:

«Le corti italiane erano affollate di rimatori buoni e cattivi gareggianti nella composizione di poesie di ogni sorta, dalle forme illustri come la canzone e il sonetto, alle forme più popolari della ballata e dei canti carnascialeschi, a quelle relativamente nuove delle stanze o ottave. C’era anche chi si dedicava a rimaneggiare vecchi poemi cavallereschi, per lo più d’origine francese: un genere che continuava a piacere a tutti i livelli della società. […]. Soprattutto si imitava il Petrarca, ma l’imitazione scadde sempre in maniera, provocando inevitabili reazioni […]».

 

È lecito considerare, ora, come la prospettiva sin qui delineata rifletta, anche se parzialmente, la storia dello Studium salernitano. Una delle più stimate poetesse del Mezzogiorno d’Italia fu la consorte del principe, Isabella Villamarina, la quale «di quante donne belle, cortesi e colte fiorirono nel regno nella prima metà del Cinquecento, fu tra le prime e la più infelice». Laura Cosentini, mediante un’approfondita indagine storico-filologica, ci ha consegnato il fedele ritratto della dama rinascimentale ben disposta ad accogliere ed ospitare presso la corte salernitana filosofi, poeti e scrittori del tempo. Da sempre «istimata e grata più che tutte le altre a Carlo V», la signora era nata da una nobile famiglia filospagnola (il padre era il conte di Capaccio Bernardo Villamarina) e, ancora adolescente, convolò a nozze con Ferrante Sanseverino il 17 ottobre del 1516, come dimostra questo breve passo estrapolato dalle Cronache di Giuliano Passero:
«Alli 17 de octobre 1516, de giovedì, se ingaudiai la figlia di Villamarina Catalano, et pigliai per marito lo signor D. Ferrante Sanseverino, principe de Salierno, et gli donai in dote 40 milia ducati et a sua morte erede di tutti li suoi beni».

I nobili comparvero in pubblico un anno dopo, presso Castel Capuano,  in occasione dell’«ingaudio» di Bona Sforza regina di Polonia. Risultano davvero rilevanti le notizie tramandate da Giuliano Passero, prima, dalla stessa Cosentini dopo, in merito alla cerimonia nuziale che vide compartecipi numerose dame sfoggianti «magnifici vestiti di velluto, di tela d’oro o d’argento, di broccato o di raso, ‘con trunchi d’oro recamati’ o con foglie in seta ed in oro ‘sementate’ sparse sulla gonna e sui berretti , o su le cuffie a reticella onde avevano coperto il capo […]». Le nobildonne entrarono nella sala «portate per le braccia da due cavalieri, seguite da le loro dame e gentiluomini, come altrettante piccole sovrane»[1]; fece bella mostra anche la Villamarina, «vestita de velluto nigro e senza alcun ornamento, collana o cintura» per la recente scomparsa dell’affezionato padre. Il sentimento profondo che, soprattutto in età giovanile, Isabella nutrì nei confronti di Ferrante viene comprovato da un passo estrapolato dal De amore del Nifo da cui si rileva come la principessa, non potendo seguire lo sposo nei lunghi viaggi intrapresi al seguito di Carlo V e del marchese del Vasto, sognasse ogni notte «essergli vicino cianciando e deliziandosi, onde con ogni suo voto anelava che perpetuamente fosse notte e trasformarsi in Epimenide, in Alceste o in Laodomia»:

Il principe di Salerno Ferrante Sanseverino (1507 - 1568)

