di Giovanni Lovito
«Quid miserum Aenea, laceras? iam parce sepulto, parce pias scelerare manus […]» («Perché, Enea, un misero strazi? risparmia chi giace, non contaminare le tue pie mani […]» [Aen. III, 41-42].
Sono i versi estratti dal terzo libro dell’Eneide rievocanti la misteriosa figura di Polidoro (principe troiano figlio di Priamo) ucciso a tradimento dal re di Tracia e la cui anima, dopo la morte, s’innestò in uno dei cespi frondosi che custodivano gli spiriti dei trapassati. Dal ramoscello, svelto da Enea per ricoprire l’ara sacrificale, colarono macchie di sangue scuro che inumidirono la terra. L’ambientazione del poeta latino, con relativo prodigio, sarebbe stata rivisitata e rielaborata dall’Alighieri nel canto XIII dell’Inferno in cui a stagliare è l’ombra del cancelliere di Federico II, Pier della Vigna, pronto, nella fosca caligine dell’orrida selva dei suicidi, a redarguire il Sommo Poeta nell’atto di sradicare il ramoscello di un albero contorto. Dalla pianta, come nella selva virgiliana, fuoriescono parole e «sangue bruno»:
«Perché mi schiante»?
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
Ricominciò a dir: «Perché mi scerpi»?
non hai tu spirto di pietà alcuno?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia
se state fossimo anime di serpi» […]. [Inf. XIII, 35-39]
In nova fert animus mutatas dicere formas / Corpora; […]: il concetto fondamentale della mutazione continua e perenne degli elementi (corpora) che compongono l’universo tende a delinearsi chiaramente dall’analisi del primo verso delle Metamorfosi ovidiane. Si tratta di alcuni princìpi generali affermati e – ci sembra lo si debba dire – avallati, oltre che da fonti classiche minori (Siringa trasformata in canneto, Leucotoe in incenso, Narciso, Croco e Smilace convertiti in fiori, come il sangue di Adone, Giacinto e Aiace), alla fine del poema stesso (XV, 143 sgg.) dal discorso pronunciato da Pitagora, con cui il Sulmonese, sulle orme degli scritti di Eraclito (Frammenti) ed Epicuro, prima, di Lucrezio (De rerum natura) dopo, non esita a suffragare l’opinione per cui in natura «tutto si muta, nulla perisce. Libero si muove lo spirito […]. Dai corpi ferini esso trasmigra in corpi umani, così come da noi in quelli ferini […]». Il mutare continuo degli elementi, in ultima analisi, avviene sulla «fluente e perpetua trama del tempo». Le tematiche ovidiane diventano elementi essenziali del pensiero dantesco, con sviluppi e variazioni che, oltre a riproporre il ricchissimo repertorio della tradizione greca e latina [cfr. Met. III, 664-665 e, soprattutto, XV 560 sgg.], fanno da sfondo alla rievocazione storica che prospetta come elemento centrale non solo la figura del giureconsulto capuano, ma, indirettamente, dello stesso Federico II, il pupillo educato e ‘salvato’ dai papi, il «terzo vento di Soave» che accolse presso la sua corte astrologi, giuristi, trovatori e poeti, incrementando la diffusione della letteratura nazionale e facendo del Diritto il baluardo supremo del regno; il tutto mediante l’emanazione di leggi adeguate alla società del tempo (Constitutiones melfitanae). Imperatore di Germania e re di Sicilia, Federico impersonò il «principe della pace, il difensore della justitia, principio di dirittura morale che dovrebbe essere alla base di ogni buon governo»; incarnò, ancora, la figura eloquente del princeps eruditus protettore delle lettere e delle arti, avendo favorito, con il figlio Manfredi, la traduzione di opere di Aristotele e Averroè presso la corte siciliana. Definito dall’Alighieri «chierico grande», il sovrano tedesco fu altresì «nobilissimo signore», nella cui corte «venìa la gente che avea bontade, sonatori, trovatori e belli favellatori»; da cui l’appellativo di siciliani ai più autorevoli rimatori italiani del secolo XIII.
