La riforma Cartabia e la “fine del processo civile”.

 

da Giuseppe Amorelli

(avvocato – scrittore

 

Giuseppe Amorelli (avvocato - scrittore)

Come ha osservato qualche anno fa un attento studioso (Vandelli, L., Psicopatologie delle riforme quotidiane, Bologna, 2006, 57), la nostra legislazione degli ultimi decenni è diventata «ossessiva, autistica, dislessica»: quasi maniacale su alcuni temi e, al tempo stesso, refrattaria a qualsiasi critica o confronto esterno. In realtà, si tratta di una legislazione che ha come obiettivo di far credere che l’intervento legislativo significhi, di per sé, aver risolto il problema. Questa intima convinzione – propria dei legislatori e inevitabilmente trasmessa anche ai rappresentati – ha portato, da un lato, a sventolare le riforme approvate come se fossero già la soluzione e, dall’altro lato, a disinteressarsi completamente dei risultati (positivi o negativi) che, quelle stesse riforme, hanno prodotto.

 

Una seconda ragione si rinviene nell’aver concentrato gli interventi riformatori solo sulle regole del processo, senza alcun intervento di riorganizzazione degli uffici giudiziari (ad esclusione del timido intervento attuato con i dd.lgs. 7.9.2012, nn. 155 e 156 sulla parziale riorganizzazione dei tribunali ordinari, delle procure e sulla revisione delle circoscrizioni giudiziarie e degli uffici del giudice di pace).

 

Infine, una terza ragione è da rinvenire nel fatto che le numerose riforme processuali attuate difettano di organicità e scontano l’assenza di un disegno generale e omogeneo. Solo all’interno del codice si ritrovano oggi modelli processuali molto diversi fra loro: quello ordinario davanti al tribunale in composizione collegiale, quello ordinario davanti al tribunale in composizione monocratico, il rito del lavoro, il rito locatizio, il rito della separazione, il procedimento davanti al giudice di pace, il procedimento sommario di cognizione, alternativo a quello ordinario davanti al tribunale monocratico, il “processo di classe”. Il novero dei riti aumenta in maniera esponenziale se poi si tiene conto anche della legislazione speciale, a cominciare dal d.lgs. 1.9.2011, n. 150, pubblicizzato come decreto sulla riduzione e semplificazione dei riti speciale, ma che, nella realtà, ha introdotto nuovi riti speciali.

 

Al fondo di tutti questi interventi non può non evidenziarsi l’assenza di una visione unitaria su quale debba essere nel nostro sistema il modello processuale di riferimento preferito dal legislatore.

Al contrario, si ritiene oggi che tutto debba passare attraverso il potere discrezionale del giudice, si ritiene debba essere il giudice l’artefice delle norme processuali, e si ritiene altresì che oggetto del processo, in massima parte, non siano i diritti soggettivi dei litiganti ma la volontà oggettiva delle leggi. In ogni caso va riaffermato che il processo civile serve per l’attuazione dei diritti soggettivi delle parti, non altro, e che tutto ciò deve avvenire sì con regole predeterminate, ma in seno a principi di libertà.

Ogni volta che contro le stagnanti solennità del processo ordinario il legislatore ha creduto di porre rimedio col creare per le cause più urgenti uno speciale procedimento abbreviato e concentrato, detto perciò sommario, il costume giudiziario è riuscito in pochi anni a render pigro e solenne questo procedimento nato per esser celere e semplice. È questo un curioso fenomeno che si ripete periodicamente nella storia: il processo sommario, messo a contatto colla pratica, tende a diventare formale, e ad appropriarsi di tutte le lentezze e le complicazioni del processo ordinario»

Le “ riforme” intervenute  negli ultimi trenta anni hanno trasformato la natura del processo civile.