«Id quod in Isabella Villamarina Salerni Principe quae flos edolentissimus nostri aevi est puellarum corporisque et animi formae singulare exemplum est videre. Haec cum Ferrandum Sanseverinum coniugem flagrantissime deperiret unaque in militia proficisci arderet quia ab eo ob pericula et labores fuit denegatum nullam testatur heroinae religiosissime aut raram esse noctem qua cum dulcissimo viro in somnis non conjunctissime vivat fabuletur ac delicietur ut omnibus votis exoptaret perpetuas esse noctes; (cum illum totos dies suspiret) et in Epimenidem transformari quae de Alceste et Laodomia fabulata est vetustas».
Non manca d’interesse sapere che, lasciata Napoli, la consorte del principe scelse come dimora la città di Salerno dove coltivò gli Studia humanitatis e, in tale contesto, Antonio Mariconda offre un singolare esempio. Autore dell’Aganippe (una raccolta di favole e novelle indirizzate alla Villamarina e declamate durante le calde giornate estive presso l’omonima fonte), lo studioso, almeno da un punto di vista stilistico e concettuale, risentì dell’influsso dell’opera boccacciana; ciò anche alla luce della particolare predilezione dei cinquecentisti nei confronti degli scrittori del Trecento. Nel corso dei lunghi periodi che videro il Sanseverino impegnato nelle campagne militari, altre eminenti personalità della cultura rinascimentale furono attratte dal grande fervore intellettuale che contraddistinse lo Studium salernitano sicché, da buona cultrice delle letterature antiche e della volgare, la principessa divenne un vero e proprio punto di riferimento per i tanti scrittori e filosofi che convennero nella città campana. Luca e Pomponio Gaurico, Bernardo Tasso, Agostino Nifo,  Antonio Mariconda, Giovanni Filocalo Troiano, Ludovico e Vincenzo Martelli, Scipione Capece: quasi tutti esaltarono ed omaggiarono con i loro scritti colei che aveva reso Salerno un vero e proprio polo di attrazione e sviluppo culturale e civile. Il Cardinale Pompeo Colonna in suo onore compose alcuni significativi sonetti, mentre talmente grande fu il legame che lo unì alla gentildonna che alla sua morte, presso la villa di Chiaia, si vociferò che fosse stato avvelenato dal Sanseverino, geloso del confidenziale rapporto instauratosi con la moglie:
«La facilità onde il Principe usava sbarazzarsi de’ suoi nemici aveva certo contribuito ad avvalorare la voce che il Colonna non fosse morto naturalmente, e le aspre parole che eran corse fra loro e la vivace ammirazione de l’ardito Cardinale per la giovine principessa, davano alla cosa una grande verosimiglianza».

Degna di menzione, ancora, è la profonda intesa sentimentale con l’Imperatore Carlo V. Il Sovrano, in seguito all’incoronazione in Bologna (1530), raggiunse Napoli, ricevuto dal principe di Bisignano, da Ferrante e dall’intero baronaggio locale. Nel corso del suo trasferimento verso San Lorenzo, dove s’era riunito il Parlamento cittadino, trovandosi nei pressi della casa del principe «riguardò bravamente la principessa la quale, seguendo l’uso del tempo, aveva forse fatto distendere sul balcone ricchi drappi e cuscino e si era affacciata per vedere la nobile cavalcata, non certo insensibile a l’ammirazione del Sovrano». Varie imprecisioni, soprattutto cronologiche, caratterizzano l’opera della Cosentini. Tra le stesse ricordiamo, ad onor del vero, che il corteo imperiale, in occasione della riunione del Parlamento,  non si diresse verso la località Sant’Agostino (come affermato dalla studiosa ottocentesca, facendo presumere che l’Imperatore si fosse recato col suo seguito presso il Palazzo Sant’Agostino di Salerno), ma verso la località San Lorenzo di Napoli.
Da quel giorno, Carlo non rinunciò ad incontrare la principessa, a conversare e ballare con lei, suscitando l’invidia delle altre dame del regno. Corteggiata dal Sovrano d’Asburgo, Isabella «si vide d’un tratto fatta segno a l’ammirazione di tutti i cortigiani», mentre poeti e signori «univano le loro voci in un coro inneggiante a la sua bellezza, alla sua bontà, alla sua virtù, alla sua grazia», come dimostrano le stanze in ottava rima di Giambattista del Pino:

Risguardar la beltade in forma propria
Gran tempo ebbe in desio l’umana gente,
Ma dal debol veder la troppa copia
Che mirar tanto obbietto è men possente.
Gliel vietò sempre. Alfin a tanta inopia
Ben parve provvedere a la prudente
Natura. Onde diss’ella: Or farò io
Che il mondo una parte abbia del desio.

Ed una stampa fece con quanto ella
Ebbe saper ed arte, sol per trarne
quel che aveva in cuore; e poi avesti la bella
Invisibile beltà d’umana carne,
E di tal misto ne stampò Isabella
Villamarina. E teco può ben farne
Ogni vista mortale giudizio intero
Ch’ella è vera beltà, qual vero il vero,

Pensier canuti in giovanil etade
Splendon non meno in lei che stelle in cielo
Modesta leggiadria con puritade
Copron le belle membra ed or fan velo
Senno l’è consiglier con lealtade
Che le scaccian dal cuore e caldo e gelo,
Che potesse noviar l’alma pudica
E la fan di virtù, non d’altra amica.

