Aldo Bianchini
SALERNO – Questa mini inchiesta giornalistica sulla vita, sulle opere di S.E. Mons. Gerardo Pierro (già arcivescovo della diocesi Salerno-Campagna-Acerno) non deve apparire come un colloquio a distanza tra e me e l’anonimo “Altrove”, piuttosto come un tentativo di dipanare i sepolti segreti della Curia che comunque sono esistiti ed esistono.
Altrove rispetta il mio pensiero, (e di questo gli sono grato) cerca di non condividerlo ma, comunque, non lo smantella totalmente; anzi per certi versi produce l’effetto spinta per continuaare e capire meglio.
Difatti quando Altrove scrive “”Parlare di “veleni” o di “segreti portati nella tomba” rischia di farci perdere il senso più vero e profondo: quello lasciato da una testimonianza di fede vissuta nel silenzio e nell’azione quotidiana, senza proclami”” non fa altro, senza volerlo, che confermare la mia tesi sull’esistenz di segreti e veleni che hanno condizionato il cammino di ben due arcivescovi (Mons. Pierro e Mons. Moretti) e di aver costretto il Santo Padre ad inviare l’attuale arcivescovo Mons. Bellandi dopo averlo frettolosamente ordinato vescovo.
E questo, altrove deve ammetterlo, non è accaduto forse in nessuna altra Diocesi italiana; nelle prossime puntate cercherò non solo di spiegare i veleni e i segreti ma anche perché ho parlato di “trimurti” alludendo al potere temporale e terreno che hanno gestito Don Gerardo Pierro, Don Comincio Lanzara e Don Frano Fedullo; cosa questa che è costata moltissimo a tutti e tre; e questo è storia, non chiacchiere al vento.
Ma ora è il momento di dare spazio al pensiero di “Altrove”:
Leggo con rispetto e attenzione la ricostruzione – per quanto giornalistica e inevitabilmente parziale – della figura di Mons. Gerardo Pierro e dei rapporti che hanno intrecciato la sua opera con quella di don Franco Fedullo e don Comincio Lanzara. Mi sento chiamato in causa, avendo scritto alcune righe firmate come “Altrove”, e sento il bisogno di chiarire con serenità qualche punto, senza polemica e senza pretese di verità assoluta.
Quando ho scritto quel breve intervento, l’intento era semplicemente quello di ricordare. Ricordare che, al di là di alleanze e strategie – vere, presunte o solo percepite – ci sono state persone reali, che hanno speso la vita dentro la Chiesa con dedizione, passione e con tutti i limiti che ogni cammino autentico porta con sé.
Don Franco Fedullo, in particolare, non apparteneva ad alcuna “corrente” o gioco di potere. Era una figura riconosciuta perché affidabile e, soprattutto, capace. Gli venivano affidati incarichi delicati, e lo si faceva non per convenienza, ma per fiducia. La sua presenza forte nella diocesi nasceva da una fede profonda, fuori dal comune, che riusciva a comunicare con naturalezza a intere generazioni di giovani.
La sua appartenenza al Gregge non è mai stata una questione di schieramento: era, ed è rimasta, una risposta d’amore. Un amore profondo verso una realtà che lo aveva aiutato a crescere spiritualmente e a riconoscere il volto di Dio nei poveri, nei giovani, negli ultimi. Quando qualcuno gli chiedeva perché fosse così legato a quella esperienza, la sua risposta era semplice, quasi disarmante:
E in effetti, certe cose non si spiegano. Sono come l’amore per una madre, per un padre, per Dio: non si possono definire, si possono solo vivere. E forse, chi guarda da fuori può solo intuirle osservando l’innamorato agire.
Don Franco era conosciuto anche per la sua concreta prossimità ai più deboli. L’“Operazione Fratello Freddo”, in cui portava coperte ai senzatetto della stazione, è solo uno dei tanti esempi. Donava le sue scarpe nuove a chi ne aveva bisogno. Entrava negli ospedali non per formalità, ma per presenza autentica. Stava lì dove c’era dolore, perché lì sapeva di poter incontrare Dio.
Le dinamiche che, nel tempo, hanno portato a una rottura non sono legate a fondi “nascosti” o a trame oscure. Sono piuttosto dinamiche legate alla difesa di chi si ama, di una storia, di un’appartenenza interiore. Sicuramente il direttore – che legittimamente non concorda con me su molte cose – sa che, a un certo punto, si è cercato un colpevole. E Don Franco, con il suo carisma e la sua coerenza, non ha fatto altro che continuare a fare ciò che ha sempre fatto: difendere gli innocenti. Anche quando questo significava mettersi da parte, restare in silenzio, ma rimanere fedele a sé stesso.
Per essere coerente con la sua storia – che non è stata esente da errori umani, come ogni storia autentica – Don Franco ha rinunciato a qualsiasi forma di carrierismo. Non ha cercato ruoli, né visibilità. Ha scelto piuttosto la fedeltà alla propria coscienza, anche quando questo lo ha portato in posizioni scomode, lontane dai riflettori.
Oggi si leggono ricostruzioni su presunte “trimurti”, equilibri rotti, distanze prese. È comprensibile: fa parte del bisogno umano di interpretare, di sistemare i pezzi del passato. Ma resta il fatto che sono ricostruzioni, a volte affascinanti, ma pur sempre parziali. Parlare di “veleni” o di “segreti portati nella tomba” rischia di farci perdere il senso più vero e profondo: quello lasciato da una testimonianza di fede vissuta nel silenzio e nell’azione quotidiana, senza proclami.