La società cambia; la scuola non sempre lo fa (1a parte)

da Nicola Femminella

 

Prof. Nicola Femminella

Spesso mi viene chiesto cosa può fare la scuola per collaborare con le istituzioni, al fine di evitare il fenomeno soffocante dello spopolamento delle zone interne.

Dopo aver premesso che la domanda posta è abbastanza impegnativa, proverò a fornire una mia modesta opinione in merito. Non una ricetta miracolosa. Né da esperto di sociologia o di pianificazione territoriale.

Inizio dalla scuola…

La Scuola è l’istituzione essenziale e insostituibile di tutti i consorzi umani e in ogni epoca. Oggi, ancora di più, è traino indiscutibile per l’occupazione dei giovani e l’economia dei popoli, nonché condizione vitale per edificare e far sviluppare, giorno dopo giorno, i diritti fondamentali dei popoli che vogliono vivere in uno stato di libertà.

Se essa assolve compiutamente alla propria funzione, negli spazi che le sono consentiti e con il sostegno ad essa garantito dalle istituzioni statali che la disciplinano, è lo strumento più efficace per lo sviluppo delle comunità, sotto ogni latitudine. Allorquando essa è attenta ai cambiamenti della società che intervengono nel tempo – tutte si evolvono, anche nei periodi di ripiegamento – e ne segue le parabole e modifica le modalità con le quali svolge il suo ruolo, per accompagnarli e renderli proficui e utili agli interessi generali, fornisce contributi decisivi allo sviluppo del territorio in tutte le direzioni e per tutti i settori produttivi. Ebbene, abbiamo discusso per circa quattro decenni, in Italia e nei paesi interessati all’argomento, sull’opportunità di introdurre e affermare la scuola delle “competenze”, una delle suggestioni della scuola cognitiva, entrata come indicazione e obiettivo nei programmi dei sistemi scolastici. Tale era la richiesta dei tempi che evolvevano sotto la spinta della tecnologia, da cui derivavano novità incessanti, tra le quali il computer si apprestava a imporre il suo dominio planetario e con il villaggio globale che si preannunciava sull’orizzonte ormai visibile. Si è avuto così un frenetico ricorso a nuove impostazioni metodologiche che hanno modificato il fare scuola, sotto la spinta di indirizzi pedagogici teorici innovativi, rispetto a pratiche tradizionali che in pochi anni sono apparse obsolete. L’ha determinato in gran parte l’impulso partito dalla scuola di Würzburg, in Germania, ma a darle i primi fondamenti sistemici sono stati gli Stati Uniti dove U. Neisser pubblica nel 1967, l’opera Cognitive psychology, da cui deriva il nome del movimento. In una estrema sintesi e per non tediare il lettore, posso dire che il Cognitivismo considera la mente umana una piattaforma nella quale vengono elaborate tutte le informazioni e i dati raccolti dai ricettori esterni, con i quali essa elabora poi le proprie attività.