In una delle Sue Lezioni, tenutesi in Messico. nell’anno 1952 , pubblicate successivamente nell’anno 1954, in un volume ”Processo e Democrazia”, Piero Calamandrei  tenne a sostenere:”  che, seppur le regole del processo non siano altro che «massime di logica e di buon senso», è tuttavia coessenziale ad un sistema democratico che queste vengano espressamente codificate, e che l’intero procedimento sia, in ogni suo aspetto e momento, regolato dalla legge. La ragione è evidente: così come il diritto sostanziale deve essere eguale per tutti, allo stesso modo deve essere il diritto processuale; e il diritto processuale riesce ad essere effettivamente e concretamente eguale per tutti solo se il processo non è rimesso alla libertà delle parti o alla discrezionalità del giudice. Se uguale per tutti deve essere il diritto sostanziale, non è concepibile che il procedimento tecnico che serve ad applicare la legge ai concreti casi controversi si plasmi in maniera diversa secondo i diversi accorgimenti delle parti in contesa e che l’equilibrio del contraddittorio sia turbato, secondo i casi, dalla prepotenza del più forte o dalla abilità del più scaltro .Ed ancora aggiunge Calamandrei: «Tutta la storia del processo, dalle formulae del diritto romano, alle positiones del diritto comune, dagli statuti italiani alle coutumes francesi, è, in sostanza, fino a giungere alle codificazioni, la storia della trasformazione della pratica giudiziaria in diritto processuale…Allora, se si vuol dar credito alla sentenza dei giudici, si cominciano a cercare nei meccanismi sempre più precisi della procedura le garanzie per assicurare che essa sia in ogni caso il prodotto, non dell’arbitrio, ma della ragione» Costituisce infatti irrinunciabile garanzia di civiltà quella di poter conoscere previamente le modalità di svolgimento dell’attività giurisdizionale (il c.d. giusto processo regolato dalla legge), di modo che ogni cittadino possa far conto, quando vaglia la soglia di un’aula di giustizia, proprio su quello svolgimento, senza sorprese e senza incognite. Se la legge rinuncia invece a regolare il processo, e rimettere ogni regola processuale alla sola discrezionalità del giudice, la conseguenza è quella di giungere alla «abolizione del diritto stesso, almeno in quanto l’idea del diritto si riconnette alla garanzia di certezza e eguaglianza, conquista insopprimibile della civiltà» Cosi ancora Calamandrei, nell’ Abolizione del processo civile, Riv. Dir. proc., 1939, I, 386.

In occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, nell’anno 2021, fu il Primo  Presidente della Cassazione Pietro Curzio , che nell’affrontare il tema della riforma della giustizia civile, ha invocato l’intervento del legislatore «per prevenire la sopravvenienza di un numero patologico di ricorsi, mediante forme di risposta differenziate rispetto a quelle tradizionali in grado di giungere alla definizione del conflitto senza percorrere necessariamente i tre gradi di giurisdizione». In questa prospettiva il Presidente Curzio riteneva   che in ambito civile debba essere valorizzata la mediazione «nelle sue molteplici potenzialità», cosa che poi di fatto è avvenuta. Si individua dunque un sistema costituito   da strumenti di “risoluzione extra-giudiziale”,  per dare una  soluzione  ai ritardi  del sistema giudiziario alle  domanda di giustizia che promana dai cittadini e dalle imprese. Ovvero si percorre la strada di rafforzare gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie   rendendoli effettivamente preferibili all’azione giudiziaria, una sorta di “abdicazione alla giurisdizione”.

A tal proposito è stato sostenuto che:”la nostra legislazione degli ultimi decenni è diventata «ossessiva, autistica, dislessica»: quasi maniacale su alcuni temi e, al tempo stesso, refrattaria a qualsiasi critica o confronto esterno. In realtà, si tratta di una legislazione che ha come obiettivo di far credere che l’intervento legislativo significhi, di per sé, aver risolto il problema. Questa intima convinzione – propria dei legislatori e inevitabilmente trasmessa anche ai rappresentati – ha portato, da un lato, a sventolare le riforme approvate come se fossero già la soluzione e, dall’altro lato, a disinteressarsi completamente dei risultati (positivi o negativi) che, quelle stesse riforme, hanno prodotto.

