IL “MIO” PROCESSO TORTORA (VIII PARTE)

Avv. Giovanni Falci

(penalista – cassazionista)

Il primo a destra: Pietro Valpreda, accusato della strage di Piazza Fontana e poi assolto

SALERNO – Appena mi ripresi dalle 42 ore di sonno continuato, cercai di capire cosa era successo in mia “assenza”. Scoprii su un quotidiano che trovai al Circolo Canottieri una notizia del giorno prima che mi sembrava di buon auspicio per la mia causa di Napoli. Il primo agosto, mentre dormivo, la Corte d’Appello di Bari aveva assolto tutti gli imputati per la “strage di Piazza Fontana”. In precedenza la Cassazione aveva annullato la sentenza di secondo grado emessa dal tribunale di Catanzaro.

A differenza del “nostro” processo concluso in pochi mesi con 66 udienze dibattimentali, quello era stato un processo lunghissimo.

Era iniziato quando io frequentavo il V ginnasio e finiva ora che ero procuratore legale abilitato.

Ricordo che, all’epoca della strage, avevo nella mia stanza che dividevo con mia nonna, a casa dei miei, un manifesto affisso alla parete del mio letto con la foto di Valpreda con il pugno chiuso (il saluto comunista) e con la scritta “Valpreda libero”.

In effetti quel processo, proprio grazie all’arresto di Valpreda, pose all’attenzione della opinione pubblica e dei politici il problema dei tempi della carcerazione preventiva come si chiamava allora.

Fu emanata la legge c.d. Valpreda che abrogava la norma precedentemente in vigore secondo la quale, un imputato per gravissimi reati (tra cui, la strage), non poteva essere scarcerato fino ad una sentenza di assoluzione.

Con la nuova legge, invece, la scarcerazione era possibile anche in quei casi.

Erano gli anni del grande movimento del ‘68 da me vissuto intensamente nel mio liceo classico “De Sanctis” nel quale ero stato iscritto perché mio padre insegnava nell’altro liceo classico della città, il “Tasso”.

Ricordo ancora la risposta che mio padre diede a mia madre che gli chiedeva perché non mi avesse iscritto al “Tasso”, ovviamente in una sezione diversa dalla sua. “Avremmo il Preside in comune, e anche questo non va bene”.

Erano gli anni in cui ho fatto parte attivamente del movimento studentesco, sia perché ci credevo, sia perché si acchiappavano le ragazze nelle assemblee e durante le occupazioni.

Fra i molti slogan del Sessantotto quello che suona “ce n’est qu’un début“ (questo è solo l’inizio) era il mio preferito.

Con il ‘68 iniziava la fine del mondo, anzi come disse De Martino, “la fine di un mondo”. Il mondo che inizia a finire con il ‘68 era quel mondo nato dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese: il mondo borghese.

Il ‘68 era stato, dunque, una rivolta contro le istituzioni che avevano dato vita a quel mondo, contro la scuola e quel sistema educativo, contro la famiglia, il sesso, la morale, la cultura e contro l’organizzazione economica che il mondo borghese si era dato.

Il ‘68 è stato una rivoluzione totale che ha voluto farla finita, una volta per tutte, con quel mondo.

E’ stata, dunque, una rivoluzione antiautoritaria, perché ha voluto mettere in discussione i ruoli.

E’ stata una rivoluzione libertaria perché ha voluto rovesciare la morale borghese, la famiglia e il sesso, insieme al modo di vestire, di mangiare, di abitare e di vivere la vita quotidiana.

Ma è stata, anche e decisamente, una rivoluzione anticapitalistica che ha voluto abbandonare il sistema economico-sociale borghese per iniziare rapporti sociali, economici e lavorativi più liberi e giusti.

I movimenti studenteschi del '68

Sarebbe più corretto parlare per l’Italia di 68 e 69 perché è proprio in quel 69 che al fianco degli studenti dentro e contro le Università, si schierano gli operai in lotta dentro e contro la fabbrica.

L’inizio coincideva quindi con la modernizzazione del paese che aveva avuto origine dalle lotte operaie dei primi anni sessanta.

