FALCI: INVITO MICHELANGELO RUSSO A ESSERE “GIUDICE PENITENTE”

 

Giovanni Falci (avvocato – scrittore)

 

Avv. Giovanni Falci

La commemorazione della “tangentopoli salernitana” per opera di Michelangelo Russo pubblicata sulla edizione del 31 dicembre di “Cronache” merita sicuramente più di una riflessione.

L’anno della scimmia con cui apre l’articolo Michelangelo è effettivamente congeniale a ciò che avvenne in quel periodo negli uffici giudiziari di Salerno: ci fu lo “scimmiottamento” della Procura di Milano.

Proprio così, al di là del genio creativo e inventore e dell’intelligenza, la scimmia è l’animale che imita i gesti delle persone che osserva, proprio come avvenne in quel periodo a Salerno.

Innanzitutto “genio creativo e inventore” sono caratteristiche che non devono appartenere al Magistrato. Questi, infatti, non deve “inventarsi” niente ma svolgere la sua funzione che è quella di accertamento dei fatti che vengono denunciati e che rappresentano notizie di reato.

Il genio creativo, al più, può essere riconosciuto a quella funzione di nomofilachia propria della Corte di Cassazione; ma in quel caso è “creatività” nella interpretazione delle norme giuridiche e non dei fatti.

Inoltre trovo del tutto fuori posto i due richiami al ‘68 e alla rivoluzione.

Le anime del ‘68 sono state coscienze di lotta di masse, sono stati movimenti popolari alimentati dalla classe operaia e dagli studenti per la prima volta uniti non per una rivoluzione, ma per una contestazione del sistema; è stata una coscienza esattamente all’opposto della “ristretta categoria di professionisti” di cui si parla nell’articolo.

Non è una bella lezione di democrazia da impartire alle nuove generazioni di MOT quella che legittima un “cambiamento epocale per le istituzioni” da parte del “potere dei giudici”.

Direi che è una pagina di storia per la democrazia da cancellare, da porre nell’oblio come del resto si è già posta da sola e da qualche tempo.

Avevo esordito definendo l’articolo di Michelangelo, persona verso cui nutro un sincero affetto, una “commemorazione”, in realtà, forse sarebbe più appropriato definirlo una “apologia” incentrata su se stesso, sul proprio egocentrismo e sulla esaltazione di quella Procura della Repubblica di Milano, a mio avviso sopravalutata; si percepisce in quell’articolo un senso di superiorità nei confronti di chiunque che lo pervade.

E allora, per analizzare con obiettività quella stagione della giustizia in Italia e a Salerno in particolare, bisognerebbe abbandonare la maschera che si è indossato nell’articolo; ciò non avviene rendendosi migliore, bensì abbandonando quella compassione di facciata che ci aveva, a tutti, contraddistinto in precedenza, annullando in questo modo quei non-valori che riescono a tenere insieme la società basata sul malaffare additata da Michelangelo.

L'articolo scritto da Michelangelo Russo io 31 dicembre 2021 per "leCronache.it"

Invito, perciò Michelangelo a diventare quello che Camus fa dire a Jean-Baptiste Clamence, il protagonista de “la caduta”: un giudice-penitente.

Questa dimensione spirituale consiste nel confessare a chiunque le proprie colpe (vere o fittizie), in modo da costringere l’ascoltatore a pensare di aver commesso egli stesso le medesime colpe: in questo modo, accusando se stesso, si riesce a rendere colpevole l’umanità intera; ecco quindi che, partendo dalla posizione di penitente, si può diventare giudice.

Un percorso, perciò esattamente all’opposto con la filosofia che ha ispirato il pezzo in commento.

Voglio terminare con un accenno a quell’affermata superiorità della Procura della Repubblica di Milano sulle altre Procure, ivi compresa quella di Salerno.

Secondo me non esistono Procure più o meno superiori, esistono Procure più o meno corrette.

Quella di Milano ha avuto, in quel periodo, solo la fortuna di ricevere una infinità di “confessioni” spinte dal terrore degli arresti che venivano monitorati e divulgati addirittura con postazioni di giornalisti sul marciapiede del Palazzo di Giustizia.

Oggi c’è il bollettino COVID, allora il bollettino ARRESTI.

Confessioni tra virgolette perché si trattava di strategie processuali che attraverso un inquinamento probatorio, facevano evitare gli arresti.

C’era un avvocato in quel periodo che aveva l’agenda fitta di appuntamenti, per lo più in orari pomeridiani, per portare i “clienti” a confessare.

Anche questo, caro Michelangelo, è “il panorama della rivoluzione giudiziaria” di cui parli. Anche quell’avvocato divenuto subito famoso perché conosceva il PM a cui rendere la confessione ha reso un importante contributo a colpire “la corruzione dell’intero sistema politico ed economico italiano”.

Quelle “confessioni” hanno reso famosi quel manipolo di magistrati, hanno reso ricco quell’avvocato e non hanno reso giustizia dei fatti.

Proprio così, quelle “confessioni” hanno tramutato in concussioni fatti di corruzione non facendo, perciò, luce sui fatti, ma, anzi manipolandoli a proprio piacimento.

Il risultato? Il PM aveva il processo apparecchiato: un imputato di concussione nella persona del Pubblico Ufficiale; una persona offesa-testimone nella persona dell’imprenditore che avrebbe pagato la tangente.

In realtà erano tutti fatti di corruzione nella quale era l’imprenditore a prendere l’iniziativa di “oleare” i meccanismi per raggiungere lo scopo di avere appalti e altri vantaggi; imprenditore che non era condannato per avere falsato la verità dei fatti.

Meglio non insegnare “alle nuove generazioni di MOT” queste tecniche, ne guadagna sicuramente la Giustizia, quella non creativa, quella vera.

Giovanni Falci

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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