IL “MIO” PROCESSO TORTORA (IV PARTE)

Avv. Giovanni Falci

(penalista – cassazionista)

 

Bambino in una foto di Mimmo Jodice

SALERNO – Come avevo immaginato e come era logico che fosse, la mia istanza sulla quale era stata rinviata con grande clamore l’udienza iniziale del processo, venne “rigettata”. Ebbi l’impressione che il Tribunale la rigettasse addirittura prima  di raggiungere il banco e sedersi, nel tragitto, cioè, tra la camera di consiglio e la loro postazione.

Ultimate le eccezioni della difesa che, visto l’andazzo, si erano di moto ridotte, si entrò nel vivo del processo con l’inizio della audizione dei testimoni.

Io ora avevo due posizioni da seguire e P.A.2 era accusato in modo diverso da P.A.; perciò, dopo averlo conosciuto nel carcere di Poggioreale dove mi raccontò la sua vicenda, dovetti integrare le copie degli atti processuali recandomi  alla cancelleria della X sezione penale del Tribunale di Napoli.

Il Tribunale, all’epoca, era ubicato in un bellissimo palazzo, Castel Capuano, che anticamente era stato una caserma dell’esercito dei Borbone.

Nella sala dei busti avevo sostenuto anche l’esame orale di abilitazione alla professione di “procuratore legale”

Il palazzo era ubicato nei pressi di uno degli ingressi della città, Porta Capuana, situata lungo le mura aragonesi che rinchiudevano  l’intero abitato; era la porta da cui partiva o, se volete, arrivava la strada che portava alle campagne intorno Napoli da dove venivano i “cafoni” a vendere le verdure in città.

Alla indiscutibile bellezza dell’architettura di quel palazzo, faceva riscontro la sua assoluta scomodità dovuta alla inadeguatezza degli spazi ad ospitare gli uffici giudiziari e le aule di udienza.

La cancelleria della X sezione non sfuggiva a questa regola e, anzi, per colpa del “processo Tortora”, era diventata la più impraticabile di tutte.

Gli atti del “processo Tortora” erano stati messi tutti in una stanza dedicata solo a contenere quelle “carte”.

Non c’era un indice, e non c’era una particolare logica di collocazione dei vari fascicoli, i “faldoni”,  che rispondesse a un criterio ben definito e comprensibile.

Bisognava, perciò, lavorare di gomito e mettersi con santa pazienza a cercare l’interrogatorio che ti interessava, oppure il “rapporto” di polizia o dei carabinieri in cui si parlava del tuo cliente.

Devo dire che per P.A.2 sono stato più fortunato che per P.A..

Quasi subito, dopo che il cancelliere mi venne ad aprire la stanza e mi lasciò in quel mare di carte e di polvere, beccai il fascicolo giusto e feci le copie che mi servivano.

Bambino che vende sigarette di conbtrabbando (foto di Mimmo Jodice)

P.A.2 era accusato dai pentiti di avere avuto un ruolo attivo all’interno del Carcere di Ascoli dove, da detenuto, era stato “arruolato” da Raffaele Cutolo in persona.

P.A.2 era di Salerno, di qualche anno più grande di me ma non molto; era entrato in carcere per una serie di furti per i quali aveva  riportato varie pene che erano state cumulate. Le pene sono come i nodi dei capelli, prima o poi vengono al pettine, e allora fanno male.

Quando P.A.2 era arrivato, più o meno, a metà del periodo di detenzione da espiare, all’interno del carcere di Salerno era venuto in contrasto con altro detenuto e lo aveva accoltellato provocandogli lesioni gravissime per le quali la vittima era rimasta in prognosi riservata per molto tempo.

Fu dichiarato colpevole di tentato omicidio e porto e detenzione di arma e, a quel restante anno di reclusione ne aggiunse altri 12 anni da scontare in carcere.

P.A.2 era entrato in carcere con un fine pena nel 1979 ed ora ne aveva uno nel  1993.

Proprio per questa ragione, la espiazione di una pena lunga, era stato trasferito da Salerno in altri istituti di pena in cui venivano collocati i condannati in via definitiva con pene di una certa durata.

Tra i carceri in cui era stato, era capitato anche ad Ascoli Piceno nello stesso periodo in cui in quel posto era detenuto Raffaele Cutolo.

Era il posto in cui si svolse la trattativa per la liberazione dell’assessore Ciro Cirillo e nel quale erano rinchiusi, in una apposita sezione, anche brigatisti rossi.

