Aldo Bianchini
SALERNO – Due giorni fa ho ricordato a tutti Voi lettori quando e come fu utilizzata la prima microspia nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria nel distretto di Salerno; correva il 1993 e la tangentopoli salernitana era giunta al momento topico, le acque erano state smosse alla grande ma ai giudici inquirenti mancavano le prove decisive. Ebbene l’allora Procuratore della Repubblica di Sala Consilina, dott. Domenico Santacroce detto don Mimì, decise insieme i suoi due pupilli (i magistrati Luigi D’Alessio e Vito Di Nicola) si utilizzare un indagato (Vincenzo Ritonnaro) munito di una microspia mentre incontrava alcuni colleghi imprenditori. E la lasse imprenditoriale dell’epoca crollò.
Mi sembra giusto, ora, riproporre una lunga riflessione su chi è stato “don Mimì” e su come ha fatto il magistrato negli anni difficili della stragi di camorra insanguinarono l’agro sarnese-nocerino e l’intera provincia di Salerno.
“Il giudice è soggetto soltanto alla legge, afferma la nostra Costituzione. A questo principio, tanto apparentemente saldo, mi risultava, in quella notte, fragilissimo. In fondo anche la legge è legata agli stessi sentimenti di approvazione e disapprovazione della massa. Può rimanere scritta, vigente, e quando non sarà più la legge di tutti essa verrà cambiata. Ma, finchè resterà la legge di tutti per qualcuno, il giudice dovrà applicarla ed è qui che nascono i problemi, ed è qui che egli è solo apparentemente libero, specie se il suo modo di sentire non coincide con quello della massa, o, peggio ancora, se la massa è stata manovrata, condizionata e in dot trinata da principi che moralmente non si possono condividere”. Si può sintetizzare in queste poche ma importanti frasi il testamento culturale e professionale di Domenico Santacroce, magistrato di lungo corso; del resto le frasi sono assolutamente sue, vergate sulla contro copertina del suo libro “I miei giorni della camorra” edito da Boccia Editore. Il racconto di una camorra vissuta dalla parte della legge. Una popolazione di personaggi travolti dalla invisibile trama di un dramma comune, analizzato attraverso spunti, considerazioni, esperienze e vicende personali dell’autore. Venerdì sera, 7 dicembre 2012, si era seduto come al solito sulla sua poltrona preferita nel salotto di casa, a Cava de’ Tirreni, alternando uno sguardo alla tv per seguire “Quarto Grado” (una delle sue trasmissioni televisive preferite !!) per non perdere il gusto dell’inchiesta e uno sguardo, forse, alla lettura dei suoi appunti di viaggio. Verso le ore 23.00 gli si avvicina la moglie e lo chiama, non risponde, la moglie si allarma, lo scuote, non da più segni di vita. Accorrono subito i cinque figli. E’ la fine, l’uomo Santacroce non c’è più. E’ andato via come un soffio di vento, a 79 anni compiuti da un pezzo, dopo una vita spesa sempre e comunque al servizio della legge. La sua lunga vita di magistrato, almeno dal punto di vista pubblico, era nata in una stanzetta di pochissimi metri quadrati nelle vecchie carceri di Salerno, nel settembre del 1979, doveva interrogare l’uomo camorrista che negli ultimi mesi aveva inseguito tenacemente con una raffica di provvedimenti restrittivi, Salvatore Serra detto Quartuccio (soprannome paterno che lui aveva trasformato in “Cartuccia” per renderlo più consono alla sua persona ed al suo modo di essere, e perchè suonasse più leggendario); lo aveva intravisto diversi mesi prima quando sotto mentite spoglie si era presentato da solo e senza scorta dinnanzi alla mega-villa di Pagani che Cartuccia si stava facendo edificare. Domenico Santacroce voleva vedere con i propri occhi e toccare con le proprie mani, come facevano i magistrati di un tempo; chiamò a gran voce dall’esterno del cantiere qualcuno che si intravedeva all’interno. Chiese notizie per andare verso Sant’Egidio del Monte Albino, fece finta di non capire e ripropose la domanda. Dall’altro lato della staccionata una voce imponente tuonò: “Int ‘o mazzo ‘e chi t’è muorto !!! … sempre diretto …e quanno t’abbii a na parte guarda ‘e cartielle !!”