MIO CHIAMO EPPE ARGENTINO MILETO

Roma, notte

Avrei dovuto iniziare con uno stasimo. Il coro del passato in una parodo di esperienze vissute, dei tanti me, entra ed erompe nell’orchestra, cantando un inno in una lingua sconosciuta.

Ma no, inizio postulando una comprensione parziale ma esaustiva di me stesso scrivendo a me e di me. Ogni tanto è doveroso farlo. Scrivere di se stessi. Perché ho scritto sempre, credendo che la mia missione fosse raccontare gli altri. Oggi è diverso, racconto me stesso con una preterizione significativa e spietata. Quindi mi presento, senza raccontare nulla che già io stesso non sappia.

La valenza della descrizione risponde ad un solo desiderio: situarmi. Dove? E come? E con chi?

Da bambino mi vestivano con abiti di velluto color dello champagne, con bottoni a guisa di perla ed asole intrecciate. Talvolta anche coi pantaloni alla zuava. Ero biondo di un biondo abbagliante che sfidava i raggi del sole al sole. Le foto (poche) che mi sono rimaste, le altre non le ho mai ritirate dagli scatoloni dopo un trasloco, fermano un attimo, sempre vicino ad un albero di Natale. E nelle mani custodisco una stella di mare da appendere a un ramo. Ricordo papà, che me la faceva appendere ai rami bassi. Amavo il numero 2 e il colore giallo. Vedevo giallo. Volevo una casa gialla, con cani gialli, un giardino giallo e vestito di giallo mi immaginavo rotolare nei prati gialli della camomilla.

Vivevo della rappresentazione di me stesso. Meglio, mi immaginavo, non vivevo. Perché non ho vissuto per 52 anni. Nella mia vita è solo accaduto quello che immaginavo accadesse e che volevo fortemente  accadesse. L’intelligenza acuta ed una volontà d’acciaio fecero sì che tutto rispondesse al mio copione. E con il tutto, anche tutti. Ero così geloso del mio copione! Avevo una percezione adulterata del mondo reale. Anche il frullo di un passero mi stordiva con la violenza di uno schiaffo apocalittico e un sibilo mi raggiungeva con l’impeto di una bestemmia.

La mia immaginazione, in realtà così profonda e prolifera, era spaventosa. Con la scoperta della sessualità arrivarono i demoni da un mondo tanto atteso quanto voluto.

Non ho mai nutrito passione per gli altri. Ma vivevo di passioni. Di forti passioni che si mescolavano alla fantasia di scene raccapriccianti e ingiuste. Fino a quando la mia vita si ridusse ad un fetido miasma di furtiva sessualità innaturale.

Ho da poco compiuto 53 anni. E mi sento in colpa poiché so di essere colpevole. Mi considero un sopravvissuto che rotola sui campi di grano interrotti con singhiozzi a macchie di porpora dei papaveri vermigli che si trovano nel tempo in cui anche io ero bambino, nelle campagne intorno la stazione ferroviaria di Cutro, dove andavo in vacanza.

So di essere colpevole. Perché ho fatto male. Ho fatto del male. Ho annegato la mia vita negli eccessi, di ogni genere, fino a farne la mia stessa vita.

Ma questa notte qualcosa si muove. È la mia colpa,  giunta al capolinea. Vedo la malinconia e la rabbia uscire dall’orchestra, accompagnate dall’araldo del passato e dal visconte della responsabilità.

Sì, sono responsabile. Del dolore arrecato agli altri. E sono responsabile nel volerlo superare, prendendo la mia vita per mano. Responsabilmente. Perché la voglio, un’altra occasione. La voglio una possibilità. Anche io. In fondo ogni uomo la merita. Anche dopo la galera, espiando. Ed anche io sto espiando dalla mia prigione un ergastolo che non conosce salvacondotti.

Ho trascorso la vita nella rappresentazione di me stesso. Che ho seguitato a rappresentare anche a chi mi stava vicino. A chi mi stava accanto. Ciò non ha consentito mai agli altri di esprimersi come avrebbero voluto, o peggio, non ha consentito agli altri di essere se stessi; o semplicemente di lasciarsi andare. Li ho costretti a difendersi da me. A proteggersi da me. Ad allontanarsi da me. E ad allontanarmi.

Di questo mi dichiaro colpevole. Ma ho cuore. E sono onesto. Sono queste le uniche doti che mi restano. Perché è una dote, la bontà. È una dote, l’onestà.

Questa notte parlo da solo. Non rido e non volo. Mi sento come quando vestivo alla zuava. E in mano mi restava solo una stella di mare, una stella di mare, una stella di mare.

Dio sia con me, il viaggio non è finito e lunga è la strada che conduce a se stessi. Poiché la storia di ogni individuo particolare può sempre trasformarsi e confondersi nella storia del mondo.

 

One thought on “MIO CHIAMO EPPE ARGENTINO MILETO

  1. Le pubblicazioni di Argentino, severe e solo in apparenza confuse. Solo in apparenza per gli altri, ma non a chi indirizzate. Parla di eccessi e condanna ragazzi …con una birra in mano. Mi piace leggere perché diverte.
    Ricordo di progetti di ospedali sulle stazioni dismesse. Cose di grande capacità immaginativa, di grande spessore.
    Grande!

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