Dr. Michele D’Alessio
(Giornalista – Agronomo)
Cari lettori, oggi vi parleremo di un periodo storico abbastanza lungo e complesso da analizzare, per cui lo divideremo in più articoli che vi porteremo nel corso dei giorni a venire. Per iniziare il nostro discorso potremmo partire dalla tradizione storiografica dell’aristocrazia romana e dai documenti epigrafici esistenti, come il “Lapis Pollae” detto anche “Elogium”, dominante nelle nostre fonti, con la sua polemica contro il tribunato della plebe, che identifica nell’età dei Gracchi l’origine della degenerazione dello Stato romano, non più fondato sulla solidarietà civica e sul rispetto della tradizione, e l’inizio delle guerre civili. Sebbene schematizzare a questo modo potrebbe apparire eccessivo è indubbio che in tale periodo siano venuti a maturazione e in piena evidenza fenomeni e problemi tra loro connessi che affondavano le loro radici negli squilibri creati dall’espansione stessa del dominio romano. Adesso, pero, andiamo per ordine, con l’aiuto del noto Storiografo e scrittore dottore Vitantonio Capozzi di Polla, proveremo ad inoltrarci nel labirinto della storia dell’Impero Romano, tendando, anche noi, di dare qualche risposta ai tanti misteri e dubbi che ancora si cela dietro la Storia Romana. Sentiamo il dottor Capozzi, con i suoi studi cosa porto il dominio romano in Europa, nel mondo e soprattutto nel Vallo di Diano e dintorni. “L’anno 133 a. C. possiamo definirlo cruciale, allorquando, mentre a Roma il tribuno Tiberio Gracco proponeva la lex Sempronia agraria, in Spagna, a Numanzia, cominciava il tragico assedio conclusosi con l’espugnazione della città da parte dell’esercito romano sotto la guida di Scipione Emiliano, nel cui esercito combattevano il giovane Caio Gracco, gli storici Polibio e Sempronio Asellione e importanti personaggi destinati a diventare protagonisti delle successive fasi della politica romana, come Caio Mario e Caio Cecilio Metello Caprarico. In quello stesso anno il senato decideva di trasformare in provincia d’Asia l’antico regno di Pergamo lasciato da Attalo III in eredità ai Quiriti e che proprio da allora ebbe inizio quella che è stata definita la rivoluzione romana, cioè quella crisi di trasformazione che durò circa un secolo, che portò la repubblica aristocratica al tracollo definitivo piegando le istituzioni al servizio di un principe che fu detto imperatore. Poiché questo è uno dei capitoli più drammatici non solo della storia di Roma ma di tutta la storia antica, è necessario abbandonare il racconto delle conquiste esterne per andare a vedere che cosa era accaduto e accadeva all’interno dell’Urbe. Del resto a questo punto nessuno dei paesi del Mediterraneo poteva contestare la supremazia romana. L’impero romano era ormai il semplice corollario di un teorema già risolto da Roma con le vittorie definitive su Cartagine, sulla Macedonia e sulla Siria. Perciò si può dire che di imprevedibile, nel futuro, rimaneva soltanto ciò che potevano fare o non fare i cittadini romani. Bisogna quindi accennare alle mutazioni intervenute nella società italica nei settant’anni circa che separano quella data fatidica dalla sconfitta di Annibale in Africa. La più importante di tutte, quella del diverso rapporto tra senato e assemblee popolari, era maturata anche prima del II secolo, in particolare durante la grande guerra punica. Per la costituzione romana i diritti di legiferare, di dichiarare guerra, di decidere le assegnazioni demaniali spettavano all’assemblea del popolo. E in teoria nessuno li aveva messi in discussione. Di fatto però era accaduto che il senato li avesse usurpato integralmente, salvando appena la faccia, lasciando cioè alle assemblee solo la sanzione formale delle decisioni prese in altra sede. Quando diciamo senato intendiamo dire la dirigenza aristocratica oligarchica che ha costruito e gestito il clamoroso destino di Roma e che si è garantita il potere politico attraverso il monopolio delle magistrature e di conseguenza (considerato che quasi tutti gli ex magistrati entravano in senato) attraverso la maggioranza in quella assemblea.
Dobbiamo osservare che lo straordinario successo, che in parte era stato ottenuto e in parte si profilava, era dovuto ovviamente anche al fortissimo contadiname italico, che aveva fornito le leve alle legioni, ma soprattutto alla classe dirigente aristocratica, la quale, con la sua fedeltà agli interessi della repubblica, con l’abnegazione dimostrata nel servizio di Stato, era riuscita a far coagulare il consenso in tutti gli strati della società romana e a trasformarlo in patriottismo. Ed era questa classe che aveva saputo incanalare l’istinto proprio di una comunità di predatori in una politica estera allo stesso tempo abile, lungimirante e spietata. È una banale notazione moralistica dire che potere e successo corrompono più rapidamente del prevedibile. Ma viene spontaneo di farla nel constatare come, a seguito di tale successo, lo smisurato orgoglio di casta concepito dalla dirigenza romana sia stato ben presto inquinato dall’avidità. Del resto la maggior parte della ricchezza si riversava in tante forme sull’Urbe e in generale sull’Italia. Da qui la convinzione che essa spettasse alle grandi famiglie aristocratiche e all’oligarchia che le rappresentava in senato, cioè a coloro che più di chiunque altro se l’erano meritata. Questa voglia di arricchire aveva impedito di vedere, o per lo meno aveva fatto ignorare, un problema sociale che non era affatto secondario ma incrinava la struttura portante della repubblica e cioè il problema dei piccoli e medi contadini italici, dei coltivatori diretti, comunque si voglia definire quella parte della popolazione che dalla politica imperialistica non solo non aveva ricavato alcun beneficio, come era accaduto per gruppi più fortunati, ma aveva tratto la certezza di non poter più sopravvivere materialmente nelle nuove condizioni economiche determinate da tante guerre. La crisi di questo ceto è uno dei fenomeni più palesi, più macroscopici e anche più misteriosi della storia di Roma del II secolo.” La storia continua nel prossimo articolo…