il Quotidiano di Salerno

direttore: Aldo Bianchini

FRUMENTATIONES: IL NOSTRO VIAGGIO NELLA STORIA DEL PANE TRA LEGGI E SIMBOLI.

 

Dr. Michele D’Alessio (giornalista-agronomo)

La storia del pane nasce approssimativamente con la storia dell’uomo. Testimonianze antiche evidenziano come l’homo sapiens fosse avvezzo a preparare un impasto, costituito da ghiande tritate con acqua, che, steso su una lastra rovente dava un prodotto paragonabile ad una specie di focaccia dura e non lievitata. I primi tentativi di panificazione prediligevano orzo e miglio come cereali adatti, da un punto di vista nutrizionale, a soddisfare il bisogno energetico umano. Successivamente, in ambienti nobili, il frumento divenne il cereale ad hoc, diffuso ancora oggi proprio per le sue caratteristiche intrinsecamente congeniali alla panificazione di qualità. Proprio con l’uso del frumento e dei cereali,  a tutela, furono emesse varie leggi come la lex frumentaria un provvedimento legislativo che regolava la distribuzione di frumento a prezzi agevolati o gratuitamente alla popolazione di Roma. Dato il carattere, fu il più delle volte decisa non sotto la forma della lex comitialis, ma attraverso gli scita plebis, provvedimenti presentati da un Tribuno della plebe ed approvati da un concilium plebis. La lex Sempronia frumentaria fu emanata nel 123 a.C. su proposta del tribuno Caio Sempronio Gracco. Nel 73 a.C., il console Gaio Cassio Longino, assieme al collega Marco Terenzio Varrone Lucullo fece approvare la lex Terentia et Cassia frumentaria. La Lex Clodia Frumentaria che fu promulgata nel 58 a.C., su proposta del tribuno Clodio, un patrizio che facendosi adottare dal ramo plebeo della familia era diventato tribuno della plebe e che si era schierato con Cesare. La lex Clodia frumentaria stabiliva che il grano distribuito con le frumentationes dovesse essere concesso gratuitamente alla popolazione meno abbiente. Sempre con il noto scrittore pollese, il Dottore Vitantonio Capozzi ricostruiamo l’uso del pane nell’Impero Romano e nella Capitale “…Ricostruire la storia del pane quindi ci permette di osservare da un altro punto di vista, solitamente trascurato nella didattica scolastica, la Storia Romana, la sua evoluzione, le sue peculiarità locali, tramite il confronto tra una pluralità di fonti e di diverse tecniche realizzative. Anche per questo motivo proveremo a realizzare alcuni tipi di pane dell’Antica Roma, di cui troviamo riscontro nelle fonti, provando a trarne informazioni sulle diverse caratteristiche, su quali ingredienti e tecniche di realizzazione siano andate perdute e quali invece si siano affermate, ma soprattutto sulle motivazioni che hanno portato a questa graduale evoluzione. I romani del III sec. a.C. erano visti come mangiatori di puls (sorta di polentina di frumento mescolata e cotta con acqua e latte). All’interno delle case modeste era diffusa la tradizione dei cereali consumati sotto forma di pappa o gallette senza lievito. Successivamente nella Roma del II sec. a.C. il pane lievitato assunse un ruolo importantissimo. Se in tempo di pace per un contadino i legumi dell’orto erano sufficienti a rappresentare un’alimentazione civilizzata, questo non valeva in tempo di guerra. Il soldato riteneva essenziale mangiare il pane al quale affiancava carne, olive, cipolle, fichi e vino. I romani dividevano normalmente la loro alimentazione in tre pasti quotidiani chiamati ientaculum, prandium e coena. Raramente i romani dedicavano molta attenzione ai primi due pasti che non erano mai molto nutrienti e il più delle volte abolivano uno dei primi due. Agli inizi non c’era il prandium e alla cena seguiva un altro pasto, la vesperna. Per la maggioranza dei romani prima di correre al lavoro lo ientaculum era assai semplice: un bicchiere d’acqua o qualcosa rimasto dalla cena della sera prima.

