TANGENTOPOLI: 10 maggio 1993, Alberto Schiavo, l’uomo che cambiò la storia di tangentopoli

 

Aldo Bianchini

Il compianto imprenditore Alberto Schiavo in una foto d'archivio

SALERNO – Nel precedente capitolo di questa lunga narrazione abbiamo visto come la strategia investigativa-innovativa e tecnologica messa in piedi dal procuratore capo di Sala Consilina (Domenico Santacroce) avesse dato ottimi risultati operativi nella giornata di sabato 8 maggio 1993 con le confidenze dell’imprenditore Vincenzo Ritonnaro che aveva parlato di tutti e di più; e aveva parlato tra gli altri, ovviamente, anche del grosso imprenditore vallese Alberto Schiavo molto vicino a Gaspare Russo.

La matassa raccolta con le microspie da Santacroce diventa sempre più intrecciata e la strategia va avanti senza sosta in quel mese di maggio del ’93.

 

Il racconto del giorno 10 maggio 1993

Sebbene il caldo stia incominciando a portare tutti verso la furiosa e bollente estate giudiziaria del 1993, la giornata o meglio il primo pomeriggio di lunedì 10 maggio 1993 fu drammaticamente glaciale per Alberto Schiavo seduto, in una stanza al terzo piano del palazzo di giustizia di Sala Consilina, di fronte ai magistrati Domenico Santacroce (capo della Procura di Sala Consilina), Vito Di Nicola – Luigi D’Alessio – Antonio Scarpa (tutti e tre p.m. presso la Procura di Salerno); presenti il capitano dei ROS Domenico Martucci ed un funzionario per la redazione del verbale di interrogatorio. Insomma la squadra che due giorni prima, sabato 8 maggio, aveva registrato le soffiate dell’imprenditore delle tubazioni.

Schiavo si trova lì su specifico ordine di comparizione; a scaraventarlo letteralmente su quella sedia ci hanno pensato: il suo uomo di fiducia Mario La Gloria (fratello del socialista-contiano Antonio eletto deputato nel ’92) con una storia di donnine e di false fatturazioni; le le travolgenti rivelazioni fatte due giorni prima da Vincenzo Ritonnaro d registrate abilmente dagli uomini della Guardia di Finanza agli ordini del procuratore capo e dei tre sostituti; le lunghe dichiarazioni del pentito di camorra Pinuccio Cillari (e non solo) sui rapporti incestuosi tra politica – imprenditoria e malavita organizzata.

Nell’ascensore del tribunale, che conduce dal piano terra al terzo piano, Schiavo non ha scambiato neppure una parola con il suo legale avv. Fusco (napoletano e già magistrato); i due non sanno che i magistrati hanno nei loro faldoni materiale sufficiente per far esplodere una bomba giudiziaria. Questo Schiavo non lo sa ed alle prime generiche contestazioni degli inquirenti incomincia subito a sbandare paurosamente; capisce che l’inchiesta è ad una svolta e che non può arrampicarsi sugli specchi ma cerca comunque di resistere.

Ed ecco il colpo di scena; il capitano Martucci alza la cornetta del telefono posto sulla scrivania di Santacroce e compone un numero; breve lo scambio di convenevoli, poi porge il telefono a Schiavo dicendo che chiamano da casa sua a Vallo; preoccupatissimo il vallese risponde con un laconico “pronto”; dall’altro capo della linea un voce gelida: “Sono il colonnello del comando provinciale della Guardia di Finanza di Salerno, stia tranquillo siamo in casa sua per una perquisizione, i suoi familiari sono al sicuro”.

La trovata all’americana del procuratore capo Domenico Santacroce manda subito in tilt il pur resistente Alberto Schiavo che si isola mentalmente da tutto il resto e rimane in silenzio. Santacroce, per chi ancora non lo sapesse, fu un vero pioniere nelle investigazioni all’americana con l’utilizzo di mezzi elettronici per spiare gli indagati; il “caso Ritonnaro” (di cui ho già scritto) fece la storia delle microspie utilizzate a fini giudiziari.

Prima di andare avanti è necessario precisare che l’imprenditore Alberto Schiavo di Vallo della Lucania negli anni 80-90 era a capo di una delle poche imprese capaci di progettare ed eseguire lavori, in Italia e all’estero, di grosso interesse pubblico; molto ramificati i suoi rapporti con la politica e con la magistratura ma anche con il sottobosco malavitoso campano per poter lavorare meglio e più veloce degli altri e per potersi imporre sotto il profilo della professionalità dei suoi addetti (circa un centinaio tra tecnici e amministrativi, per non citare le centinaia di operai che alle sue dipendenze ebbero modo di crearsi famiglie assicurando anche ai figli un futuro) in un mondo in cui, senza conoscenze particolari  allora come ora è impossibile lavorare con tranquillità.