Nella scuola, attraverso un lavoro laboratoriale, gli alunni acquistano i saperi, problematizzandoli e individuando le soluzioni giuste col concorso del gruppo-classe; tutti devono pervenire al risultato finale, seppure con livelli diversi, se non sono portatori di disabilità. Sono consapevole che necessitano certamente altre notizie a riguardo, più approfondite per illustrare il tutto, ma non è questa la sede per dilungarmi sulla materia, per cui mi scuso col lettore se sono costretto alla forma enunciativa e per nulla esauriente. In alcuni paesi si è avuta, rispetto a queste novità che hanno interessato anche la psicologia, la linguistica, le neuroscienze, i piani economici e altre discipline, l’attenzione necessaria e in pochi anni, soprattutto tramite la scuola, hanno fatto passi decisivi in avanti come l’India, la Cina; altri hanno compiutamente adottato i nuovi indirizzi per la formazione delle giovani generazioni e hanno scalato le vette dell’eccellenza economica, come il Giappone, Singapore, Hong Hong, la Germania, la Finlandia; altri ancora si sono attardati nel creare una scuola innovativa e propulsiva e a formare studenti capaci di interagire con la realtà circostante, per conoscerla e utilizzarne le potenzialità, le risorse e le vocazioni. Le ultime sono quelle afflitte dal debito pubblico, dagli artigli della disoccupazione, dal divario esistente nei propri territori tra le zone più sviluppate e quelle più povere, per lo più quelle interne, destinate al depauperamento. Tra queste da molti anni si trova ad essere l’Italia, nonostante sia al settimo posto tra i paesi più industrializzati del mondo e in particolare il sud dove i giovani sono condannati a riprendere la valigia di cartone e a partire alla ricerca di lavoro. Ebbene, oggi lo sviluppo delle competenze non basta per una scuola che ancora cambia e con maggiore velocità. Stanno per irradiarsi nel mondo la robotica, l’intelligenza artificiale, il contenimento del degrado dell’ambiente e la riconversione ecologica, il pericolo delle fonti energetiche manipolate dalle potenze militari, ecc. E allora accanto alle competenze da sviluppare nei ragazzi compare un altro concetto di cui l’istituzione scolastica deve tenere il massimo conto e che dovrà introdurre nel sistema/ scuola in tempi ristretti: la “complessità”. Dobbiamo predisporre curricula e apparati metodologici rinnovati, perché i ragazzi siano formati adeguatamente a esprimere competenze e a sapersi orientare, se immersi in situazioni precarie e complesse, come sono quelle che vivono nelle zone interne, a contatto con uno spopolamento dai grandi numeri e occasioni occupazionali limitate o poco accettabili. È difficile per una generazione che vive una condizione deficitaria rimanere nel proprio piccolo paese e poter partecipare alla società in cammino; essere protagonista attivo e trovare un posto dignitoso per il proprio essere nel mondo. Gli studenti, però, prima di prendere il trolley e partire devono scrutare ogni opportunità di lavoro che esiste anche nel piccolo borgo di residenza e verificare se sussistono risorse, vocazioni e piani legislativi, dai quali ricavare aspirazioni percorribili. A tal proposito i progetti scuola-lavoro devono liberare energie ed entusiasmi e non affossare ottimismi e speranze. Devono essere strumenti incisivi, perché gli studenti possano verificare se nel comprensorio è possibile costruire un progetto di vita per il proprio futuro. Se a nulla valgono invece, se neppure fanno intravedere una “minima ricerca di mercato”, se, addirittura, producono  qualche infortunio mortale ai ragazzi impegnati e se le altre istituzioni politiche nessuna possibilità, nessuna iniziativa hanno predisposta sul territorio di competenza, (colpevolmente perché vedremo nella seconda parte che qualche “trovata” la devono produrre in seguito a normative e leggi introdotte per le aree svantaggiate)  il viaggio dei laureati e diplomati verso le grandi metropoli come Milano, Londra, Madrid, Monaco di Baviera è una scelta obbligata. Anche in questo caso, però, è utile portare con sé il convincimento che nulla è ormai semplice ma tutto è composito, complesso, insieme alla consapevolezza che i saperi e gli strumenti logico-operativi da acquisire a scuola devono aiutarli a saper essere, a saper conoscere e a saper fare, perché possano, rispetto alle proprie necessità, essere creativi e imprenditori di se stessi. E i docenti devono indirizzare verso questi due obiettivi – essere creativi e imprenditori di se stessi – il duro lavoro che svolgono in classe, spesso senza conoscenze e dotazioni metodologiche, e lo Stato deve formarli con un poderoso piano nazionale di formazione, impegnando le Università e gli Istituti regionali di ricerca a svegliarsi da un sonno profondo che impedisce loro di lavorare sinergicamente e concretamente con le scuole militanti. Se è vero l’assunto “il mondo cambia”, ne deriva che “anche la scuola deve cambiare” e ciò è doppiamente vero in quei territori dove le innovazioni non sono state introdotte e dove i risultati sono dichiarati mediocri da rilevazioni nazionali e internazionali.  Per le prime mi riferisco ai dati raccolti dall’INVALSI; per le seconde a quelli ancora più accreditati dell’OCSE Pisa.

Non credo di aver detto chissà cosa ma solo quello che ho toccato con mano nelle scuole di mezza Italia per circa 40 anni.

Il tema è all’attenzione dell’on. Michele Cammarano, presidente della Commissione per le aree interne che lo sta sviluppando ottimamente all’interno della sottocommissione Scuola, visti gli elementi di contenuto emersi nella videoconferenza del 2 febbraio scorso. (I parte)

 

 

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