IL “MIO” PROCESSO TORTORA (II PARTE)

Avv. Giovanni Falci

(penalista – cassazioni sta)

L'avbvocato Giovanni Falci, oggi, al lavoro di ricostruzione del processo Tortora

SALERNO – Il 2 febbraio 1985 ebbe inizio dinanzi la X Sezione Penale del Tribunale di Napoli, il processo a carico di P.A. e di altri circa 200 imputati tra cui Enzo Tortora che, in un certo senso, ha “nobilitato” questo processo facendolo assurgere a emblematico caso di “malagiustizia”.

Se non fosse stato per la presenza di quell’imputato si sarebbe trattato del solito processo a clan mafiosi/camorristici conosciuti negli ambienti giudiziari ma ignoti al grande pubblico.

Per il grande numero degli imputati fu deciso di scomporre il processo in tre “tronconi” onde consentire di dislocare circa 230 imputati per parte.

Fu così che l’originario Abagnale Agostino + 800 divenne per me, per P., e per Tortora, Acquaviva Luigi più 190.

Nonostante questa divisione, fu comunque necessario attrezzarsi logisticamente per poter materialmente celebrare il processo: fu costruita una aula dedicata, la famosa Aula Ticino, all’interno del carcere di Poggioreale.

Nella mia vita professionale mi è capitato tre volte di “inaugurare” aule bunker allestite per poter celebrare processi con centinaia di imputati (così venivano definite anche se oggi la possibilità delle video conferenze le ha di fatto rese inutili, se non altro l’appellativo di “bunker”).

La prima fu quella di Salerno allestita in un capannone industriale dismesso nella zona industriale di Salerno oggi sede del comando vigili urbani del Comune (processo Mirabile); la seconda, questa di Napoli, e la terza a Catanzaro realizzata, anche questa all’interno del carcere di quella città per celebrare il processo c.d. “galassia” a carico di 303 imputati cui ho partecipato dal 1996 in poi, quando ero ormai “grande”.

Ho fatto in queste tre aule la prima udienza, quella appunto della inaugurazione, dei processi che in esse si sono celebrati.

Nell’aula Ticino si accedeva da una porta laterale del carcere ed era stato predisposto un ingresso riservato agli avvocati e alla stampa.

La stampa e anche la politica hanno avuto in questo processo, per la presenza di Enzo Tortora che aveva destato un clamore incredibile, un ruolo importante e anche, in un certo senso, nuovo.

La stampa infatti non si limitava alla pura e semplice cronaca dei fatti e delle udienze, ma dedicava ampie riflessioni sul processo, sulla custodia cautelare, sugli aspetti sociali ed economici di Napoli e della Campania, e sul fenomeno mafioso che sembrava essere stato scoperto in quegli anni.

Enzo Tortora in aula con Marco Pannella

Era un processo per violazione dell’art. 416 bis c.p., una norma nuova, entrata in vigore da poco, nel settembre 1982, una norma c.d. dell’emergenza, varata a seguito dell’omicidio dell’on. La Torre che morì tragicamente nell’aprile 1982 assassinato per ordine di alcuni boss mafiosi tra cui Totò Riina e Bernardo Provenzano; una norma nuova, complessa e innovativa sul piano dommatico sulla quale si iniziava a formare quella giurisprudenza interpretativa che ha permesso di colmare vuoti di tipicità che inizialmente avevano fatto pensare anche alla sua censura di incostituzionalità.

Inoltre quel processo era seguito da tutta la stampa nazionale per la presenza tra gli imputati di terroristi rossi e neri (Pierluigi Concutelli, il neofascista che assassinò il giudice Vittorio Occorsio, Bergaminelli, Nadia Marzano, Chiti, Antonino Faro, Mario Astorina e Vincenzo Andraus) e di noti pregiudicati “comuni” anche di altre regioni, uno fra tutti, Renato Vallanzasca (il bel René) e Cesare Chiti; c’erano uomini politici, per lo più sindaci e amministratori di comuni del vesuviano (Salvatore La Marca, ex sindaco di Ottaviano ed ex assessore provinciale, l’ex sindaco di Quindici Pasquale Raffaele Graziano); era stato anche arrestato il cantautore Franco Califano e il fratello di Cutolo, Pasquale; erano presenti tra gli imputati anche  3 agenti di custodia del carcere di Ascoli Piceno dovesi era svolta, secondo l’accusa, la trattativa tra i sevizi segreti dello Stato e Raffaele Cutolo, ivi ristretto, per la liberazione dell’assessore democristiano regionale Ciro Cirillo sequestrato il 27 aprile 1981 dalle BR (l’agente Rosario Adamo, maresciallo Franco Guarracino, il brigadiere Gennaro Chiariello); c’era tra gli imputati anche una suora (suor Aldina Murelli) e un prete (padre Mariano Santini).