Era molto legato al carro di Gaspare Russo che conduceva direttamente verso le segrete alcove di Nusco, insieme a quasi tutti i grossi imprenditori salernitani dell’epoca. E il suo improvviso spostamento dalle beghe politiche fino all’interno delle Procure della Repubblica segnò, probabilmente, la fine di quell’alleanza politica-imprenditoria (con intromissioni della malavita ?) presente e molto produttiva prima dello scoppio di tangentopoli.

Negli ultimi anni la sua impresa, transitata nelle mani dei figli sotto la denominazione di “Schiavo & C. s.p.a.”, si è ingrandita ancora di più e tra i tanti importanti lavori pubblici ha realizzato anche il raddoppio di vari tratti dell’ A/2, tra cui quello compreso tra Eboli e Campagna ove ha introdotto la novità del “tombino a spinta” per creare il sottopasso della ferrovia Eboli-Sicignano senza interruzione del traffico sia stradale che veicolare. La stessa tecnica è stata utilizzata qualche anno dopo per il sottopasso ferroviario per lo sfocio della Lungoirno verso il mare nei pressi del Grand Hotel.

  • Ho conosciuto direttamente Alberto Schiavo nella seconda metà degli anni ’80; io come ispettore degli infortuni sul lavoro e lui come titolare della sua impresa. I primi rapporti non furono idilliaci, poi capì che doveva accettare il corposo verbale che redassi alla fine del lungo ed articolato controllo (alcune centinaia di milioni di lire di retribuzione non assoggettata a contribuzione previdenziale, su cui dover pagare i premi assicurativi e relative penali); anzi, caso quasi unico, intese addirittura firmarlo precludendosi ogni eventuale contestazione. Alla fine mi invitò, insieme al mio collega Guido Pizzaleo, a pranzo a casa sua a Vallo della Lucania perché voleva presentarmi sua moglie ed i suoi figli per far loro capire che anche in quel periodo c’erano funzionari pubblici che facevano comunque il proprio dovere. E fu un pranzo piacevole, la signora Soffritti (sua moglie) fu molto ospitale e i suoi due figli maschi, allora ancora giovanissimi ed oggi imprenditori a livello internazionale, seduti attenti intorno al tavolo a seguire le nostre discussioni da adulti. Negli anni di tangentopoli, ma anche dopo, l’ho reincontrato spesso sia nei suoi uffici vallesi che a Salerno. Con il senno di poi posso tranquillamente affermare che Alberto Schiavo fu una delle vittime sacrificali di quel sistema che schiacciava tutto e tutti. In occasione del pranzo Alberto Sciavo invitò sia me che il collega (con le famiglie) a trascorrere un fine settimana nell’albergo di famiglia “Hotel – Residence – L’Ancora” di Acciaroli. Declinai garbatamente l’invito anche perché presumibilmente sarei ndato oltre l’aspetto lavorativo che mi aveva portato al pranzo.  In quel momento non sapevo che in quell’hotel  sarebbero affluiti, qualche tempo dopo, i grandi magistrati di Milano (quelli del “pool mani pulite”) coordinati  dal pm antiterrorismo Ferdinando Pomarici che era sposato con una donna di Acciaroli )divenuta direttrice regionale dell’INAIL della Lombardia) ed aveva casa proprio in quel luogo dorato. Ed agli inizi di egli anni ’90 in  quell’hotel ci furono anche incontri di lavoro tra magistrati milanesi e salernitani per quella che sarà la “battaglia di tangentopoli”.

 

Ma torniamo a quella fredda stanza al terzo piano del Tribunale di Sala Consilina nel pomeriggio del 10 maggio 1993; il capitano Martucci ha da pochi secondi posato il ricevitore del telefono quando Schiavo, quasi tirando un sospiro di sollievo, poggiò i gomiti sulla scrivania del procuratore capo e incominciò: “Dottor Santacroce, eccomi qua, sono pronto, mi avete convinto che la legalità sta dalla vostra parte. Sono stufo di questi ricatti politici, vi racconterò cosa è accaduto per la costruzione degli alloggi di Sant’Eustachio a Salerno che è, per eccellenza, lo schema dei rapporti tra imprenditoria e politica, senza escludere l’intromissione di interferenze malavitose come minaccia continua per i nostri cantieri. Possiamo iniziare”; partì cosi la valanga di accuse contro il sistema di potere politico che all’epoca più di qualcuno volle accreditare soltanto al Partito Socialista, mentre invece tutti ben sapevano che erano compromessi almeno tutti i partiti dell’arco costituzionale che governavano l’Italia fin dalla fine del fascismo.