. Mentre pensava a quanto gli era accaduto qualche mese prima e nell’attesa di trovarselo di fronte gli arrivarono altre voci nella ristretta stanzetta adibita a “sala interrogatori”. “E’ arrivato !”, diceva uno. “Chi ? … ‘a Volpe”, chiedeva un altro alludendo al G.I. Giovanni Volpe. “No … no”, rispondeva quello di prima “E’ don Mimì”. Nasce così, semplicemente, per bocca di alcuni camorristi detenuti nelle vecchie carceri di Salerno, il mito e il soprannome di Domenico Santacroce, “don Mimì”, prima pm, poi giudice istruttore e infine capo della Procura della Repubblica di Sala Consilina per diversi anni. Ma il vociare nel carcere continua: “Già –osserva un terzo- chillo tene chillo piezzo abbascio ‘e celle”. Il pezzo era nientemeno che Salvatore Serra, detto Cartuccia, che il pm Santacroce si apprestava ad interrogare dopo il primo di una lunga serie di arresti. Siamo nel 1979 e la figura del magistrato Domenico Santacroce balza imperiosamente agli onori della cronaca per aver determinato la cattura del boss più potente dell’intero agro nocerino-sarnese. Presto diventa il “giudice anticamorra”, fenomeno che combatte decisamente e che studia fin nei mini dettagli divenendo, presto, un profondo conoscitore di tutti gli intrecci e di tutti gli interessi malavitosi e delle sue ramificazioni nelle istituzioni e nel mondo della politica. Descrive così il camorrista tipo: “Il camorrista, quindi, tende a camuffarsi, a travestirsi da persona perbene e se, percorrendo questa strada, egli ottiene dei successi, diviene irremovibile il suo processo di legittimazione”; in poche parole Santacroce delinea l’immagine del camorrista perfetto. Nei primi anni ’80 gli vengono affidati casi eclatanti: il 2 maggio 80 vengono uccisi i coniugi Luigi Di Lorenzo e la moglie Maria Rosaria Pandolfi, il 16 luglio dello stesso anno cade Antonio Caiazzo (pericoloso pregiudicato), il 29 luglio sempre dell’80 viene ucciso l’avvocato Giorgio Barbarulo e l’ 11 dicembre 1980 è la volta dell’avvocato Marcello Torre che è suo grande amico. Qualche mese prima Torre gli aveva consegnato una lettera riservata che Santacroce ha aperto ovviamente soltanto dopo la barbara uccisione dell’ex sindaco di Pagani, nella lettera Torre avanzava dubbi e sospetti anche verso alcuni compagni di partito, la Democrazia Cristiana. Indaga anche sulla strage camorristica in cui trovano la morte l’avvocato Dino Gassani e il suo segretario Pino Grimaldi, era il 27 marzo 1981 e la Città fu terribilmente scossa dagli eventi malavitosi. Segue attentamente l’omicidio di Massimo Scarpa, detto Scarpone, di Eboli; gli serve per entrare nel tempio dei “venditori di soldi” (la famiglia Marrandino e il deus Cosimo D’Andrea) che abbatte senza pietà e senza guardare in faccia a nessuno. Dal 18 aprile 1982 inizia la sua inchiesta più importante; quel giorno venne ucciso nell’ospedale di Via Vernieri a Salerno il famigerato boss Alfonso Rosanova (il cassiere di don Raffaele) e qualche mese dopo tutto l’incartamento arriva a lui, il giudice istruttore anticamorra. Neri mesi successivi si interessa dell’uccisione di Simonetta Lamberti (figlia del procuratore della repubblica di Sala C., Alfonso), è il giorno 29 maggio 1982. Questi ultimi due casi, insieme all’omicidio di Virginio Colangelo del 9.10.82 (gelido killer del gruppo facente capo a “don Raffaele Cutolo”) danno a Santacroce la possibilità di