E’ diffusa opinione secondo cui i veri problemi della grave crisi in atto della giustizia in generale e processuale civile in particolare,   non sono teorico-normativi ma ordinamentali e organizzativi. La “Riforma   Cartabia”  rappresenta, un intervento “metagiuridico”,  un  approccio ministeriale eccessivamente burocratico in uno  al “programma Strasburgo” ovvero il  progetto organizzativo di gestione dei processi civili e si contraddistingue in una manifesta  incostituzionalità. “La riforma de qua, infatti non realizza lo scopo che il legislatore si era prefisso, ovvero di ridurne il numero e i tempi di svolgimento del processo stesso, ma, nell’introdurre un sistema di decadenze e preclusioni, riduce il diritto di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione e di rimando amplifica a dismisura il potere discrezionale del giudice comportando di fatto uno sbilanciamento  delle posizione in campo e in aperta violazione dell’art. 111 della  Carta Costituzionale ovvero di un “giusto processo regolato dalla legge”, di svolgimento del processo “nel contraddittorio delle parti in condizioni di parità”, di “giudice terzo ed imparziale”, di sua ragionevole durata .Giusto processo è stato anche interpretato come sinonimo di processo corretto.  Ogni legge processuale deve rappresentare il punto di equilibrio fra due esigenze che in ogni campo dell’attività umana assai volte si trovano in conflitto, il presto e il bene: l’esigenza di una decisione pronta, e l’esigenza, spesso contrastante, di una decisione giusta. Tra queste due esigenze, la concezione pubblicistica del processo porta naturalmente a dare la prevalenza alla seconda.  e più appropriate modalità La riduzione dei termini processuali dati alle parti per il deposito delle memorie integrative e per gli atti conclusivi del giudizio ordinario di primo grado,   determina  non poche difficoltà a noi Avvocati  nella completa stesura delle difese. E’ a tutti noto che la speditezza dei giudizi non dipende tanto dalla maggior o minor lunghezza dei termini processuali assegnati alle parti per il compimento degli atti, ma dalla distanza temporale intercorrente fra una udienza del giudizio e quella successiva; distanza che consegue al maggior o minor intasamento dell’agenda del giudice. La “ Riforma”  di fatto  rovescia sulle parti e sui difensori problemi che attengono invece all’organizzazione interna degli uffici giudiziari, e che dovrebbero dunque essere risolti e più appropriate modalità con altre. La riforma della giustizia civile non la si realizza ,prevedendo e rafforzando strumenti alternativi al processo, ponendo in essere una sorta di “giurisdizione volontaria” o addirittura una rinuncia alla giurisdizione o intervenendo con   modifiche tecniche di natura procedurale, ma la si realizza efficacemente   intervenendo precipuamente sulle  questioni strutturali, sui i  mezzi. sulla   organizzazione. La riforma  deve riguardare e prevedere congrue e adeguate  risorse umane e tecniche necessarie affinchè un processo possa celebrarsi nel rispetto delle garanzie costituzionali . Il cittadino che entra in un tribunale ha diritto di sapere quali sono le regole con le quali viene giudicato, e questo è quello che prevede la stessa nostra carta costituzionale, laddove sancisce che il processo deve essere regolato dalla legge, e che tutti devono essere trattati allo stesso modo, con garanzie di contraddittorio e difesa predeterminate e non riconosciute fattispecie per fattispecie, e se del caso, dal giudice (artt. 3, 24 e 111 Cost.).