Si può perciò affermare che il moderno e la modernità è stato uno dei maggiori simboli del ’68; l’ inizio è stato allora quello dell’inizio di un paese moderno.

Io sono un figlio legittimo di questo movimento, mi sta addosso appiccicato anche oggi dopo 52 anni e non l’ho mai rinnegato neanche quando era un po’ pericoloso perché si poteva essere scambiato per terrorista..

Sarei tentato, per come è andato a finire, però, dall’escludere il termine rivoluzione per il ’68.

Sembra eccessivo; in realtà quel movimento è stato una forte modernizzazione di sistema tra le cui cause va sicuramente valorizzato il baby boom al quale appartenevo io e la mia generazione tutta impegnata nella politica.

Ma è stato un movimento di contestazione che è diverso da rivoluzione.

Tornando a noi, la strage di Piazza Fontana era avvenuta proprio nel dicembre 1969 e il processo si concludeva nel 1985, 16 anni dopo, con un iter alquanto singolare e travagliato se solo si pensi che, per legittima suspicione (parolona per indicare il sospetto circa la libertà di decisione dei giudici del processo), il processo venne celebrato anziché che a Milano, a Catanzaro, annullato dalla Cassazione, rifatto a Bari e, proprio quel 1 agosto definito con l’assoluzione di tutti gli imputati, assoluzione confermata 2 anni dopo in Cassazione.

Ho fatto udienza anche in quell’aula di Catanzaro  in quella che veniva chiamata l’aula del processo a Freda e Ventura perché costruita per quel processo. Ho partecipato alla udienza preliminare del processo denominato “Galassia” nel 1995 il cui dibattimento  fu celebrato, dopo il rinvio a giudizio dei 303 imputati nell’aula bunker realizzata nel carcere di Catanzaro, come era avvenuto per questo processo a Napoli.

In quella udienza preliminare svolta senza pubblico, in camera di consiglio, fu chiaro a tutti che non si sarebbe potuto svolgere in quel posto il dibattimento; a stento ci entravamo noi difensori.

La sentenza di Bari era di buon auspicio per il “mio” processo di Napoli perché in Italia la giustizia, o meglio, l’amministrazione della giustizia, potremmo definirla a moto ondoso; a un onda di garantismo segue sempre una risacca giustizialista. Quella sentenza con quell’esito, sembrava farci cavalcare l’onda garantista, o, per lo meno, questo io mi auguravo, questo io leggevo nella sentenza di Bari come gli antichi romani leggevano il futuro nel volo degli uccelli.

Partimmo comunque subito per Torraca luogo obbligato per le vacanze quando si hanno bambini piccoli come Mariella.

In effetti, Torraca piace da bambini e da adulti; il periodo in cui non “lega” è la gioventù quando al fresco, alla genuinità dei cibi e al mare pulito si preferisce la discoteca, il panino e i luoghi delle passeggiate, in una parola i posti dove si “acchiappa”. A Torraca era possibile “acchiappare” le mazzate dei genitori delle ragazze del posto.

Nel tragitto in macchina Mariella cantò in continuazione le canzoni di “quelli della notte” trasmissione che era finita da poco e che, si era già capito, avrebbe fatto storia.

Per radio invece, con una frequenza anche troppo eccessiva si ascoltava un altro evento mondiale che c’era stato in quei giorni: “We are the world”.

feed the world - 13 luglio 1985 Live-Aid - Wembley Stadium di Londra

Il pezzo era stato eseguito da decine di artisti riuniti, in contemporanea Live Aid, al Wembley Stadium di Londra, sotto gli occhi di Lady Diana e del principe Carlo, e al Jfk Stadium di Philadelphia.

A Torraca, poi, ci sono i torrachesi che per un forestiero non sono il massimo della compagnia. Io ho una mia idea sui cilentani e sulla loro carica di ospitalità, anzi, mi correggo, di apertura verso il prossimo.

Se si va a vedere nella storia ci si accorge che nel mondo antico, dopo la fine delle colonie greche, tra Salerno e Reggio Calabria, non c’è mai stato un porto. Non si è mai costruita una città fortificata sul mare.