entrare per la prima volta nel mondo della politica, insomma parte all’attacco del terzo livello e sfida l’allora potentissimo on. Enrico Quaranta, sottosegretario di stato e padre padrone dei socialisti dell’intera provincia di Salerno e non solo. Un pentito di camorra, Aniello Olivieri (fratello del boss Peppe Saccone), racconta di aver sentito da altri camorristi che una sera in una cena particolare c’erano sia Alfonso Rosanova che l’on. Enrico Quaranta; è forse la prima confessione per “de relato” di un potente camorrista che viene puntualmente ucciso la sera del 23 settembre del 1982. Ma Santacroce ha già la dichiarazione, forse confermata da altri, e la inserisce nel contesto dell’ordinanza istruttoria di rinvio a giudizio carico dei presunti assassini di Rosanova. Succede il finimondo. Il sottosegretario di stato, Enrico Quaranta, fa tappezzare l’intera provincia di Salerno con manifesti contro il giudice anticamorra accusandolo di aver estorto artatamente quelle dichiarazioni. Parte l’inchiesta del CSM e Santacroce viene trasferito in Sicilia. Tutto questo consegna, però, nelle mani di Domenico Santacroce un bagaglio informativo e conoscitivo sugli intrecci politica-camorra che nessun altro giudice può vantare e che gli servirà, qualche anno dopo, non solo per dare la caccia ai socialisti ma anche per guidare da vero “padre putativo” la tangentopoli salernitana grazie ai suoi due allievi prediletti: i pm Vito Di Nicola e Luigi D’Alessio. Ritorna presto dalla Sicilia, nell’84 Enrico Quaranta muore prematuramente, e per Santacroce si spalancano le porte della Procura della Repubblica di Sala Consilina che nel frattempo è rimasta orfana di Alfonso Lamberti che dopo l’uccisione della figlia finisce in un mare di guai giudiziari. Dalle stanze della Procura di Sala Consilina “don Mimì” pilota gran parte della tangentopoli salernitana. Prima della tangentopoli, però, arriva un altro successo grazie al capitano dei Carabinieri Domenico Martucci; insieme indagano e individuano il covo dei due camorristi (De Feo e D’Alessio) che il 12 febbraio 1992 avevano ucciso i due Carabinieri (Arena e Pezzuto) a Faiano. La cattura, però, spetta alla Procura di Salerno con il pm Alfredo Greco; nel covo il primo ad entrare è Martucci insieme al luogotenente Gennaro Capparrone. Un bel successo, non c’è che dire. E’ negli uffici di Sala Consilina che nell’aprile del ’93 viene portato Alberto Schiavo, la gola profonda della tangentopoli, e sottoposto ad un interrogatorio fiume da parte dei pm salernitani Di Nicola, D’Alessio e Scarpa in presenza dello stesso Santacroce, mentre a Vallo della Lucania un pool di finanzieri e carabinieri perquisisce gli uffici e l’abitazione di Schiavo. Subito dopo partono gli avvisi di garanzia per l’ex ministro Carmelo Conte e per l’ex sottosegretario Paolo Del Mese e viene formalizzato il primo ordine di cattura internazionale a carico del mitico Gaspare Russo che fugge prima in Sud America e poi a Parigi. Incredibile il modo in cui Gasparone sfugge alla cattura. Era salito su un aereo a Francoforte, aereo che senza scalo atterra a Capodichino, ma Gasparone non c’è e i Carabinieri pronti sulla pista per ammanettarlo restano con un palmo di naso. Nell’autunno del ’93 il suo capolavoro investigativo. Convince il suo caro amico e imprenditore Vincenzo Ritonnaro a farsi microfonare con alcune microspie e lo induce ad avvicinare altri suoi amici imprenditori per farsi raccontare le modalità con cui erano state effettuate le presunte cessioni (alias mazzette !!) in favore del Partito Socialista e del famoso “Il Giornale di Napoli”. La vicenda è quasi alla “007-James Bond”; Ritonnaro incontra uno per volta gli amici imprenditori e con loro viaggia in una macchina