P.A.2 era un ragazzo di famiglia non agiata, mi sembra fosse orfano di padre e con una madre degna rappresentante di qui “familiari” dei carcerati, “gente povera”.

Non se la passava bene da detenuto e perciò chiese ed ottenne di lavorare all’interno del carcere di Ascoli: faceva il c.d. “portantino” e lo “scopino”.

Le sue mansioni erano quelle di aiutare nella distribuzione del cibo e quelle di distribuire la posta ai detenuti e di procedere alla pulizia delle parti comuni del carcere. Aveva, perciò, un certo margine di movimento all’interno dell’Istituto e poteva avere contatti praticamente con tutti i detenuti.

Una occasione, questa, che Cutolo non poteva lasciarsi sfuggire per mandare e ricevere messaggi da e per i detenuti, e perciò pensò bene di “legalizzare” P.A.2 con la rituale affiliazione al suo clan.

Bambino, foto sempre di Mimmo Jodice

L’affiliazione era una vera e propria investitura ufficiale nel mondo della camorra o di altre associazioni mafiose e aveva le sue precise regole cerimoniali. Il candidato camorrista doveva prestare giuramento per entrare a fare parte della NCO: gli veniva praticato un piccolo taglio sull’avambraccio per sancire il sodalizio con un compare di sangue mentre recitava la promessa: “giuro sul mio cuore di essere fedele alla NCO che è nata nel 1970 il 24 ottobre nel castello mediceo di Ottaviano, come la NCO è fedele a me”. I presenti ripetevano la formula di risposta. E alla fine chi dirigeva la riunione concludeva la cerimonia con queste testuali parole: “colgo e raccolgo queste belle votazioni e le metto in una bottiglina cristallizzata, la vado a deporre in un posto segreto nel castello mediceo di Ottaviano e guai a chi lo scoprirà”.

Quando lessi tutto questo rimasi allibito e pensai a quanta ignoranza c’era in circolazione. L’analisi di quel testo, dalla forma al contenuto, mi sconfortava, rimasi triste a pensare come potessero esistere persone che ritenevano “importante” queste cose che, secondo me, senza girarci molto intorno, erano delle vere e proprie stronzate.

P.A.2 mi aveva detto che era accusato da alcuni pentiti di questa “legalizzazione”, di aver fatto quella che in gergo si chiama la “copiata”.

Non ho mai saputo se fosse stato vero o meno anche perché non ho mai chiesto a nessun mio cliente di dirmi se fosse o meno colpevole.

Ho addirittura fermato sul nascere chi intuivo che stava iniziandosi ad “aprirsi” e ciò perché per l’avvocato sapere la verità è solo un peso di nessun aiuto e che può essere anche pericoloso.

Io certo non posso andare dal giudice a chiedergli di assolvere il mio cliente perché mi ha giurato e spergiurato che è innocente; e allora se questo non è utile tanto vale non essere depositario di segreti e verità.

Chi vi dice che un cliente condannato non possa pensare che l’avvocato se lo è “cantato”? se lo è “venduto”. Che abbia cioè detto al giudice di sapere che è colpevole di quel reato. Si dice negli ambienti dei Tribunali che i clienti sono i peggiori nemici dell’avvocato, e qualcosa di vero ci dovrà pure essere in questa massima di esperienza. E allora, io mi faccio sicuramente la mia idea, ma non mi interessa assolutamente ricevere le confidenze dell’imputato sulle sue responsabilità.

E così fu pure allora.

Il centro storico di Napoli

P.A.2 mi disse che effettivamente aveva portato qualche “biglietto” che Cutolo gli consegnava a qualche detenuto ristretto in altre sezioni dove lui, per ragioni di lavoro, aveva accesso, ma mi ha sempre detto che lo aveva fatto perché non poteva rifiutarsi, aveva paura di non assecondare una richiesta del “prufessore di Ottaviano”. E come dargli torto.

P.A.2 era la prova di quell’elemento costitutivo del reato di associazione mafiosa che è la “condizione di assoggettamento e di omertà” che deriva “ dalla forza di intimidazione del vincolo associativo”, ma, questo non si poteva dire, questo lo dovevano dire i pentiti.

Allora io sapevo che parte delle accuse erano vere, anche se non provate perché P.A.2 non lo aveva riferito ai giudici che portava i pizzini ma solo a me, ma non sapevo se l’altra parte (affiliazione) fosse vera e, sinceramente, non me ne fregava niente.