Quanto al prandium, i poveri e la plebe certo non tornavano in casa per desinare ma il più delle volte mangiavano nelle cauponae o nelle popinae, dove si potevano consumare pane plebeo e piatti semplici (uova sode, formaggio, legumi) e bere vino mescolato con acqua calda d’inverno o fredda d’estate, oppure si comprava qualcosa dai venditori ambulanti, i quali vendevano un po’ di tutto (per lo più olive, pesci in salamoia, pezzetti di carne arrosto, uccelli allo spiedo, polpi in umido, frutta, dolci e formaggio). Si usava insaporire i cibi con il garum, una salsa a base di pesce fermentato che si spalmava dappertutto ma specialmente sulle insipide focacce di cereali. Il pasto principale era però la cena, che iniziava per lo più al ritorno dalle terme (dove, tra l’altro si aveva l’occasione di incontrare i propri conoscenti e invitarli alla propria mensa, e dove si riunivano molti sfaccendati con la speranza di ricevere un invito da qualche amico). Si andava dall’ottava ora in inverno alla nona in estate: quello che per noi sarebbe pieno pomeriggio. La cena di solito terminava prima che fosse notte fonda, fatta eccezione per i grandi banchetti. Mentre il prandium del contadino si basava sui legumi quello del soldato ruotava attorno al grano. Di facile conservazione e trasporto, il pane rappresentava il cibo simbolico del cittadino soldato, quell’alimento che in tutto il bacino del Mediterraneo, insieme alla frutta secca, identificava colui che viaggiava. Il grano, una volta trasformato nel compatto e resistente pane, forgiava il corpo del soldato in solido e corazzato. Il pane era il cibo simbolico della cittadinanza, e il contadino diventava cittadino soltanto nel giorno in cui riceveva del frumento perché iscritto fra gli uomini che potevano essere mobilitati. La cultura del grano era il segno dell’agiatezza corrispondente ad una classe di censo superiore. Con il grano si possedeva quel superfluo indispensabile alla condizione di cittadino, status che metteva al riparo dalla penuria e dall’insufficienza degli orti.  A Roma erano due i gruppi ai quali lo stato assegnava una condizione privilegiata rispetto alla massa della popolazione dell’impero: i componenti dell’esercito e la plebe cittadina della capitale, che poteva rivendicare la distribuzioni del grano come diritto dell’uomo libero (plebe frumentaria).

Sarà per questo che oggi, opponendosi alla cultura del superfluo, in una sorta di ritorno al passato, all’essenziale, il pane fatto con cereali poveri attira e, si è disposti ad acquistarlo persino a caro prezzo presso alcune boutique del pane.

 