Il mare era ad appannaggio di piccoli villaggi di pescatori; i centri, i paesi, le comunità con castello e chiesa, erano in alto. Palinuro non esisteva, c’era Centola; Acciaroli era una località, ma il paese abitato, la gente era Pollica e così via per Castellabate, Camerota etc.. Anche Sapri non esisteva ed era Marina di Torraca come indicato nella cartografia del ‘600 che ho visto nei musei Vaticani.

E questo vale anche per tutta la costa calabrese; i vari Scalea, Cetraro, Amantea, erano paesi di collina, non di mare come oggi.

Si è detto sempre che ragioni di sicurezza dettate dalle incursioni arabe e saracene avevano consigliato questa soluzione. In realtà non è proprio così perché la storia stessa insegna che nello stesso periodo di queste incursioni altre realtà sorgevano e si consolidavano sul mare (vedi Pisa, Amalfi).

Comunque questa situazione ha fatto sì che gli abitanti di questi posti rimanessero fuori dal mondo per secoli. Non si sono mischiati con nessuno. E allora, considerato che l’unico modo di progredire nell’antichità, era lo scambio tra culture e tra realtà diverse che avveniva o attraverso i porti, oppure attraverso le grandi strade di comunicazione, si deduce che queste zone siano rimaste abbastanza in dietro, arretrate.

Torraca, infatti, non aveva ne l’una che l’altra occasione per progredire se solo si pensa, con riferimento alle strade di comunicazione, che ancora oggi la Salerno Reggio Calabria fa parlare di sé e non certo per meriti.

I cilentani e i calabresi, perciò, sono storicamente e antropologicamente “chiusi”.

Ottime persone capaci di esserti amico per tutta la vita, ma con obbiettive difficoltà di apertura, di approccio. Ancora oggi, nell’epoca della globalizzazione e di internet che mette in contatto il mondo intero, per loro il mondo inizia a Scario e finisce a Torraca.

Tornando a noi, il 6 agosto, dopo due tre giorni dal mio arrivo in paese, a Palermo venivano  uccisi dalla mafia il vicecapo questore della città, Antonino Cassarà e l’agente Roberto Antiochia .

Per quel ragionamento di prima (onda e risacca), un brutto colpo; il “mio” processo, in effetti, era per fatti di mafia, quella stessa mafia che aveva ucciso due padri di famiglia “colpevoli” di fare il loro dovere.

Ormai mi rendevo conto che ogni mio pensiero era rivolto al “processo”.

Stavo vivendo molto intensamente questo momento e non vedevo l’ora di capire come sarebbe andata a finire. Ingenuamente ero convinto che i miei assistiti sarebbero stati assolti; come faranno a condannarli dopo tutto quello che o detto nella discussione, come potrebbero motivare una condanna? Beata gioventù!

Dopo interminabili partite a tre sette, dove, modestamente, sono molto bravo, davanti il bar di “Luciano” con conseguente “padrone e sotto” per stabilire chi dovesse bere la birra con gassosa che pagava la coppia perdente; dopo bagni meravigliosi sulla costa di Maratea; dopo decine di “concerti” di mio padre (si capiva che era partito quando iniziava con la “marcia turca” di Wolfgang Amadeus Mozart – quella, per intenderci di Angelino del carosello), facemmo rientro a Salerno dopo la Madonna dei Cordici che si festeggia l’8 settembre in paese.

Ho assistito alle discussioni di tutti gli ultimi avvocati; nei processi si applica la regola della discorso della montagna di Gesù: gli ultimi saranno i primi.

Sempre, i più bravi e quelli con maggiore esperienza, discutono alla fine. E così fu anche allora.

Non mi va di fare classifiche, è sempre antipatico, ma in questo caso non sarebbe neanche possibile una classifica, un ex equo di altissimo livello, con Dall’Ora che recitò Lisia come avevo fatto io.

Enzo Tortora con gli avvocati Dall'Ora e Della Valle

Enzo Tortora aveva schierato una buonissima squadra, Raffaele della Valle, un gladiatore, un avvocato che discusse per ore senza tralasciare il minimo dettaglio, una sola pagina del processo, e Dall’Ora un rifinitore, un numero 10, un raffinato e acuto giurista, uno capace di esporre concetti complicati con una chiarezza estrema.