Il castello della principessa Isabella

Seguirono i versi del Cardinale Geronimo Borgia che proclamò la principessa «luce e gloria del femineo sesso, prima in Italia fra tutte le donne per pudore e bellezza, per pietà e sapere»:

Una aevi lux hujus et inclita sexus
Gloria faeminei domina qua dulce Salernum
Se jactat, felix gaudet qua coniuge princeps
Ausonia procerum, muliebris ut illa decoris
Insignis formae pietate pudore Minervae.

Jacopo Beldando, ne Lo specchio de le bellissime donne napoletane, passò in rassegna le figure femminili più rappresentative del tempo e, tra le stesse, ricordò Eleonora, duchessa di Firenze, cui venne dedicato il poema; Giovanna e Maria d’Aragona; la principessa di Squillace e la Villamarina, prescelta dal «consiglio eterno» per «honorar Salerno» con la sua grazia e le innumerevoli virtù:

 
Lungo costor quella bellezza rara
Coperta e cinta d’amoroso nembo
Che vedi andar pensosa perché avara
Natura siede lei cortese in grembo
Dirti si sconveria ove che chiara
Porta sculpita al bel ceruleo lembo
Sua fama, sua virtù, sua gentilezza
Che ogni basso desìo odia e disprezza.

S’io avessi mille lingue e mille petti
Quelle pronte a cantar, questi al comporre
Dir non potrei dei suoi maturi affetti
La millesima parte che m’occorre
Tanti e siffatti son l’alti concetti
Di questa Dea, ch’io sento che ricorre
Il core a Lei per dimandar soccorso
Non potendo al desìo frenare il corso.

Isabella questa è Vigliamarina
Che fu prescritta dal consiglio eterno
Per dar laggiù de la beltà divina
Un raro esempio et honorar Salerno
Quinci i suoi strali amor dora ed affina
Che natura le die’ l’alto governo
Non vedendo di Lei cosa più bella
Tante son l’eccellenze accolte in ella.
Nel panegirico di Filocalo Troiano indirizzato a Ferrante (di cui verrà data ampia testimonianza in appendice), le lodi alla principessa sono innumerevoli. Encomiata insieme a Vittoria Colonna e  Costanza d’Avalos, la dama nell’incipit del poema viene presentata quale  simulacro perenne di virtù e simbolo supremo di quell’Umanesimo civile che – per dirla con il Baron – nella vocazione ‘secolare’ della cultura e nella «vita attiva» avrebbe ritrovato i suoi capisaldi:

[…] Nunc tu quarta accedis ISABELLA in studiorum meorum ornamentum, cui si carus esse mereor, humanam felicitatem supergredior et ad caelestem illam quae deorum propria est, magnis passibus contendo haec tua vita est, hi mores, ut quisquis illos introspexerit, de terrenis cogitare iam desinat, et secum aliquid extra se requirere cogatur […]. Nunc tibi libellum dicamus, quem de reditu et laudibus FERRANDI Principis clarissimi coniugis tui scripsimus, existimantes illius gloriam ad neminem magis (quae) ad te pertinere, cuius singularis pudicitia et maritalis amor adeo notus ubique; est, ut iam ISABELLAM pro exemplo habeant omnes, quibus curae est pudicitia et pudor, et sedatus cupido, ut apud Plautum Alcmena loquitur, quare, si de sua republica semper optime meriti Principis laudes, dignis versibus scripsi, ut agnoscas, deinde, ut inter tui nominis studiosos habeas, etiam atque etiam rogo […].

La poetessa Laura Terracina, mediante un ulteriore sonetto, in questo modo esaltò la bellezza e la «virtus» della nobildonna salernitana:

L’alto mar di virtù qual bramo e voglio
Che nel mondo d’Alerno sì lieta e bella
Ognor m’imprime al cor l’alma Isabella
Cagion farmi cantar più che non soglio.

A tal Villamarina ed a tal scogli Ov’ Eolo nulla val con sua procella
Hor in quest’una parte et hor in quella
L’ignuda barca mia lego e discioglio.

E temendo d’assai che a caso un giorno
Dagl’invidi e superbi mi sia tolto
Mi struggo, mi consumo, mi sconforto.