 

Gli alloggi di Sant’Eustachio

I quattro magistrati (Santacroce, D`Alessio, Di Nicola e Scarpa), presenti nella stanza sita al terzo piano del Palazzo di Giustizia di Sala Consilina, d`improvviso diventano più seri e attenti; Alberto Schiavo è crollato e sta per incominciare il suo inquietante racconto; in ballo c`è la posizione giudiziaria di Conte, Del Mese e di Gaspare Russo, ma anche di tanti amministratori pubblici locali con i quali Schiavo ha realizzato delle opere.  E Schiavo racconta che:

“””… il Consiglio Comunale di Salerno il 23 dicembre ‘83 provvede all’approvazione del programma di intervento di edilizia residenziale pubblica ai sensi della Legge 11.94 del 25-5-82 finalizzato alla realizzazione di 184 alloggi in località Sant`Eustachio“.

Il 12 gennaio ‘87 la giunta comunale affida all’ATI con capofila la “Schiavo & C. spa” l‘esecuzione del programma edilizio in questione. L`Associazione Temporanea di Imprese (ATI) è costituita da: Schiavo & C. spa., Gerardo Satriano, Giovanni Ugatti, Ritonnaro Tubazioni srl, Itaci spa, Salp srl, SO.GE.CO srl. e CCC (Consorzio Cooperative Costruzioni ); di tutto e di più. Il 9 febbraio ‘88 viene stipulata la convenzione tra Comune e Ati per un imporlo iniziale di 13 miliardi; il 18 febbraio ‘88, invece, le imprese facenti capo all`ATI formalizzano il disciplinare dei rapporti interni soprattutto in merito alle spese di sponsoraggio da attribuire all’impresa capo-fila.

Schiavo continua: “Subito dopo la deliberazione del Comune di Salerno di affidamento all‘ATI, capeggiata dalla Schiavo, fui convocato da un esponente politico e cioè da Gaspare Russo. Il Russo mi convocò, se ben ricordo, tra il gennaio ed il febbraio del 1987 presso la sua abitazione di Via San Giovanni Bosco. Mi disse che avendo acquisito la commessa dovevo provvedere al versamento di una somma di danaro, altrimenti la delibera non sarebbe stata approvata dal Coreco. Io rimasi stupefatto da tale richiesta e cercai di spiegargli che i lavori non erano remunerativi. Nondimeno il Russo mi disse espressamente che i partiti avevano bisogno di denaro affermando testualmente <Cosa credi che i partiti vivono di acqua fresca ?>. In pratica mi disse che dovevo corrispondere l’ 1%  sull`importo complessivo dei lavori; un terzo a lui, un terzo a Paolo Del Mese ed un terzo a Carmelo Conte. Presi tempo e dissi che dovevo parlarne con i miei partners“.

L’interrogatorio di Schiavo continua e tra incertezze, inconcludenze e lunghe pause; descrive le modalità con le quali gli associati all‘Ati gli consegnano i soldi.

L’importo dell’anticipazione fu accreditato sulla Banca Nazionale dell‘Agricoltura di Salerno ed io bonificai, sui conti correnti che i miei associati mi avevano segnalato, le somme che erano loro dovute per propria parte. Essi successivamente hanno prelevato dai propri conti le somme che mi hanno consegnato in contanti per il pagamento della tangente. Dovendo pagare circa l`l%, le imprese operative e precisamente Ugatti, Satriano e Vitale si accollarono anche le quote delle imprese non operative e cioè Schiavo e Ritonnaro; pertanto versarono ciascuno 40 milioni, mentre la Salp pagò 34 milioni. Mano a mano che percepivo gli importi provvedevo a depositarli nella cassetta di sicurezza che io avevo presso l’hotel Jolly di Salerno in attesa di raccogliere l`intera somma da portare ai tre politici e cioè Russo, Del Mese e Conte”.

Il 5 marzo ‘88 il Coreco approva la convenzione stipulata tra il Comune di Salerno e l`Ati di Schiavo; questo fatto convince Schiavo della bontà delle dichiarazioni di Gaspare Russo e, una volta raccolto il danaro, si accinge ad eseguire la strana e poco credibile consegna.