Praticamente i PM non si erano fatti mancare niente!

Per questo parterre c’era, davanti la porta di ingresso all’aula, una zona che potremmo definire la tribuna stampa, con giornalisti di tutte le testate e con le due agenzie, l’ANSA e l’AGENZIA ITALIA rappresentate rispettivamente da Raffaele Schiavone, mio compagno al ginnasio, e Eugenio Ciancimino, marito di Myriam, una mia amica di infanzia di cui ero stato testimone delle loro nozze.

L'avvocato Giovanni falci al lavoro all'epoca del processo Tortora

La grande eco mediatica del processo aveva anche creato due opposte fazioni: i c.d. colpevolisti e i c.d. innocentisti.

Niente di più stupido che si possa fare intorno a un processo penale del quale, molti opinionisti, dell’una o dell’opposta fazione, non hanno studiato gli atti.

Si riducono, questi sterili dibattiti, in passerelle mediatiche per chi vi partecipa che, a volte, consentono di farci affari.

Ci sono persone che vivono letteralmente andando in televisione a dire stronzate da un punto di vista giuridico su fatti e persone sotto processo o anche condannate; mi riferisco a quello che diventa per i protagonisti del processo un vero “travaglio” in tutti i sensi, anche in quello letterale.

Nella stessa area antistante l’aula, all’interno del carcere, tra l’antico muro di cinta borbonico e il prefabbricato leggero montato in tutta fretta, c’era anche una postazione del partito Radicale che aveva “sposato” la causa dell’innocenza di Tortora dal primo momento.

In questo posto ho conosciuto Marco Pannella, Geppy Rippa, napoletano, ex deputato radicale, che ho frequentato anche dopo e con il quale tutt’ora mi sento, e Enzo Tortora.

Di questa persona si è detto di tutto e di più, il “mio” Enzo Tortora è stato l’incontro con una persona educata.

Ecco, se dovessi dire che significa l’espressione “persona educata”, io mi rifarei a Enzo Tortora.

Un uomo che stava vivendo una tragedia vera e reale appariva sempre composto, disteso, lucido, gentile, appassionato, ma non in maniera studiata, bensì naturale.

Forse per chi lo ha visto solo in televisione, quel suo modo “perfetto” di parlare, muoversi, ragionare, poteva sembrare studiato, da scena (anche io lo pensavo); ma se poi invece si aveva l’occasione e, quindi, la fortuna  di “frequentarlo” fuori dallo spettacolo come è capitato a me, allora ti rendevi conto che quello era il “reale” Enzo Tortora, come recita il titolo del film sulla sua vicenda processuale: una persona per bene.

Era “innocente per definizione” ed era anche chiaro a tutti!

Io gli ero risultato simpatico perché, a differenza di tutti gli altri che parlavano solo del processo, io mi intrattenevo con lui anche su argomenti diversi quale politica, teatro, società etc..

Ritenevo quasi di fargli un piacere nello spezzare la tensione che un processo naturalmente riserva a chi lo subisce; e poi, io, sempre, quando finisce il momento professionale, smetto la parte e mi interesso di altro.

Ci vedevamo e facevamo due passi all’aperto quando uscivo per fumare una sigaretta e lo trovavo o con un giornale tra le mani o con qualche amico radicale con cui conversava.

Io lo avevo interessato alla prima udienza del processo per una richiesta che avevo avanzato di cui parlerò dopo.

Processo Tortora: Renato Vallanzasca e Nadia Marzano si tengono per mano dietro le sbarre

L’aula allestita era veramente molto bella e soprattutto all’avanguardia.