Così pensosa rimirando intorno
Odo ch’un dice: Non temer più stolta
Quest’è la via del tuo tranquillo porto.

Non sempre, tuttavia, la fortuna arrise alla giovane principessa. Nel 1552 il Consiglio di Stato aveva dichiarato il Sanseverino reo di alto tradimento confiscandogli i territori da sempre appartenuti al suo lignaggio; coinvolta nella contesa sorta fra il principe e Carlo V, Isabella trovò un valido sostegno  nell’autorevole figura del cardinale Girolamo Seripando (Arcivescovo di Salerno dal 1554 al 1563) con il quale intraprese una lunga corrispondenza epistolare. L’analisi del carteggio e di alcune significative lettere «scritte sempre in uno stile elevato» permette di conoscere le ultime fasi dell’esistenza della nobildonna, trovatasi d’un tratto in una situazione economica precaria per la ribellione fomentata dal principe nei confronti dell’autorità imperiale. Non solo. Allorché i Turchi, alleati di Enrico II, si allontanarono dalle coste napoletane, il Toledo tentò di processare quanti avessero mostrato un certo entusiasmo per l’impresa francese nel regno. Furono incarcerati Don Cesare Carrafa del Seggio di Nido, Muzio e Giovanfrancesco Capece del Seggio Capuana e Antonio Grifone, condannato successivamente a morte «avante il ponte del Castello Nuovo» per avere da sempre sostenuto la causa di Ferrante. La Villamarina, accusata di alto tradimento, «ne fu esaminata e con lunga veglia trattenuta, acciò dicesse il vero, e non avendo ella detto nulla, parve al Collateral Consiglio di mandarla in Ispagna, ove ella anco di andare istanza faceva». Morto il Toledo, la signora ritrovò il suo unico punto di riferimento nel cardinale salernitano e, mediante una significativa epistola, a lui ricorse per ottenere finalmente il perdono del Sovrano d’Asburgo:

«[…] Qual torto mi si poteva far maggiore che dipingermi a S. M. qual complice e capace delle cose fatte dal Principe? […]. Io come nell’altra mia ho detto a V. S. sentendo che l’armata (francese) compariva in questi nostri mari, procurai di aver stanza in una fortellezza di S. M., mi fu data in Castelnuovo, certo comoda assai, dove mi sono stata contentissima in questi rumori d’armata, e dove mi starò finché non sia per darci più fastidio e si dilunghi da noi. […]. Lasciamo andare il perdere la Patria, danno meritatamente giudicato dai savi secondo a la morte, ma che diremo de l’honore; e chi non istimerà che per inconfidente al mio re io ne sia in esilio mandata!».

Confortata e rassicurata mediante missiva da Re Carlo, dalla dimora di Castelnuovo si rivolgeva qualche mese dopo al Seripando in questi termini:

«Io mi sto in Castelnuovo contentissima e parendomi aver conseguito quel che con V. S. R. sa sommariamente sempre desiderai ridurmi in fortellezza di S. M. in tempo che fosse guerra nel Regno, acciò più chiaramente si vedesse la fe’ mia. Qua mi sto io con alcune mie create e creati, senza accettare in modo alcuno visite e altri corteggiamenti dependendo solo da cenno e volontà del Rev.mo ed Ill.mo Pacecco del quale non mi posso se non summamente lodare. La supplico mi faccia parte delle sue lettere più lunghe ed il più spesso che le farà comodo e le baso le mani pregando N. S. done ogni contento a V. S. Rev,ma e la felicità come più desìa […]. Questa stanza mia nel Castello fu procurata da me all’apparire che fece l’armata e per levare ogni suspetto e mal giudizio che saria stato possibile farsi contra di me, mi parse bene procurare detta stanza ed all’Ill.mo e Rev.mo Cardinale di darmela, dove sono stata e dove sono per stare sinché quest’armata starà in questi contorni e subito partita che sia tornerò alla mia stanza dentro di Napoli, cioè nella casa del Sig. Don Ferrante di Gonzaga a S. Domenico, dove prima io stava et hora ci tengo il resto dei miei creati che non ho fatto venire in Castello e così è parso bene al Sig. Cardinale senza comandamento e volontà del quale non mi moverei a cosa alcuna, […]».

