IL PROBLEMA CARCERE E I SUICIDI DEI DETENUTI

 

 

da Giovanni Falci (avvocato)

 

Avv. Giovanni Falci

Negli ultimi mesi mi è capitato, più volte, di sentire in televisione e leggere sulla stampa scritta il cd. “PROBLEMA CARCERI SOVRAFFOLLATE”.

Ho sentito di scioperi della fame, di solidarietà con i detenuti da parte di chi meno te lo aspetti (per intenderci da parte di chi sponsorizza il porto di armi indiscriminato e manda indietro i migranti).

Come accade spesso, anche in questo campo, c’è una notevole distanza tra la teoria e la pratica e, il più delle volte, del “problema carcere” ne parlano persone che non conoscono e non hanno mai visto un istituto penitenziario.

Più che d’informazione si tratta di esercitazioni teoriche su principi generali di carattere filosofico e giuridico.

Ci sono riferimenti alla Corte Europea e all’Agcom che ha richiamato in passato la RAI per il silenzio sul tema; anche il mondo politico sembra inerte rispetto all’emergenza e cavalca, per fini elettorali e per guadagnare consensi, la protesta, ma non fa niente di concreto e pratico.

In effetti, la politica, da qualsiasi parte, oggi s’interessa dei funzionari, dei dirigenti, della spesa e non del detenuto e della polizia penitenziaria.

Come per la sanità si interessa del Direttore dell’ASL, del Primario, ma non dell’OSS o del malato ricoverato.

E allora, sul tema, voglio ricordare ciò che diceva Alessandro Margara (fu giudice istruttore a Ravenna e Firenze, magistrato di sorveglianza a Bologna e poi a Firenze dove guidò il tribunale di sorveglianza. Dal 1997 al 1999 fu direttore generale del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap), un magistrato che si è molto occupato del problema carceri e che ebbi modo di sentire a un convegno: quando c’è troppa popolazione penitenziaria non si sbaglia: la pezzatura è sempre la più piccola.

E cioè il mondo dell’emarginazione, della tossicodipendenza che riempie la popolazione dei carcerati, non è mai la criminalità dei colletti bianchi né quella di profilo alto e organizzata.

Bisogna perciò trarre le conseguenze da questa valutazione che è assolutamente fondata su dati di fatto e non su intuizioni ideologiche.

Due conseguenze: la prima è la risposta da dare all’interno del carcere, la seconda quella che deve dare la politica.

Parliamo della prima che potrebbe essere la più facile da realizzare.

Non esiste “il carcere”, ma “i carceri”.

La popolazione carceraria è così diversificata al proprio interno che è assurdo, sia dal punto di vista trattamentale, sia dal punto di vista dell’economia della giustizia trattare in un unico modo più mondi di questo genere.

Voglio dire, cioè: esiste il carcere del tossicodipendente, il carcere degli extracomunitari, il carcere del 41 bis, il carcere dei mafiosi non sottoposti al 41 bis.

Ci sono almeno 7/8 diverse categorie di detenuti che dovrebbero trovare collocazione in strutture specializzate in grado di modulare la risposta della sicurezza e del trattamento sulla base di ciascuna tipologia.

Se noi mettiamo più categorie in un’unica struttura adeguiamo la sicurezza a livello massimo, perché ovviamente se ci sono 41 bis o collaboratori di giustizia o di alta sicurezza, necessariamente il livello di sicurezza sarà massimo, e del tutto sproporzionato rispetto a quello richiesto dagli altri detenuti.

Avremo una difficoltà d’individuazione degli interventi di trattamento, delle proposte di lavoro, delle capacità di formazione nel carcere perché le difficoltà nascono dalla necessità di far fronte a molti problemi diversi.

Il ricorso troppo basso a misure alternative è il secondo aspetto della questione.

E’ l’aspetto della politica.

Quella “pezzatura bassa” con cui abbiamo a che fare nelle carceri: lo scopo principale che dobbiamo avere è tirare fuori dal carcere le persone con una prospettiva di controllo e sanzione che non rispecchi ciò che di sanzionatorio c’è oggi in una misura alternativa.

Oggi la sanzione alternativa non ha carattere sanzionatorio reale, ha solo valore di controllo.

Se non adeguiamo, le misure alternative sotto il profilo della sanzione sarà difficile fare accettare anche alla cittadinanza un ricorso meno frequente alla detenzione. Altrimenti i nostri concittadini non l’accetterebbero mai: nessuna forza politica dirà mai “mettiamo fuori gli spacciatori di droga”.

Se però al pusher primario tossicodipendente che spaccia per procurarsi la droga si è in grado di assegnare un tipo di sanzione e di controllo che sia allo stesso tempo deterrente e formativo, si fa un lavoro sia sul versante della sicurezza sociale, perché questo produce una riduzione dei detenuti, sia sul versante delle risorse, perché si fa economia.

Questa è una strategia complessiva d’intervento che invece non può essere rappresentata dallo “svota-carceri” che dà un minimo sollievo ma non può essere una risposta risolutoria.

Giovanni Falci

 

 

 

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