Del resto è una caratteristica di Napoli. In questa città convivono il meglio e il peggio che c’è in circolazione; le eccellenze in tutti i campi e in tutti i settori, incontrano le peggiori cadute sugli stessi argomenti.

Io penso che sia proprio per questo che i colori della maschera di Napoli, Pulcinella, siano il bianco e il nero, la purezza del bianco con l’oscurità del nero, e senza mezze misure o colori che derivano da fusioni e sfumature.

Nell’aula c’erano un centinaio, se non di più sedie e diversi banchi per gli avvocati sui quali erano posizionati centinaia di microfoni, praticamente uno per ogni avvocato.

Ogni microfono aveva un pulsante che una volta premuto faceva scattare una prenotazione per l’intervento che veniva gestita da un impiegato situato in alto in un ammezzato da cui si vedeva tutta l’aula, all’interno di una specie di consolle da D.J. (mancava solo che sentissimo di tanto in tanto Last Christmas degli Hamm o The Wild Boys dei Duran Duran, i pezzi più in voga in quel momento); al momento designato, una luce a led rossa iniziava a lampeggiare alla base del microfono e tu sapevi che era giunto il tuo momento di prendere la parola.

Il banco del Tribunale era alla stessa altezza di quello di noi difensori senza alcuna pedana che lo rialzasse, e di quello del PM che all’epoca non sedeva a fianco della difesa, ma di lato al tribunale.

La cosa mi piacque e la notai (anche questo fu un argomento di discussione che Enzo Tortora apprezzo e condivise  nelle “nostre” passeggiate in cortile).

Un posto quasi allegro, nonostante fosse in un carcere, perché era possibile anche sentirci il sottofondo musicale di Like A Virgin di Madonna proveniente da qualche radio dei giornalisti ivi “appostati”.

Processo Tortora: il boss Raffaele Cutolo

In effetti io ho sempre detestato quella idea di giustizia quasi divina, di processo quasi liturgico che faceva assomigliare i Tribunali, nelle loro architetture, a chiese, a luoghi di culto dove la verità scende dall’alto.

Per me la giustizia è un fatto di vita quotidiana, è un fatto che si svolge tra uomini, e le persone che vi partecipano, che frequentano i tribunali, devono trovarsi a loro agio, devono sentirsi come quando ci si incontra per strada; in una parola non bisogna avere paura della giustizia e non bisogna sentirsi schiacciati da essa!

Mi è sempre piaciuto, per questo motivo, la scelta del progettista di adottare, nel Tribunale di Roma a P.le Clodio, per il pubblico, nelle aule di udienza, le poltroncine che una volta si usavano al cinema, quelle con la seduta ribaltabile. Ecco, invece che un “inginocchiatoio” o addirittura niente e stare perciò in piedi a soffrire, la sedia “familiare” del cinema, secondo me distende gli animi e fa sentire a proprio agio l’utente.

Al contrario non mi piace la sede della Corte di Cassazione con quella diarrea di  decorazioni che le danno un’aria di decadenza e di “vecchio” e ridondante, tra l’altro “falso” attesa l’epoca della sua realizzazione..

Mi disse Enzo Tortora che queste mie considerazioni le aveva riferite e commentate con un grande architetto anche lui del Partito Radicale, Bruno Zevi, che le aveva condivise pienamente.

Una persona con quel problema addosso, aveva avuto la sensibilità di parlare con un suo amico architetto dei pensieri del più giovane avvocato di quel processo in cui era in gioco la sua vita in tutti i sensi.

Anche questo era Enzo Tortora, anzi il “mio” Enzo Tortora.

In linea con questi ragionamenti è il mio rapporto con la toga: io abolirei l’uso della toga che rende così scenografica questa funzione (so di farmi molti nemici tra i miei colleghi).

Però, proprio la toga dovetti farmi per quel processo.

Fino ad allora, quando serviva, per lo più in Corte di Appello, avevo “scroccato” a Salerno le toghe dei colleghi,.

Avevo anche capito che c’erano colleghi “gelosi” della loro toga e altri invece “generosi”; te ne accorgevi dall’entusiasmo che mostravano quando accoglievano la tua richiesta.