Una “riforma epocale” si ebbe con la  legge n. 353 del 1990 alla quale si giunge dopo un grande lavorio di progetti: innanzitutto il c.d. progetto Rognoni di riforma urgente del processo civile 9, poi il c.d. «progetto Vassalli» che anticipa in molte soluzioni quella che sara’ la legge n. 353/90 10. Scrive la Relazione alla legge, firmata dai senatori Acone e Lipari: «Le preclusioni – si legge nella Risoluzione del Consiglio superiore della magistratura – servono non soltanto a far presto, ma a far bene (…). Il processo stesso educa o diseduca. Diseduca quando, per avere un oggetto mutevole, sempre suscettibile di variazioni e sorprese, solo in apparenza funzionali al concetto di difesa, tanto le parti, quanto il giudice finiscono per essere travolti da un meccanismo di deresponsabilizzazione, nel quale si impoveriscono le nozioni stesse di difesa e di contraddittorio. Mentre educa quando, mirando a conseguire, attraverso una articolata fase iniziale, un suo oggetto responsabilmente definito, si puo` parlare di esso come di un progetto razionale, realmente costruito sul contraddittorio delle parti e realmente funzionale al corretto dispiegarsi dei poteri direttivi del giudice». Si realizzò di fatto una ’impostazione in chiave «educativa » della dimensione processuale . La cultura delle preclusioni diventa un criterio costitutivo del procedere; la giurisprudenza la adotta subito e volentieri. Ne fara` un totem negli anni a venire e oggi lo stiamo pagando caramente a discapito dei diritti riconosciuti dalla carta Costituzionale in primo luogo il diritto sacrosanto alla difesa di cui all’ art. 24 della Costituzione.

L’ “infamia” della riforma sostiene il Prof. Andrea Proto Pisani è la previsione del nuovo grado di Appello. Si pensi all’uso in più parti della riforma della espressione che i fatti indicati negli atti devono essere esposti “in modo chiaro, specifico”, a pena di inammissibilità. Ebbene è stato  rilevato che questa espressione rimette la parte alla piena discrezionalità del giudice, e che attendere che le sezioni unite interpretino in modo ragionevole queste previsioni ,significa pur sempre fare pagare alle parti più deboli la conseguenza della “inammissibilità ad esempio basata su potere discrezionale”.  Eppure, vige un principio di civiltà codificato dall’art.156 c.p.c. che individua nel requisito dello scopo del singolo atto processuale il metro della validità-invalidità del singolo atto del processo, un’apertura indiscriminata alla discrezionalità del giudice è anche de iure condito insostenibile. difficoltà ai difensori nella completa stesura delle difese. Del resto, e per altro verso, è a tutti noto che la speditezza dei giudizi non dipende tanto dalla maggior o minor lunghezza dei termini processuali

Sostiene il Prof. Bruno Sassani in un commento alla Riforma del processo civile : La scienza italiana del processo nasce sotto il segno della riforma. Chiovenda la propugna, ma non introduce il tema in un contesto tranquillo. L’ultimo ventennio ci ha abituati a vederci in una dimensione di perenne work in progress che ha portato progressivamente ad una sorta di Torre di Babele, ma le cose non sono mai state ferme e il moto si e` solo accelerato eundo. E’ bene cominciare a chiedersi seriamente se si possa ancora parlare di «diritto» per il processo civile. Chi pensa ad una esagerazione non ha forse presente la follia della nuova disciplina dell’appello: la gestione del primo grado in tribunale e` sostanzialmente affidata ad un giudice monocratico (troppo spesso professionalmente inadeguato, come l’esperienza dei vari GOA e GOT insegna), senza quindi alcuna possibilità di controllo interno soprattutto quanto all’ammissione delle prove (o comunque alla gestione dell’istruttoria). Niente collegio e niente reclamo sulle prove. In questo scenario non solo si chiude la porta ad ogni istruttoria in appello ma si invita di fatto la Corte d’appello a sbarazzarsi rapidamente delle impugnazioni sulla base di un giudizio di «ragionevole probabilità di accoglimento» cioe` su una suggestione.