lungo la litoranea mentre un auto civetta dei Carabinieri li segue ed intercetta tutto quanto i due si dicono volta per volta. Molti personaggi dell’epoca vengono letteralmente stritolati, come Franco Amatucci e Raffaele Galdi (i due compassi d’oro) che vengono indicati come i messaggeri del partito socialista e direttamente del ministro Carmelo Conte. Sempre nel ’93 a Santacroce viene anche affidata una parte importante dell’inchiesta sul rapimento del politico DC Ciro Cirillo. Forse è la goccia che fa traboccare il vaso; difatti qualche mese dopo il giudice anticamorra viene messo sotto protezione, si teme per la sua incolumità fisica e per la sua stessa vita. Portato in una località segreta riemerge dopo qualche mese e ritorna nella sua Procura. Non smette mai di coltivare il suo innato senso di “educare i giovani pm” e trova, a Sala Consilina, il soggetto adatto: Raffaele Casto, giovanissimo pm che il vecchio ed esperto capo lancia all’assalto di quello che resta della tangentopoli seminando il panico in tantissime amministrazioni comunali del Vallo di Diano. Ma l’astro di Santacroce è ormai al tramonto; i ricorsi contro i due arrivano al CSM che, per la seconda volta, si interessa del “giudice anticamorra”, e forse troppo sbilanciato contro la politica, che dopo questa nuova disavventura incomincia a mollare la presa. Fino a lasciare la magistratura ed a dedicarsi all’attività forense con notevole indubbio successo. Lascia dietro di se un’opera preziosa, un libro “I miei giorni della camorra” nel quale racconta con linguaggio sapiente e comprensibilissimo la vera storia della malavita salernitana. Per tredici anni, tra il 1974 e il 1987, è stato giudice istruttore a Salerno, poi capo della Procura di Sala Consilina. Ho avuto modo di incontrare più volte “don Mimì”, le nostre strade si sono incrociate sempre per motivi lavorativi, io come cronista e lui come magistrato. Un uomo pacato, apparentemente disinteressato di quanto avveniva intorno a lui, non gli sfuggiva niente, nemmeno i piccoli particolari. Non sopportava il potere, quello vero, di qualunque colore esso fosse ed a qualsiasi istituzione potesse appartenere, ha sempre combattuto in quella direzione, ha commesso anche degli errori umani e comprensibili. Nell’autunno del 1992 mi trovavo nei corridoi della Procura della Repubblica di Sala Consilina e, passeggiando, conversavo amabilmente con l’allora procuratore capo dr. Domenico Santacroce; era soddisfatto Santacroce perché i suoi allievi (i pm Di Nicola, D’Alessio e Scarpa) avevano iniziato a Salerno la grande “operazione pulizia”; si parlava ovviamente di tangentopoli e degli ultimi avvenimenti salernitani che vedevano ancora in carcere l’ing. Raffaele Galdi e l’arresto dell’avv. Marco Siniscalco avvenuto il giorno prima (domenica 25 ottobre 1992) e ritenuto l’uomo che poteva aprire il portone del sacrario socialista. Da uno dei finestroni del corridoio “don Mimì” (così era confidenzialmente denominato il procuratore capo) mi indicò un punto lontano del Vallo di Diano proprio in corrispondenza di San Pietro al Tanagro e disse: “Il potere, quello da combattere, è lì, in quel paese”. Non capii o feci finta di non capire; la storia dei mesi successivi chiarì che proprio su Enrico Zambrotti (ritenuto il custode di tanti segreti !!) il Procuratore focalizzò la sua attenzione investigativa per quella che riteneva dover essere una sacrosanta operazione di pulizia e di trasparenza. Domenica mattina, 9 dicembre 2012, è stato salutato da una folla di amici e di autorità, dalla moglie e dai suoi cinque figli. Ora ci guarda tutti dall’alto e, forse, sul suo viso è ritornato quel sorrisetto sornione e sarcastico a metà strada tra l’accattivante e l’irriverente.