A BIALA PODLASKA (terza parte)

da Matteo Claudio Zarrella

(già magistrato e presidente tribunale di Lagonegro)

All’inizio furono pochi a determinarsi per il Si, sospinti da una fame che divorava le viscere e da un freddo che scolpiva le ossa, al pensiero che la situazione si sarebbe aggravata con il prolungarsi di una prigionia sempre più punitiva e all’incalzare di un inverno sempre più irresistibile. Non soltanto freddo e fame. In più, un’ammorbante sporcizia: dalle latrine scorrevano allo scoperto, nei canali di scolo, liquami fetidi. Per lavarsi gli internati ricorrevano, in lunga coda, ad una pompa azionata a mano che erogava acqua infetta e imbevibile. Alle adunate il Signore della conta elencava i suoi verbotten, le sue proibizioni. A mantenere l’ordine tedesco erano pure i cani, lasciati liberi di notte, addestrati a mordere gli internati trovati fuori posto. Quei pochi si giustificavano dicendo: “Siamo nelle mani dei tedeschi che di noi possono fare quel che vogliono, abbandonati da una Patria divisa in due. Una Italia fascista del Nord, agghindata da fronde di quercia e una Italia di un Regno rifugiatosi nel Sud sotto protettorato americano. Vi è una sola cosa da fare: aderire, tornare in Italia e sapere, di persona, come stanno veramente le cose. In Italia ci credono imboscati, al riparo dalla guerra e dalla lotta partigiana, a che serve restare in questo lurido lager e andare incontro ad un ignoto, orribile, destino?”. E con queste ragioni si erano avviati, con le schede firmate, all’ufficio del Comandante del campo, per uscirne “optanti”.

Quelli del No non avevano esitato a scegliere di non svendere la dignità e il giuramento dato. In una sola mattina, senza consultarsi, ognuno per sé aveva rifiutato l’arruolamento nell’esercito di Mussolini e la promessa di rimpatrio.

Rimasero gli indecisi ad indugiare sulle convenienze del Si e del No, ad interrogare la Storia volendo farsi trovare, a guerra finita, dalla parte giusta. Pendolavano nell’incertezza, ma si capiva che l’incertezza, non avendo la fermezza di una salda consistenza morale, si sarebbe sfaldata per finire nella resa. Un attacco lacerante di fame, un estremo brivido di freddo e sarebbe bastata una firma per avere un cibo migliore, un posto al caldo, un promesso rimpatrio.

Gli optanti vennero spostati in altra baracca e separati dai non optanti a mezzo di una rete. Attaccati alla rete si rivolgevano ai compagni del No dicendo che, firmata l’adesione, avevano potuto mangiare a sazietà. Walter Lazzaro, il Raffaello del lager, si sarebbe ispirato ad una scena come questa per dipingere il quadro: “La fame in gabbia”. Con inversione delle parti. Si raffigura una massa disperata di affamati che si spinge contro una rete. Avanti è un prigioniero, schiacciato sulla rete, a braccia aperte, come un Cristo in croce. Pare di sentire urla e gemiti provenienti, a tutta forza, da quel quadro.

Albino continuava ad essere il numero di un pezzo d’inventario. Ma quel numero soffriva la fame, il freddo. All’appello l’addetto alla conta urlava, militaresco: «Mein Herr, ich zählte von mir, daß es… Stücke ist», («Signore, ho contato che da me sono…. pezzi»), riferendo la somma degli Stücke contati. Pezzi! Non prigionieri, neppure esseri umani. Per tornare ad essere persone dovevano mettere un Si alla scheda di adesione. Il Signore della conta rivolgeva a quei pezzi viventi il sermone: “Attenzione! Voi non volete aderire, allora io vi dico che è proprio in questo lager che morirono 30.000 ebrei e che proprio qui ci sono le fosse comuni”. Atterriva i prigionieri l’idea d’essere gettati, morti, nelle fosse comuni. Il riposo eterno della morte sarebbe stato possibile in terra straniera, senza il cordoglio di familiari, il conforto di un fiore?

È il lager polacco di Beniaminowo e potrebbe essere il lager di Biala Podlaska. Il tenente Vittorio Vialli, internato, ritrae un momento dell’appello invernale: un primo reparto di internati messi in riga, in attesa degli addetti al conteggio. Migliaia di internati dovranno esser presenti all’adunata.

Gli internati non erano tutti nelle stesse condizioni. A fare la differenza erano le spedizioni dei pacchi e delle lettere. I meridionali non ricevevano pacchi e lettere dai familiari abitanti nel Regno del Sud. Quelli che ricevevano pacchi, i “pacchisti”, come venivano chiamati da Guareschi, potevano farsi ogni tanto una scorta di cibo. Soprattutto potevano gioire e sentire con il pacco la vicinanza delle famiglie che avevano risposto, premurose, a richieste di pane secco, gallette, scatole di marmellata, frutta secca, latte condensato, zucchero e pacchetti di tabacco. Il tabacco da usare come denaro per acquistare quel che serviva al mercato della latrina. Pacchisti gelosi ed egoisti nascondevano le scorte dove potevano. Non erano rari i furti di cibo conservato e nascosto. Ne scaturivano litigi, diffidenze, inimicizie. Gli internati che non ricevevano lettere e pacchi dalle famiglie del Sud Italia se ne stavano avviliti e depressi. Tra loro v’erano alcuni che non si vergognavano di girare tra le baracche e tendere la mano elemosinante ai pacchisti, riuscendo a tornarsene in camerata con qualche scatoletta. Cibarie e tabacco aveva chiesto Albino ai familiari che non si capacitavano. Perché tabacco? Albino non era stato mai un fumatore. Non avrebbero mai potuto immaginare Albino aggirarsi in latrina e passare in rassegna gli annunci scritti nei foglietti piantati sul legno: “cambio sigarette per il pane”; “maglia di lana in cambio di pane”; “scambio pane per sigarette”; “cedo in prestito un romanzo per tabacco”. Albino non aveva nulla da barattare in cambio di pane.

(Continua)

 

 

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