5 Commenti

  1. Quando si Faceva il Pane
    Negli anni ottanta, l’oro della campagna era il grano, che raccolto in luglio, si conservava gelosamente in quantità necessaria per tutto l’anno. Prima di tramutarlo in farina, occorreva che il grano fosse pulito dalle impurità con una cernitrice e dopo si portava al mulino per macinarlo, la farina si metteva nei sacchi e si portava a casa, pronta per fare dei saporiti cicatielli, laganella, altri tipi di pasta fatta in casa o per fare del buon pane.
    (A proposito del sacco di farina c’era un detto che diceva: tato ‘u ‘ncricca e mamm ‘u mmoscia, nel senso che il padre lo riempiva al mulino e la mamma lo svuotava in casa).
    Molto specializzata a fare il pane era la mia nonna paterna che già la sera prima “ammassava” la farina con il “criscito”(lievito), sale, acqua tiepida e divenuta pasta, perché lavorata per parecchio tempo, veniva lasciata lievitare per alcune ore nella “fazzatora”(madia). Il lievito per il pane era naturale e veniva prelevato sempre dalla ammassata, e conservato in una scodella per far lievitare il pane della volta successiva. Se non se ne aveva a sufficienza si chiedeva in prestito ai vicini.
    Quando la pasta era “cresciuta”(ben lievitata), si divideva in panelle e si metteva nei “canistri”(cestini), dove dentro erano stati messi dei panni, le cui punte andavano a coprirle.
    Intanto mio nonno preparava il forno, facendo ardere all’interno un bel fuoco di fascine. Lui diceva che il forno era pronto quando il “cielo” di mattoni cambiava di colore, cioè da nero tornava bianco per l’elevato calore. Seguiva la spazzatura: si toglievano le braci con il tirabrace, un lungo e ricurvo arnese di ferro, quindi con il ” Munnolo” (Spazzatoio” si puliva ben bene il piano del forno.
    Gli spazzatoi altro non erano che dei bastoni, sufficientemente lunghi da arrivare fino in fondo al forno, ad un’estremità dei quali venivano fissati vecchi pantaloni, maglie smesse e teli di cotone, purchè fossero di stoffa robusta, in alternativa si legavano rami di “Saucio” (Sambuco) Per pulire bene il forno era necessario sciacquare gli spazzatoi, in recipienti pieni d’acqua a portata di mano. Per vedere se il forno era a giusta temperatura, non si usava il termometro, ma si faceva una infornata di pizze al pomodoro, che nel giro di pochi minuti cuocevano e si cacciavano belle fumanti… invitavano ad essere mangiate all’istante, cosa che io facevo, ma che gli altri non potevano fare, perché si doveva infornare il pane, e l’operazione richiedeva molto coordinamento.
    Infatti Ie panelle venivano passate una per una dalle ceste sopra un attrezzo che mi pare si chiamasse “mestola” tirando con un gesto deciso il panno per uno degli spigoli. Aveva così inizio la messa in forno: dal cesto alla mestola, dalla mestola alla pala, già appoggiata alla stretta imboccatura del forno e cosparsa di farina per evitare l’aderenza del pane in lievitazione con il legno. Con la pala si introducevano le panelle nel forno tenendola sollevata e sfilandola, dopo, con un rapido movimento all’indietro. La disposizione dei pani richiedeva una certa abilità per impedire che si baciassero tra loro, altrimenti ne sarebbe risultato un pane con la crosta irregolare e ruvida lungo i lati. Durante questa operazione ci voleva attenzione da parte dei presenti per non essere inforcati dal manico della pala, per cui il nonno amava ripetere sempre che: “ ‘A furnare e mul, nun ce sta maj p’ cul” ( non stare mai dietro ai fornai e ai muli).
    Davanti alla bocca del forno veniva messo un coperchio che si sigillava con dell’argilla e non si poteva aprire prima di un’ora. Passato tale tempo, si toglieva il coperchio e si vedevano grossi pani alti e dal bel color biscotto, a quel punto cominciava a spandersi intorno l’inconfondibile odore del pane.
    Per una o due volte veniva controllato che la cottura fosse uniforme, cioè veniva scambiata la posizione delle “scanate”(pagnotte) al centro, già quasi cotte, con quella delle pagnotte ai lati. Man mano che cuocevano si tiravano fuori velocemente, perché scottavano, venivano prese in mano una ad una e, con uno spazzolino di saggina, venivano pulite dai residui di cenere e di farina. Poi tutte in fila, venivano messe a raffreddare.
    Questa scorta bastava almeno per una decina di giorni, senza avere la paura che potesse andare a male, anzi dopo alcuni giorni era ancora più saporito.
    Alla fine tutti stanchi ma felici ci si sedeva a mangiare la pizza accompagnata da un buon bicchiere di vino che solo mio nonno sapeva fare così bene.
    Il mio lavoro, però, non finiva lì, perché dovevo ancora fare il giro del vicinato per portare ad assaggiare la pizza al pomodoro che mia nonna tagliava sapientemente, tenendo presente il numero dei componenti delle famiglie. L’assaggio al parentado era una consuetudine quasi obbligatoria, perché l’odore del pane fresco arrivava a tutte le case della zona e “sembrava brutto” non portare un poco di pizza. Abitudine che veniva puntualmente ricambiata quando a fare il pane erano i vicini.

  2. Ricordo anche io, quando mia madre faceva il pane, un profumo e una aroma unica, le panelle di pane, il “pizzo”…. che veniva regalato ai vicini o ai parenti….

  3. Quando dovevano fare il pane, mia mamma e le mie sorelle grandi si alzavano presto, io che ero la più’ piccola restavo a letto a dormire, e quando mi svegliavo , la focaccia profumata era già pronta per mangiarla col latte, una volta mi sono alzata presto pure io e mi hanno fatto partecipare alla preparazione:

    Una volta alla settimana, ogni mercoledì, si faceva il pane necessario per tutta la famiglia e pure a regalarlo a chi ne aveva bisogno, veniva sempre la vicina di casa, la chiamava mamma, era il momento migliore per parlare di tutto quello che succedeva nel vicinato, mica c’erano i giornali per leggere le notizie, Terminato il lavoro andava via con la cesta piena di pane caldo.

