CORONAVIRUS E LA FELICITA’

Avv. Giovanni Falci

SALERNO – L’Italia ha vissuto molte tragedie e ne vivrà ancora altre che non sono ancora cominciate.

Ma ve ne è una per la quale, da cinque giorni, gli uomini e le donne di questo paese non hanno smesso di soffrire: la tragedia della separazione.

Il paese lontano, gli amori interrotti e spezzati, gli amici, quei monologhi sterili che ognuno intrattiene con se stesso in attesa dell’altro: sono questi i tristi segni di questi giorni.

Certo, si dirà, c’è internet, c’è il telefonino, c’è la famiglia, ci sono i social etc., ma la necessità di incontrare e, perché no, anche scontrare, non è appagata.

I social sono un palliativo sicuramente in grado di colmare il vuoto di informazioni e di immagini, ma non possono prendere il posto del “contatto”.

In poche parole, ci sono cose che non si possono fare dal pc o dal telefono e sono insite nella struttura dell’uomo inteso, come diceva un mio vecchio amico di Stagira in Grecia, un essere sociale.

Rifletteteci, da cinque giorni donne e uomini italiani sono in attesa.

Da cinque giorni nel nostro cuore abituato anche a soffrire, lottiamo disperatamente contro il tempo, contro l’idea che l’assente “invecchi” e che tutti questi giorni sono ormai persi per la felicità.

Proprio così, in questi giorni non si osa più pronunciare la parola “felicità”.

Eppure milioni di esseri umani oggi ne sono alla ricerca e questi giorni rappresentano solo una lunga “dilazione” alla fine della quale sperano che la felicità sia di nuovo possibile.

Tornando al tema affrontato ieri a proposito dell’elogio di De Luca che cerca l’equilibrio tra libertà e giustizia, aggiungendo anche il concetto di felicità in questo equilibrio, che cosa sarebbe la giustizia senza la possibilità della felicità? a cosa servirebbe la libertà se durasse per sempre il dolore?

Forse la felicità è solo un evento casuale che a volte si prolunga per un po’ di tempo, dobbiamo, perciò, avere parole di speranza; la speranza è di per se una vittoria.

Esclusa la separazione perpetua sulla quale non possiamo avere la meglio perché è la fine di ogni cosa, per il resto non c’è nessuna cosa, nessun coronavirus, alla quale il coraggio e l’amore non possano tenere testa.

Un coraggio oggi di cinque giorni, un amore di cinque giorni che le donne e gli uomini del nostro paese si sono visti imporre.

Questi happy hour che girano in rete e sui social, di interi condomini che, affacciati ai balconi, cantano sulle note di musiche le più diverse possibili, altro non sono che una “commemorazione della separazione” e un “inno alla felicità”

L’inno di Mameli, o’ sole mio, abbracciami, azzurro e, da me richiesta a mio figlio Gabriele, bella ciao, sono l’inno a ricongiungersi e ci aiutano a dimenticare per pochi momenti la tragedia; ci aiutano a “resistere” (perciò bella ciao).

Ci aiutano a prepararci a quel meraviglioso giorno in cui gli altri saranno innanzi a noi in carne e ossa.

 

 

 

 

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