Dell’Imperatore, tuttavia, a cui piacque altresì ornarsi del titolo di vir inquisitor et sapientiae amator, il Sommo Poeta ha lasciato giudizi poco univoci, esaltandolo nel De vulgari eloquentia, sminuendone la figura nel canto X dell’Inferno dove, fra gli eretici, giace ‘silenzioso’ con i «grandi ghibellini» Farinata degli Uberti, Cavalcante e il prelato bolognese Ottaviano degli Ubaldini:
Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è ’l secondo Federico,
e ’l Cardinale; e delli altri mi taccio». [Inf. X, 118-120].
Perché un monarca di tal levatura politica e intellettuale (molto vicino per importanza e lungimiranza politica a Giustiniano), fautore dello sviluppo culturale nonché promotore degli studi ‘primordiali’ sulla lingua e letteratura italiana, viene relegato nell’Inferno dantesco? Per quale motivo, ancora, nel trattato di linguistica storica viene ricordato, con il figlio Manfredi, come uno dei più grandi sovrani, «eroe illustre» e «principe virtuoso», mentre nella Commedia la sua grandezza e il suo pregio storico vengono d’un tratto dimenticati e taciuti? Una spiegazione plausibile, idonea a comprovare, tra l’altro, l’anteriorità (in ordine di tempo) del De vulgari eloquentia rispetto al Poema, potrebbe essere ricercata nel contrasto, religioso e politico, venutosi a creare tra Impero e Papato nel secolo XIII; un conflitto che, già vivo con Innocenzo III, si acuì con i pontefici Gregorio IX (1227-1241), Innocenzo IV (1243-1254) e, successivamente, con Bonifacio VIII (1294-1303), in concomitanza con la divulgazione di alcune dottrine eterodosse all’interno della corte siciliana. Cinquant’anni dopo la morte dell’Imperatore, l’Alighieri componeva i canti X e XIII dell’Inferno, confutando (anche se solo parzialmente) quanto asserito nel De vulgari eloquentia e biasimando il sovrano che se da un lato era stato il «seguace della virtus», l’amico della pace, il «patrono della carità» e il fondatore del «primo Stato moderno» in Europa, dall’altro s’era rivelato il supremo nemico della cristianità. Un’indole, questa, che influenzò sicuramente Pier della Vigna, anch’egli orientato a deridere con sarcasmo la Curia romana e quegli ordini religiosi usurpatori, con la complicità di Gregorio IX, degli «iura parrocchialia» e dei beni ecclesiastici; il tutto sostenendo e incentivando, in ogni ramo della pubblica amministrazione, l’azione politica e culturale dell’Imperatore tedesco:
Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e disserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi:
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e’ polsi. [Inf. XIII, 58-63].
Alla luce di alcune notizie tramandate nel corso dei secoli, pochi anni prima di passare a miglior vita il della Vigna sarebbe rimasto vittima di un increscioso evento che avrebbe segnato profondamente la sua esistenza: venne accusato di aver attentato alla religione cristiana, avendo asserito, sulle orme di un dilagante averroismo, che Mosè, Maometto e Cristo erano stati «ingannatori e seduttori di popoli». Consideriamo, a tal proposito, alcune testimonianze estratte da uno studio accurato e approfondito portato avanti dal filologo Filomneste Juniore (Filomnesto il Giovane):
«Si pose in campo il nome dell’imperator Federico II, morto nel 1250, fondandosi sulla imputazione di Gregorio IX che accusava questo monarca d’aver sostenuto che tre impostori abusarono successivamente della credulità del genere umano. Si pretendeva che l’opera non l’avesse mica scritta lo stesso imperatore, ma il suo cancelliere Pier delle Vigne».
Fondandosi sull’epistola di papa Gregorio IX, la notizia di un ‘libro proibito’ attribuito a Federico II, il De tribus impostoribus, sarebbe circolata negli ambienti ecclesiastici e letterari in quel periodo in cui il Sommo Poeta, sulle orme dell’opera ‘prima’ virgiliana, si accingeva a redigere i canti X e XIII dell’inferno, concettualmente disposti all’interno del Poema:
«La meretrice che mai dall’ospizio
di Cesare non torse gli occhi putti,
morte comune, delle corti vizio,
infiammò contra me li animi tutti;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
che’ lieti onor tornaro intristi lutti.