La principessa Isabella Villamarina (1503 - 1559), l'ultima principessa di Salerno

In Castelnuovo Isabella rimase per circa un anno. Successivamente, previo invito di Carlo V,  raggiunse la Spagna dove venne accolta non solo dall’Imperatore, ma anche dai principi di Saragozza e Valladolid; trascorse, inoltre, diversi mesi presso la dimora della principessa del Portogallo, finché il Sovrano, dopo averle concesso particolare udienza e «non facendo caso dei sospetti di una semplice donna», le permise di far ritorno a Salerno. Nel corso del viaggio, tuttavia, la Villamarina moriva improvvisamente, senza che alcuno avesse cura di conservarne le spoglie in un pur dignitoso e ‘signorile’ sepolcro:

«Così sul finire del 1559, poco più che cinquantenne, moriva oscura e dimenticata la bellissima dama che aveva trascorsa la sua festosa giovinezza in mezzo a grandezze regali; così moriva lontana da parenti e da amici in una terra straniera ove niuna mano pietosa ed amica incise il suo nome su la pietra sepolcrale».

Riguardo al principe, dopo la morte di Enrico II trovò valida protezione in Caterina de’ Medici; sposò una gentildonna di Avignone, diventando ugonotto, e morì nella stessa città francese nel 1568, nell’ultimo scorcio di un secolo che, se politicamente aveva visto la decadenza italiana, dal punto di vista culturale aveva segnato l’apogeo di una Nazione assurta, ormai da decenni, a guida suprema e modello inconfutabile per l’Europa e il mondo.

 

 

 

Sonetto IV
(Schema: ABBAABBAcdecde)

Con il seguente sonetto, indirizzato alla principessa Isabella Villamarina, il Tasso si augura che la signora salernitana, sorretta finalmente dalla fortuna, possa condurre una vita tranquilla, lontana dall’«irato mar» in cui, quasi ‘naufraga’, s’era dispersa negli anni giovanili. C’è un ulteriore riferimento al Monarca (Carlo V) cui tutta Napoli rende grazie, mentre sono altresì evidenti alcune reminiscenze dantesche e petrarchesche che fanno del poeta rinascimentale un attento e scrupoloso studioso della letteratura italiana delle origini.

 

Hor che vostra virtù Donna reale
Ha per l’irato mar scorto la barca
De’ vostri sacri honor gran tempo carca,
Vicina al degno lito almo e fatale;
Veggio Napoli vostra il triomphale
Suo crine ornarsi; et di gran pena scarca
Render gratie a colui, ch’è sol monarca,
Lieta con puro incenso orientale:
Chiudete homai la vela e ’l fido porto
Prendete, le crudeli empie procelle
Del mar sprezzando, et ogni fero vento;
Né più temete alcun oltraggio o torto
De la fortuna: che benigne stelle
Faran vostro desio lieto, et contento.

 

 

 

Sonetto XVIII
(Schema: ABBAABBAcdcdcd)

Insieme a Veronica Gambara, Tullia d’Aragona, Isabella Villamarina, Laura Terracina e Gasapara Stampa, Vittoria Colonna visse e rappresentò pienamente la temperie culturale del secolo XVI. Con il seguente sonetto Bernardo Tasso volle esaltare ed omaggiare la poetessa che fece propri e coltivò lo stile e l’eleganza della lirica petrarchesca, seguendone i canoni e raffinandone costantemente i modelli.

 

Mentre chiara Vittoria invide fate
Del vostr’honor tutte le genti vive;
Et d’opre adorna gloriose e dive
Con le penne di gloria al ciel v’alzate;
Io lungi da l’amata alta beltate
Nido de’ miei desir, con queste schive
Luci d’ogni piacer, bagno le rive
D’Arbia, e le verdi sue piagge honorate:
Felice voi, che con sì bei pensieri
For del dubbio camin lieta scorgete
De l’immortalità tutti i sentieri,
Tal, che senza temer l’ira di Lethe
Tra i rari spirti e più di fama alteri,
Vivo exempio d’honor sempre sarete.

 

 


 

1 Commento

  1. Vivissimi complimenti all’amico Prof.Giovanni Lo Vito di Monte San Giacomo (SA),per l’ottimo ,importante ed interessante lavoro STORICO che con IMPEGNO -CERTOSINO l’autore PORTA AVANTI con impegno, PASSIONE ED ENTUSIAMO.
    Ad Maiora semper !
    Con vera stima .

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