Inoltre P.A.2 continuava a dirmi che, in ogni caso, lui non conosceva il contenuto dei messaggi che recapitava e che, a prescindere dalla norma non scritta della riservatezza che regola i rapporti tra criminali mafiosi, lui si sarebbe guardato bene da dare anche una semplice sbirciata a quei documenti, per non rimanere coinvolto nei fatti in essi descritti.

E forse un fondo di verità e di spunti per difendersi c’erano nel suo racconto.

L’avere agito per essere stato costretto dalla necessità di salvare sé dal pericolo attuale di un grave danno alla persona così come sta scritto nell’art. 54 del codice penale.

E la cosa non mi sembrava proprio così infondata se solo si considera che in quel carcere era stato trovato “impiccato” (in realtà si venne a sapere che era stato assassinato) il detenuto Salvatore Serra detto “cartuccia”, di Pagani, avversario di Cutolo, che si era rifiutato di entrare nella NCO.

Per provare la sua innocenza P.A.2 mi diede anche un “suggerimento”: mi chiese di chiamare a “testimoniare” Cutolo sul fatto che non si era svolta quella cerimonia ad Ascoli. Chiarii a P.A.2 che non era una soluzione, anche se logica, praticabile, perché tecnicamente Cutolo non poteva essere “testimone” di quel fatto e, quand’anche fosse venuto a deporre non sarebbe stato creduto dai giudici che avrebbero, giustamente, pensato  che Cutolo riferiva quella versione per difendersi e non per ricostruire la verità. La cerimonia della “copiata” era sì una prova a carico di P.A.2, ma lo era anche a carico di Cutolo, in buona sostanza il reato lo avrebbero commesso in concorso tra di loro “il sacerdote e il fedele”.

Ad ogni modo con P.A.2 fui fortunato nella ricerca dei documenti e in mezz’ora o poco più mi liberai dell’incombenza e ne approfittai per fare due passi nel centro storico di Napoli.

Il Tribunale era ubicato al termine del decumano maggiore.

Sala dei busti di Castel Capuano

I decumani sono tre delle più antiche strade di Napoli che scorrono nel cuore del centro storico partenopeo, attraversandolo da Est a Ovest, create in epoca greca, alla fine del VI Secolo A.C., quando, per il successo della colonia greca Partenope ubicata in località Monte di Dio dove oggi c’è il collegio militare “Nunziatella”, si decise di fare, per accogliere i numerosi coloni della Grecia, una nuova città, una Nea Polis per l’appunto.

Oggi i decumani sono dichiarati addirittura Patrimonio dell’Unesco.

Non c’è altra città al mondo che conserva intatto, come a Napoli, il tracciato viario dell’antica Grecia, neanche ad Atene è rimasta una traccia così evidente della tecnica urbanistica definita “ippodamea” dal nome del suo ideatore, Ippodamo da Mileto, il primo urbanista della storia.

Le strade sono disegnate in modo da intersecarsi in modo perpendicolare formando dei quadrati che definiscono i “lotti”.

All’epoca, a pochi anni dal Terremoto del 23 novembre 1980, tutto il centro della città antica si presentava transennato; la passeggiata avveniva, perciò, in una foresta di tubolari Innocenti montati davanti ad ogni palazzo.

Questa situazione rendeva i posti ancora più bui ma era il fascino del luogo ad illuminare quei luoghi.

Già, proprio così, quelli sono “luoghi” non sono semplici posti geografici o geometrici.

Con “luogo” si intende qualcosa di più, è un concetto esistenziale che riguarda la vita, la memoria, il sentimento degli uomini.

Non a caso si dice che a volte ci si sente “fuori luogo”.

Ex sede del Tribunale di Castel Capuano

E Napoli per me è un luogo che riuscirei a riconoscere anche da non vedente, lo sentirei sulla pelle, nel naso, nelle orecchie e sotto le mani.

E, poi, in quel periodo, una volta, in queste passeggiate, mi accorsi che il colore del cielo di Napoli che è unico e meraviglioso, era ancora più bello se lo si intravedeva tra quella selva di alberi di acciaio.

Il colore del cielo di Napoli di cui mi aveva parlato mio padre per dirmi che era stata la cosa che lo aveva colpito di più al suo arrivo alla stazione ferroviaria di quella città quando vi si traferì con mio nonno da Padova: il cielo, l’azzurro intenso, il contrasto nitido delle nuvole che proprio per contrasto con l’azzurro sembrano più bianche.

Mi piaceva fare quella passeggiata e raggiungere piazza San Gaetano l’antica agorà della città greca; di qui scendevo, per la famosa via Gregorio Armeno, la strada dei pastori del presepe (quell’anno c’era anche il pastore-Maradona con tanto di 10 sulle spalle).