A Napoli, dove avevo visto alla prima udienza che tutti gli avvocati indossavano toga e, molti di loro, anche il bavaglino, mi resi conto che non potevo più farne a meno. Tra l’altro in quella aula distaccata dal Tribunale non era possibile reperirne una a volo.

Mi informai da un collega di Napoli dove si acquistavano le toghe (allora amazon e internet non erano neanche nei pensieri della gente) e questi mi diede l’indirizzo dove si confezionavano a Napoli, su misura, le toghe: corso Umberto I (il rettifilo), praticamente il palazzo dopo l’università verso piazza Bovio, angolo via Mezzocannone.

Processo Tortora: in aula il cantautore Franco Califano

Mi recai all’indirizzo lo stesso pomeriggio di quel giorno prima di fare rientro a Salerno e, non vidi nessun negozio sulla strada, ma notai una vetrinetta in legno, a muro, dove erano esposte delle divise militari con una scritta che indicava che, all’interno del portone, c’era il negozio di divise e toghe.

Entrai in questo negozio dove tutto sapeva di antico, situato per l’appunto, nel cortile interno del palazzo.

C’era una signora anziana, sorridente e, unica volta che l’ho visto in vita mia, senza capelli.

Per meglio dire aveva i capelli come quei signori che hanno solo la c.d. aureola cioè cappelli sulla nuca e tempie e il resto vuoto.

Nel negozio c’era un grande bancone in legno che conferiva una certa aria old british,  con un vetro che copriva alcuni oggetti esposti nei cassetti.

La cosa che però non poteva passare inosservata oltre i “capelli” della proprietaria, era la carrellata di foto, tutte di grandi dimensioni e incorniciate, che ricoprivano tutte le pareti del negozio: raffiguravano i clienti avvocati e magistrati che avevano fatto la toga in quel posto.

C’erano tutti, da Alfredo De Marsico a Giovanni Porzio, da Giovanni Leone a Giuliano Vassalli, da Francesco Saverio Siniscalchi a Enrico de Nicola e Francesco De Martino e tanti altri ancora.

Foto in bianco e nero a volte ritoccate a mano, alcune da soli e alcune con la signora calva che all’epoca di quegli scatti aveva capelli neri.

Con grande disponibilità e professionalità mi spiegò come si poteva fare la toga, i tessuti, i modelli, e mi prese le misure con il metro del sarto annotando tutto su un taccuino. Le dissi che avevo una certa urgenza per il processo che stavo facendo ed era iniziato quel giorno (mi piaceva dirlo che ero “uno del processo Tortora”) e lei fu gentile nel dirmi che, per la udienza successiva sarei potuto passare a prenderla prima di andare all’aula Ticino.

A questo punto chiesi alla signora, in una condizione mista di ironia e esaltazione, che al ritiro avrei voluto anche io posare con lei per una foto da mettere tra tutte quelle sulle pareti. La signora con un sorriso convinto mi disse che sicuramente l’avremmo fatta e che era certa che sarei stato bene tra quei giganti dell’avvocatura.

Ho fatto veramente la foto con la signora e non sono mai passato a prenderla.

Io sono fatto così, mi accontento di averle pensate certe cose, non ho bisogno della materia, direbbe mio padre che mi conosceva meglio di quanto pensassi, che ho bene appreso la lezione di Platone sul mondo delle idee e sulla corruzione della materia.

Pagai una cifra spropositata, mi sembra 400.000 lire del febbraio 1985, una vera esagerazione.

Ma è così, mi ero concesso un lusso, la toga su misura dove se l’erano fatta tutti quei miei illustri colleghi, e questo lusso doveva pure avere il suo costo.

E io lo avevo pagato, anche con il ricambio dei cordoni, quelli di color oro, che avrei messo quando sarei diventato cassazionista al posto di quelli color argento che erano montati in quel momento.

Non l’ho mai più cambiata quella toga, se non per i cordoni, ed è quella che indosserò anche quando ritornerò in Tribunale dopo questa pandemia che ci costringe a casa.

A dopo per l’inizio del processo in aula e dopo in appello.

Giovanni Falci

 

 

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