  4. Per molte estati, fino a che non ho compiuto dieci anni, in agosto prendevo il treno con nonno e nonna da Firenze per raggiungere le sorelle di nonno che ancora abitavano in Basilicata. Era un incrocio tra un viaggio della speranza e un’avventura fantastica. Da Firenze dovevamo fare il cambio treno a Bologna, correndo tra un binario all’altro, e poi scendevamo lungo l’Adriatico fino a Bari. Durante quel viaggio, guardando il mare che scorreva veloce dal finestrino dello scompartimento, facevamo ‘pranzo al sacco’: panini morbidi con formaggio e mortadella, e una banana.
    Appena ho visto il pane mi son tornate in mente le sere in cui arrivavo a …….. e zia mi faceva la cena più semplice e buona, adatta ad un bambino: scioglieva la scamorza in un padellino, poi ci aggiungeva un uovo sbattuto, mescolava un pochino per farlo rapprendere e me lo versava velocemente in un piattino. Mi guardava mentre stavo seduto sulla seggiolina di vimini della sua cucina, accanto alla finestra, e mi allungava una fetta di pane del tutto diverso da quello a cui ero abituato, era giallo e aveva una crosta scura scura, e poi era salato! Mangia mangia, finché è caldo. E cominciava così la mia vacanza estiva coi nonni in Basilicata…..

  5. Il Pane e i suoi derivati

    Nel Vallo di Diano, come in tutti i centri della vicina Lucania, sin dall’antichità era diffusa l’usanza di preparare il pane in casa, cotto in forni realizzati con mattoni refrattari, alimentati a legna e situati all’interno delle abitazioni, solitamente nelle soffitte. Gli ingredienti erano: farina; acqua, lievito (criscintieddu), sale e patate bollite. L’impasto avveniva nella madia (fazzatora) ed era abbastanza lungo e la cottura durava due ore e mezzo. II pane si conservava nella madia e se ne faceva una quantità tale da sopperire ai bisogni dell’intera famiglia per due settimane.
    Focaccia (fucazza)

    Per verificare se il forno era pronto per la cottura del pane si soleva preparare con la stessa pasta del pane, le focacce, di forma circolare con un foro al centro e con uno spessore di 2 cm.
    Pipicieddi fritti

    La pasta del pane si utilizzava anche per fare i Pipicieddi fritti che erano un tipico dolce dei “poveri”. Si tagliava a pezzi piccoli la pasta del pane, si soffriggeva in olio e si serviva con abbondante zucchero, quando erano ancora caldi.
    Picciulatieddu cu frittuledde

    La pasta del pane si utilizzava anche per la realizzazione del picciulatieddu. Alla pasta del pane si univano i ciccioli (frittuledde) a pezzi piccoli, un po’ di peperoncino forte, sale e qualche uovo. Si impastava tutto e gli si dava una forma di ciambella.
    Pipu

    Anche per la realizzazione del pipo si utilizzava la pasta del pane che veniva spianata e ricoperta con sugo già pronto e con una manciata di origano e formaggio pecorino.
    Zuppa di pane bagnato ai fagioli (pane `mbusso `e fasuli)

    Poiché la cultura contadina non ammetteva lo spreco degli alimenti, solevano consumare i pezzi di pane raffermo inzuppandoli nel sugo dei fagioli rossi reso speciale dalla particolare cottura nella pignatta di terracotta posta sul fuoco. Questo pane bagnato nei fagioli veniva poi condito con strutto ed aglio leggermente soffritti.
    Pane abbrustolito sul fuoco (`a ruscedda o pane arrusciato)

    Porre ad abbrustolire le fette di pane sul fuoco fino ad ottenere una buona doratura, quindi condire con olio di oliva e sale. A preferenza, prima di condirle si possono strofinare con uno spicchio d’aglio e aggiungere una spolverata di peperoncino in polvere.
    Friselle

    Per le friselle si utilizza la pasta del pane alla quale si dà una forma allungata e si inforna insieme al pane. Dopo 90 minuti di cottura si rimuove dal forno, si taglia a pezzi che poi si rimettono in forno, dove rimangono fino al giorno successivo.
    Pane cotto (ciauredda)

    Il pane raffermo veniva utilizzato anche per la realizzazione del pane cotto (ciauredda). Si prepara il pane raffermo a fettine in un piatto fondo mentre in un tegamino si mette dell’acqua con olio, aglio e sale. Quando l’acqua bolle vi si rompe un uovo che deve cuocere per un po’; a questo punto bisogna versare il tutto sul pane raffermo e coprirlo con un altro piatto prima di consumarlo perché deve stufare. La ciauredda solitamente veniva consumata a colazione, ma spesso era l’alimento base durante lo svezzamento dei bambini.

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