Ti lasciavi sulla sinistra la chiesa di San Lorenzo Maggiore dove oggi si può capire che cosa è Napoli.

E’ proprio così, un giro in San Lorenzo Maggiore ti chiarisce le idee: si scende sotto a tutto e si vedono le mura di cinta della antica città greca (due mura di pietra distanziate da un terrapieno); si sale e ci si ritrova in una strada romana con i negozi sui due lati (c’è anche una esattoria che si capisce dai cardini della porta tipo blindata); si sale ancora e si trovano i resti di una villa romana e infine sopra, già quasi nella chiesa, un pavimento bizantino, e poi, su tutto questo, la chiesa francescana del XII secolo.

La storia in quel posto si vede, si tocca e ci si cammina dentro come in una macchina del tempo.

Giunto in fondo al cardo, sull’altro decumano si gira a destra e si percorre la strada fino all’incrocio con via Mezzo Cannone che in discesa ripida conduce sul corso Umberto.

Lungo la passeggiata era inevitabile incontrare donne e bambini che ti vendevano le sigarette di contrabbando e donne che ti volevano vendere l’amore. Erano affacciate al piano terra dei loro “bassi” che era una porta-finestra da cui entrava tutto il necessario per vivere, o meglio per sopravvivere: l’aria, la luce, il cliente, tutta la loro speranza.

Loro cercavano di adescarti chiedendoti: “vuò fa ammore dottò?”; in precedenza, da studente, cercavano di adescarmi dicendo “vuò fa ammore giuvinò?”.

Loro offrivano l’amore anche se era sesso; addolcivano la miseria con il sentimento.

La méta della mia passeggiata, comunque erano le librerie fornitissime di tutte le più recenti novità in campo giuridico.

Fin dai tempi dell’università avevo capito che le novità si trovavano intorno a quell’Ateneo.  Salerno aveva la sua Università, ma quella per me era L’Università. Stiamo parlando del 1985, allora le novità non ti arrivavano a casa e neanche sul telefono come adesso, allora te le dovevi cercare.

Ma il bello di quelle librerie che iniziavano alla fine di via Mezzo Cannone e continuavano sul rettifilo, era che oltre alle materie giuridiche, avevano di tutto, avevano anche quelli che scherzando definisco i “libri inutili” ma che inutili non lo sono affatto.

Ci ho passato le ore in quei posti, mi conoscevano e mi accoglievano sempre con piacere. Erano così bravi e attenti ai clienti che sapevano cosa propormi; non hanno mai  sbagliato a farmi vedere un libro nuovo.

Per il processo in corso ricordo che comprai “TURONE GIULIANO, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, Giuffrè Editore” uno dei primi testi su questo nuovo reato e, sempre per aggiornarmi, l’anno successivo andai al Congresso Nazionale di Magistratura Democratica che si tenne a Rimini nel maggio 1986.

L'ingresso del carcere di Poggioreale

Così ci si muoveva prima dell’avvento del pc e della telematica.

Si leggevano i libri e si andava ai convegni e si cercava di trovare la soluzione al processo. Oggi si cerca la soluzione bella e pronta in qualche sentenza emessa su casi simili al tuo. Non c’è più creatività, o, per meglio dire, la creatività è limitata a quelli (avvocati e giudici) che fanno uscire quelle sentenze che poi gli altri vogliono utilizzare pro domo suo.

Io con Napoli sono fidanzato così come lo sono con Torraca il mio paese di origine nel Cilento 7 Km sopra Sapri (sono alquanto libertino in questo senso).

Con questi due luoghi io intrattengo il vero rapporto di fidanzamento: non ci vivo insieme tutti i giorni come avviene con una moglie, ma li desidero e li cerco proprio come si fa con una fidanzata. Sono felice quando le vedo, quando ci vado e poi mi dispiace quando devo separarmici, quando, cioè devo tornare a Salerno.

E, secondo me loro anche sanno che li desidero, ne approfittano, si fanno trovare sempre più belle per accendermi dentro la passione.

Comunque quella Napoli se oggi la si volesse vedere è possibile farlo attraverso le fotografie di Mimmo Jodice.

Quel grande artista è riuscito a fotografare una città non inquadrando strade, piazze e monumenti, ma fotografando gli occhi dei napoletani, quelli veri, autentici, quelli del popolo.

A dopo per il prosieguo del processo.

Giovanni Falci

 

 

 

 

 

 

 

 

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