Ogni volta che contro le stagnanti solennità del processo ordinario il legislatore ha creduto di porre rimedio col creare per le cause più urgenti uno speciale procedimento abbreviato e concentrato, detto perciò sommario, il costume giudiziario è riuscito in pochi anni a render pigro e solenne questo procedimento nato per esser celere e semplice. È questo un curioso fenomeno che si ripete periodicamente nella storia: il processo sommario, messo a contatto colla pratica, tende a diventare formale, e ad appropriarsi di tutte le lentezze e le complicazioni del processo ordinario»

La miopia del legislatore si rinviene anche nel fatto di aver  concentrato gli interventi riformatori solo sulle regole del processo, senza alcun intervento di riorganizzazione degli uffici giudiziari (ad esclusione del timido intervento attuato con i dd.lgs. 7.9.2012, nn. 155 e 156 sulla parziale riorganizzazione dei tribunali ordinari, delle procure e sulla revisione delle circoscrizioni giudiziarie e degli uffici del giudice di pace). Risulta altresì palese che le numerose riforme processuali attuate difettano di organicità e scontano l’assenza di un disegno generale e omogeneo. Solo all’interno del codice si ritrovano oggi modelli processuali molto diversi fra loro: quello ordinario davanti al tribunale in composizione collegiale, quello ordinario davanti al tribunale in composizione monocratico, il rito del lavoro, il rito locatizio, il rito della separazione, il procedimento davanti al giudice di pace, il procedimento sommario di cognizione, alternativo a quello ordinario davanti al tribunale monocratico, il “processo di classe”. Il novero dei riti aumenta in maniera esponenziale se poi si tiene conto anche della legislazione speciale, a cominciare dal d.lgs. 1.9.2011, n. 150, pubblicizzato come decreto sulla riduzione e semplificazione dei riti speciale, ma che, nella realtà, ha introdotto nuovi riti speciali Al fondo di tutti questi interventi non può non evidenziarsi l’assenza di una visione unitaria su quale debba essere nel nostro sistema il modello processuale di riferimento preferito dal legislatore. Al contrario, si ritiene oggi che tutto debba passare attraverso il potere discrezionale del giudice, si ritiene debba essere il giudice l’artefice delle norme processuali, e si ritiene altresì che oggetto del processo, in massima parte, non siano i diritti soggettivi dei litiganti ma la volontà oggettiva delle leggi. In ogni caso va riaffermato che il processo civile serve per l’attuazione dei diritti soggettivi delle parti, non altro, e che tutto ciò deve avvenire sì con regole predeterminate, ma in seno a principi di libertà.

Anche nell’ambito penale si verifica lo stesso effetto come giustamente ed adeguatamente sostiene   Cecchino Cacciatore , Eminente avvocato Penalista del Foro Salernitano: “La riforma Cartabia poggia su un assioma ormai evidente a tutti: la difesa ed il difensore sono nemici dell’efficienza e vanno, di conseguenza limitati, facendo ricorso allo strumento da tempo sperimentato in giurisprudenza . Oneri del tutto ingiustificati, termini giugulatori, decadenze, inammissibilità” Oggi l’avvocatura è rimasta silente, inerme, di fronte gli innumerevoli interventi legislativi che hanno dilaniato il codice di procedura civile senza ottenere il risultato prefissato, ridurre i tempi del processo, ma mettendo in pericolo i diritti delle parti, ovvero dei cittadini. In una logica di sbilanciamento dei rapporti che sempre si erano invece dati nella giustizia civile, le riforme degli ultimi venti anni hanno trasformato la natura del processo civile e condivido in pieno, ancora una volta, l’auspicio espresso dal Collega Cecchino Cacciatore quando esorta l’avvocatura a far presto:” ha l’obbligo (l’Avvocatura) di opporsi a questa deriva, chiedere una profonda revisione dell’impianto ideologico della riforma, assumendo la difesa nella causa  piu importante: difendere la Costituzione.”

 

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