E poi, Siniscalchi, una lucidità di ragionamento esposta in una forma perfetta con riferimenti di cultura generale calati nel discorso al momento giusto, con toni di ironia, di amara ironia per quel quadro delle indagini che era emerso.

E come non menzionare Alfonso Stile, già 10 anni avanti nella elaborazione di principi ermeneutici del delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso, moderno forse troppo, con il rischio di non essere compreso da un “lavoratore” del diritto, ma solo da un “artista” del diritto.

In effetti, per quel richiamo al mondo greco, serbo un ricordo piacevole per l’avv. Dall’Ora che diede una proiezione diversa al testo che avevo letto anche io.

Dopo le parole di Lisia che io avevo legato alla prudenza del giudizio, lui disse che esse erano l’invocazione alla libertà, la parola più usata dagli avvocati; ma lui, Dall’Ora non invocava la libertà per il suo cliente, Enzo Tortora, ma invocava la libertà per i giudici.

Se voi sarete liberi da condizionamenti esterni, liberi nelle vostre coscienze, non potrete che assolvere Enzo Tortora”, così concluse e così si concluse il processo, la discussione. Non il coraggio che non si deve chiedere al giudice che sa di dover svolgere questo compito di giudicare, sarebbe offensivo chiedere coraggio, ma libertà sì, questa andava chiesta per tutto il clamore che la vicenda aveva sollevato.

Il 17 settembre l’appuntamento in aula era di pomeriggio e ricordo che stranamente mi attardai in qualcosa per cui fui costretto a correre per non perdermi quel momento. In macchina quell’ottimismo che avevo mostrato in quel mese e mezzo era un po’ scemato, quasi che, con me da solo, ero più riflessivo e realistico. Allora pensavo che forse P.A.2 rischiava ma P.A. sarebbe stato assolto e poi, subito dopo che forse (P.A.) al quadrato rischiavano entrambi.

Una volta nell’aula trovai centinaia di persone che erano già in attesa da tempo. C’erano tutti i miei colleghi, i miei compagni di viaggio nel processo; c’era P.A. rientrato dall’O.P.G. e questa volta anche P.A.2 nelle “gabbie” degli imputati particolarmente rumorose. C’erano i “familiari” dei carcerati vestiti per bene come se fossero andati ad una cerimonia. C’era Enzo Tortora che non potetti salutare perché per avvicinarmici avrei dovuto perforare una spessa cortina di uomini attaccati l’uno all’altro; era tra i suoi avvocati. Nonostante le sedie vuote, eravamo tutti in piedi anche in assenza del Tribunale che ancora non era entrato.

A un certo punto la campanella avvisò che il Tribunale stava entrando nell’aula e fu subito un istantaneo silenzio.

Da scaramantico, come ogni giocatore che si rispetti, cercai di trarre qualche auspicio da quel suono ma mi sembrò un auspicio negativo così come lo era il giorno, 17 “a disgrazia” nella cabala.

E disgrazia fu per Enzo Tortora e per P.A. al quadrato, tutti condannati!

Il presidente del collegio giudicante, dott. Sansone, da lettura della sentenza

Il Presidente Sansone aveva letto il dispositivo della sentenza posizionato di tre quarti rispetto a noi con il foglio leggermente rivoto verso la sua destra quasi a voler cercare la luce per guardare meglio cosa c’era scritto. In effetti quel dispositivo aveva bisogno di luce ma non per guardare i caratteri della scrittura ma per essere illuminato nella decisione che era stata presa.

Inutile dire che dopo le parole “l’udienza è tolta”, iniziò di tutto.

Le urla e le imprecazioni dei carcerati, primo fra tutti P.A. che evidentemente era tornato da quella esperienza di tre mesi di osservazione all’O.P.G. di Reggio Emilia particolarmente esaurito e schizzato.