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto». [Inf. XIII, 64-72]
Stando alle opinioni del Rondoni, Pier della Vigna si sarebbe suicidato nella Rocca di San Miniato al Tedesco o, cosa ancor più plausibile, sarebbe morto per abbacinamento nella stessa fortezza già esistente al tempo di Ottone I: il logoteta di Federico fu assalito dalla disperazione, ma anelò al «sereno morire» sulle orme di quel «veglio solo / degno di tanta reverenza in vista / che più non dee a padre alcun figliuolo», Catone Uticense, che Dio volle salvare per la sua grande virtù e il cui suicidio divenne un vero e proprio sacrificio per la conquista della libertà morale. Cosciente della perduta autorità e consapevole di essere stato abbandonato non solo da «avversari invidiosi», ma soprattutto da quel sovrano di cui un tempo aveva tenuto «ambo le chiavi del cor», un uomo di tal prestigio letterario e giuridico, assertore convinto dei princìpi fondamentali della libertà umana, al termine dei suoi giorni faceva la sua scelta drastica, consapevole di essere stato annoverato tra i fautori delle numerose eresie diffuse nella corte federiciana. Quanto a Federico II, per l’Alighieri aveva rappresentato certamente la figura del principe autorevole ed erudito, ma apparve altresì quale sovrano eretico e miscredente, indegno di essere collocato, alla stregua di Traiano o del ‘convertito’ Giustiniano dinanzi alla benemerita persona del «benedetto Agapito», tra i beati della terza cantica. C’è di più. La notizia di un libro ereticale circolato all’interno della corte siciliana confuterebbe per intero le diverse opinioni (tra cui quella inerente all’amore furtivo nato tra il giurista capuano e la consorte dell’imperatore) con cui alcuni critici, negli anni addietro, hanno tentato di motivare la diatriba sorta tra il sovrano tedesco e il suo cancelliere. Che Dante, in primis, abbia voluto condannare il vizio dell’invidia in quanto sentimento vergognoso e riprovevole è cosa risaputa; ciò, tuttavia, non deve distogliere l’attenzione da un altro punto essenziale: a Pier della Vigna non venne mai perdonato il peccato di ‘eresia’, per cui se da un lato con la perifrasi dei vv. 58-59 si manifesta ai poeti come l’uomo di corte perseguitato e vinto dalla «meretrice che mai dall’ospizio / di Cesare non torse gli occhi putti», dall’altro, non va sottaciuto che la sua figura diventa altresì il pretesto assoluto per la rievocazione e la successiva condanna di quell’Imperatore che era stato il probabile ideatore di un trattato poco fedele ai princìpi cardini della cristianità.
Risulta facilmente intuibile, allora, perché nel canto X, come dinanzi agli ‘ignavi’ del Vestibolo, il Poeta non «vuol più ragionar» di un sovrano che aveva fatto di Cristo un «ingannatore» e «seduttore» di popoli, celandosi (questo fu l’atto più grave!) dietro al suo funzionario e declinando sul medesimo ogni responsabilità nel momento in cui sull’intero regno stava per abbattersi la furia ecclesiastica e un pur latente dissenso popolare. Annoverato fra i seguaci più convinti dell’aristotelismo laico e di Averroè, nel 1250 il «terzo vento di Soave» passava a miglior vita. Gli succedeva il figlio Manfredi, nipote di Costanza Imperatrice, re di Puglia e di Sicilia, sconfitto e ucciso dall’esercito di Carlo I d’Angiò nei pressi di Benevento il 25 febbraio del 1266. Il successore di Federico che, piangendo, si rese a «Quei che volentier perdona», sarà immortalato nell’Antipurgatorio, tra i contumaci, in un canto profondamente improntato come i precedenti sul conflitto tra Papato e ‘Impero’, nella prospettiva storico-ideologica della separazione dei poteri che, a partire dalla lotta per le investiture, aveva caratterizzato profondamente la vita politica e religiosa del Basso Medioevo. Si tratta dell’incipit di una cantica in cui è ancora vivo il ricordo del suicida posto (a differenza di Pier della Vigna) a guardia del regno, Catone Uticense Minor: un pagano simbolo (come il capuano) della «libertà»; ma, al tempo stesso, un oppositore di «Cesare» e di quell’Impero tanto celebrato e decantato dal Sommo Poeta in alcuni scritti che, ancora oggi, costituiscono il faro supremo per lo sviluppo politico e culturale della Nazione.