Mi recai, come ho già detto, prima a casa dell‘onorevole Russo al quale consegnai personalmente nella sua abitazione di Via S. Giovanni Bosco un terzo della somma da me raccolta, circa 48 milioni, racchiusa in una busta che mi ero fatta dare proprio presso l’hotel Jolly. La consegna a Del Mese e Conte avvenne nelle rispettive sedi delle segreterie politiche, non ricordo se nello stesso giorno o se nei giorni immediatamente successivi. Allorchè portai la somma a Del Mese, ricordo che nel corridoio c’era l’avvocato Florimonte che io conoscevo e salutai; ovviamente a lui non parlai dello scopo della mia visita. Del Mese mi fece entrare nella sua stanza e prese la busta che io gli consegnai dicendogli che erano i soldi delle case di Sant’Eustachio, cosi come mi aveva indicato Gaspare Russo. Del Mese mostrò di conoscere la cosa e ritirò il plico. Subito dopo andai via e mi recai nella segreteria dell`onorevole Carmelo Conte. Avevo con me una borsa. L’onorevole stava parlando con una persona ed appena mi vide mi fece accomodare in un`altra stanza già sapendo evidentemente il motivo della mia visita. Prese la busta che io gli porgevo e subito dopo mi licenziò”.

L’accusa di Alberto Schiavo è delle più infamanti; i due Parlamentari pagano fino in fondo tutte le conseguenze del caso; sono però coperti dall’immunità parlamentare e quindi per loro l’iter giudiziario sarà lungo e difficoltoso (ma questo lo vedremo nei successivi capitoli della storia).

Ci vogliono però due anni per i primi faccia a faccia all’americana tra Schiavo, Conte e Del Mese; Russo è già in vacanza a Parigi.

Nei primi giorni dell’aprile del ‘95 Paolo Del Mese e Alberto Schiavo si trovano seduti l’uno di fronte all’altro nella stessa stanza della Procura di Salerno; quattro ore dura l’intenso e drammatico confronto nel corso del quale Del Mese rintuzza aspramente tutte le accuse di Schiavo che tentenna, vacilla e cade in numerose contraddizioni; l’imprenditore non riesce a ricordare la disposizione topografica dello studio del deputato, confonde almeno otto volte la data della consegna del danaro sporco. lnfine balbetta e si arrende.

Poche ore dopo, sulla stessa sedia di Del Mese, si siede Carmelo Conte; il confronto con Schiavo è, se possibile, ancora più drammatico del precedente. L’imprenditore, a specifica domanda, rammenta la data precisa in cui ha consegnato la busta con i soldi all`ex ministro. Secca la risposta di Conte: “Quel giorno e a quell’ora viaggiavo da Roma verso Salerno con la scorta per l’inaugurazione della nuova sede della Cassa di Risparmio. Dopo l’inaugurazione sono ripartito per Roma sempre con la scorta e senza passare per la segreteria politica di Via Manzo.” L’imprenditore comincia a farfugliare e si arena miseramente. Per entrambi gli ex Parlamentari, dopo i confronti, partono le richieste di archiviazione; ma il GIP non ci stà e, tra forzature procedurali, ordina l’individuazione e la contestazione dei capi d‘accusa; colpa probabilmente della latitanza di Gaspare Russo.

Eclatante la prima dichiarazione di Schiavo nel dibattimento: “I soldi che ho dato non  erano tangenti ma soltanto contributi elettorali ai partiti” e poi una serie infinita di “non  ricordo“.

Certo che, dopo sette anni dagli eventi, l`accertamento della verità diventa davvero problematico, anche perché i fatti nel corso del tempo mutano ed assumono sembianze diverse, a seconda l’angolazione da cui li si vuole guardare.

NOTA: Quel processo, come tanti altri processi, dopo numerosi rinvii, si è concluso alcuni anni dopo con la formula assolutoria che “il fatto non sussiste”.

 

Ma la scena, a Sala Consilina, non si è ancora chiusa; Schiavo ha finito di parlare, beve un sorso d’acqua da un bicchiere passatogli dal solerte funzionario e poi con un’attenta gestualità lenta e misurata, incomincia ad aprire la borsa che ha portato con se; tira fuori un corposo faldone e, tra la sorpresa generale, dice: “Signori magistrati a conferma del fatto che sono una vittima e non un carnefice  Vi consegno un dettagliato elenco con oltre mille nomi di gente verso cui sono stato costretto a versare delle tangenti in nero; l’elenco è accompagnato da varie pezze di appoggio e dalla dichiarazione dell’Agenzia delle Entrate attestante che quelle somme sono state, anche se con molto ritardo, assoggettate a regolare tassazione”.

E’ manna dal cielo per i magistrati che non credono ai loro occhi; finalmente il sistema è smascherato (pensano ingenuamente !!) e vogliono subito partire all’attacco; la seraficità di Santacroce “don Mimì” prevale ancora una volta, li ferma, devono saper aspettare, fra qualche giorno ci sarà a Salerno il Consiglio Comunale che dovrà eleggere il nuovo sindaco, un momento decisivo per le sorti della città.

La consegna dell’elenco lo salva, probabilmente, da quell’arresto che sembrava imminente; accadrà, invece, la mattina del 5 dicembre 1993 proprio quando a Salerno si svolge il ballottaggio tra Pino Acocella e Vincenzo De Luca.

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *