SALERNO – Nella precedente puntata di questa storia ho parlato di un personaggio fuori dal comune, Roberto Procida, temibile camorrista della Piana del Sele e presunto braccio destro di Giovanni Marrandino ma forse direttamente collegato come “elemento operativo” alla NCO di Raffaele Cutolo. Questo è un elemento che non può essere trascurato nella prosecuzione del racconto che rimane un racconto giornalistico senza eccessive pretese, anche se incardinato su fatti e circostanze ufficiali e conclamate da tantissime inchieste giudiziarie ufficiali. Siamo a metà degli anni ’70 e i nomi importanti di camorra sono già tutti noti: Marrandino, Pepe, Pecoraro, Carfagna, Cioffi, Ciardi, Panella, Grimaldi (questi ultimi due su Salerno città), Cillari, Scarpa, Di Maio, Saccone, Petrosino-D’Auria, Serra, Maiale ecc. per la zona salernitana; poco più in là, nel resto della regione, operano Cutolo, Alfieri, Galasso, Perna, Cesarano, Durantino, Autorino, Colangelo, Casillo ecc. La grande camorra, cristallizzata nella NCO di Cutolo, si sta sfaldano e le battaglie intestine incominciano a lievitare anche se troveranno lo sbocco micidiale negli anni ’80; sulla scena sta per arrivare la “Nuova Famiglia” con i Nuvoletta, i Bardellino, i Zazza, i Nigro, ecc. Tutti questi nomi trovano un giusto posizionamento anche nelle relazioni prefettizie che affluiscono al Ministero degli Interni che le cataloga in vari “atti parlamentari” ufficiali ed inattaccabili. Manca, però, un cervello pensante e capace di districarsi nei meandri dell’imprenditoria e dell’alta finanza, e in grado soprattutto di mettere d’accordo tutti i capi camorristi; del resto i nomi indicati appartengono a personaggi che oltre “l’uso della forza e della pistola” non sanno andare; difatti quasi tutti vengono, nel corso degli anni ’80 passati per le armi. E allora perché non trascinare in questo gorgo infinito proprio l’uomo che in quegli anni si sta mettendo in evidenza in maniera travolgente sia nell’imprenditoria che nella finanza e che per evidenti ed inevitabili ragioni di “logica e giusta progressione economico-imprenditoriale-finanziaria” rischia di pestare i piedi e/o di portare benefici a tutti gli uomini di malaffare che non sanno vedere al di là del loro naso. Questo, probabilmente, è il teorema che matura all’interno della Procura della Repubblica di Salerno che proprio in quegli anni si va attrezzando per combattere il “fenomeno malavitoso” salernitano. Insomma, come diceva Giulio Andreotti, si è prima formata la convinzione e poi si è andati alla ricerca delle prove. Il personaggio è lì, in prima fila, a metà strada tra il potere politico e quello malavitoso, è già chiacchierato, basta una piccola spinta per buttarlo giù dall’altare. Cosimo D’Andrea non si accorge di nulla e, inconsapevolmente, si offre in pasto alla magistratura. E’ troppo preso dalla sua verve oratoria, dal suo eccessivo presenzialismo, dal suo modo quasi supponente di trattare la controparte investigativa; non sa, e forse non si rende conto, che tutti gli investigatori con il loro modo quasi timoroso di rivolgergli le domande, con la loro cautela, con la loro discrezione stanno scavando intorno a “Cosimo” una trincea incolmabile ed insuperabile. Il disegno è chiaro, la Procura prende spunto dal “presunto attentato in danno di Roberto Procida” per dare il via alla prima grande operazione di pulizia della Piana del Sele. Finiscono tutti dietro le sbarre, sfugge soltanto Cosimo D’Andrea ben protetto in una villa della penisola sorrentina; le rivelazioni dei presunti pentiti piano piano si sfaldano e D’Andrea ritorna libero e pensante. A quel punto lo frega, purtroppo, la convinzione di essere ormai intoccabilmente al di sopra delle parti e si rilancia, a testa bassa, negli affari e nella finanza. All’inizio degli anni ottanta apre altre attività che spaziano dal settore alimentare ad Avellino e a Capaccio fino a rilevare in Emilia Romagna, a Gambettole, una grossa industria di carni, la Lombardi Spa, prima in società con il facoltoso commendatore Di Lieto, originario di Minori in Costiera Amalfitana già industriale alberghiero e poi da solo dopo aver rotto il sodalizio commerciale rilevando tutte le quote del Di Lieto. Insomma la specialità di D’Andrea era proprio questa: rilevare aziende in crisi a prezzi stracciati, tutto con grande fiuto degli affari, altro che camorra. Le fortune incontrastate di Cosimo D’Andrea vanno avanti per qualche anno, poi d’improvviso un nuovo e più inquietante campanello d’allarme, forse superiore a quello del presunto attentato a Procida. In quel periodo nella zona di Capaccio fu gravemente ferito nella sua Mercedes blindata Giovanni Marrandino e nello stesso attentato fu ucciso il suo guardia spalle tale “Scarpone” (al secolo Massimo Scarpa di Eboli) amico di Giovanni Maiale. I cutoliani della provincia di Salerno incominciano a soffiare vento nelle vele della giustizia e fanno abilmente passare D’Andrea come vero ed unico responsabile e mandante del cruento episodio; secondo i pentiti Cosimo D’Andrea era legato da una forte amicizia con don Lorenzo Nuvoletta di Marano e con Michele Zazza, re del contrabbando. La mossa era semplice, D’Andrea era già da tempo nel mirino, le sue molteplici attività offrivano il fianco a mille sospetti ed indiscrezioni, il gioco era fatto. Nel mese di giugno dell’anno 1982 D’Andrea viene arrestato per il reato di bancarotta fraudolenta (agli inquirenti non mancano le occasioni motivate !!) e viene recluso nel carcere di Avellino per soli quindici giorni su denuncia del Di Lieto (per l’operazione finanziaria della Lombardi spa). Ma “Cosimo” riesce ancora una volta, l’ultima, a ribaltare le accuse che gli venivano mosse dimostrando ai magistrati la sua innocenza, tanto da essere rimesso in libertà, mentre il Di Lieto prende il suo posto nel carcere di Avellino. Alla prossima.