Le urla e le imprecazioni dei “familiari” dei carcerati che avevano rotto il decoro dell’attesa e affermavano attraverso le grida, la loro condizione di disgraziati; sembravano il coro delle tragedie greche a cui era affidato sia la parodo, pàrodos, il canto d’ingresso sulla scena teatrale (e i familiari lo avevano fatto alla grande), sia l’esodo, éxodos, uscita, il canto intonato al termine del dramma mentre i personaggi uscivano di scena (e i familiari lo stavano facendo ancora meglio).

Stava avvenendo l’uscita di scena gli imputati spinti fuori dalle gabbie, nel tunnel che li portava nell’infero di Poggioreale.

I ragionamenti, i commenti e lo sgomento degli avvocati, anche a voce alta per superare le grida di tutti. Tortora era stato condannato a 10 anni!

Raggiunsi l’auto e me ne tornai a Salerno, triste e deluso. Non ce l’avevo fatta!

La mattina seguente mi recai in Pretura a Salerno e depositai la dichiarazione di appello come si faceva una volta e rimasi in attesa di ricevere l’avviso del deposito delle motivazioni da dove partiva il termine per presentare i motivi.

L’avviso lo ebbi in maniera singolare.

Nei mesi successivi ricevetti un telegramma di P.A. che richiedeva con urgenza un colloquio al carcere. Mi insospettii di quella modalità di comunicazione perché, in genere, era la madre o il fratello a farsi latori delle richieste del congiunto che raccoglievano durante i colloqui con lui.

Pensai che era successo qualcosa di particolarmente grave. Non avvisai neanche i parenti per non agitarli.

Mi precipitati l’indomani a Poggioreale e P.A. si presentò in sala colloqui con la sentenza sotto braccio. L’aveva avuta prima di me. In realtà era una parte della sentenza, quella che riguardava la sua posizione.

Mi disse che l’avvocato di Napoli di un coimputato l’aveva portata al suo cliente e lui se ne era fatta una copia.

Avvocato, ma come mai non avete controbattuto a quello che sta scritto “qua” dentro?”, questo fu l’esordio di P.A..

In che senso?” gli dissi, visto che non sapevo cosa c’era scritto “là” dentro.

P.A. “sta scritto che D’Amico mi ha conosciuto nel carcere di Pianosa dove io gli avrei detto che sono un camorrista della NCO. Io a Pianosa non sono mai stato detenuto. Era semplice dimostrare questa bugia”.

Aveva ragione, era semplicissimo richiedere un certificato di detenzione a quella casa circondariale dell’Isola d’Elba, ma il problema è che io non avevo letto da nessuna parte quella dichiarazione di D’Amico che i giudici avevano preso come elemento di giustificazione per una pena di 5 anni di carcere.

Lo chiarii a P.A. che fu d’accordo con me, anche lui aveva letto tutti i 7 interrogatori del pentito e non c’era traccia di questa circostanza, non veniva mai menzionato Pianosa.

Presi la sentenza e me ne ritornai dandogli appuntamento dopo il deposito dei motivi che avrei fatto di lì a poco e comunque nei 20 giorni previsti dalla legge, termine che per me ancora doveva partire non avendo avuto comunicazione ufficiale del deposito dell’atto.

Rientrai a Salerno, lessi con attenzione la corposa quanto friabile sentenza di 2 mila pagine, in sei volumi, uno interamente dedicato a Tortora; telefonai alla matricola del carcere di Pianosa che mi confermò che nessun P.A. nato a…. il…. Era mai stato detenuto in quella sede; chiesi di ricevere un certificato che mi venne subito recapitato; scrissi e depositai l’appello per P.A. al quadrato.

Avevo anche capito cosa era successo.

P.A. era stato condannato con la prova a carico di P-A.2.

Cosa era successo: gli imputati di quel processo erano elencati in ordine alfabetico e per ognuno erano indicati gli elementi a suo carico.

P.A. era scritto in grassetto, P.A.2, che veniva immediatamente dopo, non era in grassetto. E, allora, gli elementi a carico di P.A.2 che era stato detenuto a Pianosa con D’Amico, erano stati, per errore, per una svista, utilizzati per condannare P.A.. Tutto qui! E scusate se è poco.

A dopo per l’appello.

Giovanni Falci

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