Scatti che parlano: un doveroso ricordo di Sebastião Salgado

da Vincenzo Mele (giornalista)

Sebastião Salgado è stato l’uomo che ha rivoluzionato il mondo della fotografia.
Salgado, nato 81 primavere fa, aveva viaggiato sallo stato brasiliano di Minas Gerais alla Gran Bretagna, passando per la Francia per proseguire gli studi in Economia, laureandosi a Parigi, poi l’incontro con la futura moglie Leila Walnick e con la fotografia e tutto cambiò nella prima metà degli Anni ’70.
Lavorò per agenzie fotografiche importanti come la Magma, la Sygma e la Magnum Photos prima di realizzare il primo album fotografico “Otras Americas”, nato da un viaggio fatto con Leila tra Bolivia, Perù, Ecuador e Messico, dove scoprì culti religiosi legati a molte popolazioni locali, mentre “Brasil” documentò la povertà del Nordest brasiliano, terra di ispirazione dei grandi filmmaker del Cinema Novo come Glauber Rocha e Ruy Guerra, la mortalità infantile, l’azione politica che si intrecciava con la religione e l’emigrazione verso il Sud del paese.
«Non voglio che si apprezzi la luce o le sfumature delle tonalità. Voglio che le mie immagini informino, scatenino dibattiti e facciano soldi.», così affermava il fotografo brasiliano qualche anno fa.
I suoi scatti, realizzati in bianco e nero, furono eseguiti con una Leica 35mm, talvolta applicando uno sbiancante per le ombre intense, e mostravano sia un’umanità proletaria come nell’album fotografico “Workers: la mano dell’uomo”, nella quale veniva mostrata l’oberosità dei pescatori delle tonnare siciliane, lo stakanovismo degli operai delle acciaierie sovietiche e il manualismo dei minatori d’oro nello Stato di Parà, a sudest del Brasile, ma anche l’umanità infranta e cancellata a causa della brutalità della guerra come nel caso degli uccelli coperti di petrolio a causa della distruzione dei pozzi petroliferi da parte delle truppe irachene durante la Guerra del Golfo in Kuwait nel ’91 o come nel caso dell’esodo degli Hutu a causa della Guerra Civile in Ruanda che dovettero rifugiarsi tra Repubblica Democratica del Congo, Tanzania, Uganda e Burundi nel ’94.
Salgado usò anche una Hasselblad, poi una Canon a causa di politiche restrittive dopo l’Attacco dell’11 Settembre 2001.
Salgado ritornò in Brasile, nella sua Aimorés dove creò insieme alla moglie «Instituto Terra», un progetto, nato nel ’98, che consisteva nel ripiantare la flora che era presente nel ranch della famiglia del fotografo a Rio Doce. Il lavoro durò ben 10 anni e portò alla rifioritura di quella porzione di foresta della Mata Atlântica nello Stato di Minas Gerais.
Nel 2004 lavorò insieme alla moglie Leila ad un nuovo progetto che durò fino al 2013: “Genesi”. L’obiettivo di Salgado era quello di scoprire e omaggiare, con la macchina fotografica, le popolazioni e le tribù del mondo che erano rimasti legati alle loro tradizioni senza la contaminazione dell’industria e della deforestazione. Per Salgado “Genesi” è il resoconto dei viaggi fatti in questi anni, un’ode visiva alla bellezza e alla fragilità della terra e anche un avviso “a considerare tutto ciò che rischiamo di perdere.”
Per “Genesi”, Salgado girò per la Foresta Amazzonica (dove incontrò la sconosciuta tribù degli Awà), fotografò lo scioglimento dei ghiacciai del Polo Sud, la taiga dell’Alaska, le foreste tropicali in Congo e in Indonesia fino ad arrivare alle montagne della Siberia e del Cile.
La storia di uno dei migliori fotografi degli ultimi 50 anni è stata raccontata nel documentario «Il Sale della Terra» di Wim Wenders nel 2014, proprio mentre Salgado era impegnato nella realizzazione di scatti che terminarono poi in “Genesi”.

F.to Dott. Vincenzo Mele

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