1954: la grande alluvione

Aldo Bianchini

SALERNO – Da quel tragico 25 ottobre 1954 e fino alla sera del 9 ottobre 1963 la catastrofica alluvione di Salerno e zone limitrofe sembrava dover detenere il primato assoluto per vittime da catastrofi naturali indotte dall’uomo incurante del dissesto idrogeologico del territorio che si trascina impunemente fino ai nostri giorni. I nostri 318 morti impallidirono per la seconda volta di fronte ai 1917 morti del Vajont. Una prima volta erano impalliditi la sera e la notte del 25 ottobre 1954, appunto, di fronte all’incalzare della pioggia scrosciante, di fronte alle palesi responsabilità dell’uomo nel determinismo di quella tragedia e di fronte alle false promesse politiche  di “cambiare tutto per non cambiare niente”. Ancora oggi, e sono passati sessant’anni, la situazione idrogeologica delle numerose aste torrentizie che dalle colline discendono verso il mare di Salerno, di Vietri e della Costiera, è rimasta pressoché identica alla situazione del 1954. Anzi in alcuni casi, come nella tremenda alluvione di Atrani del 9 settembre 2010, la mano dell’uomo ha viepiù peggiorato (con coperture e cementificazione) la situazione storica antecedente. Tutte date che non hanno insegnato niente a nessuno, eppure le grida di allarme sono continue e manifestamente pubbliche; per la nostra città basta pensare alle continue , affannose ed inutili lotte gridate a squarciagola da Gaetano De Simone sulla pericolosità del degrado idrogeologico; una voce inascoltata e, forse, a volte anche beffeggiata. Ma torniamo ai tristi ricordi di sessant’anni fa. Erano le ore 18.00 di un lunedì qualsiasi, era il 25 ottobre del 1954. Nessuno mai avrebbe pensato che di lì a poco il volto di Salerno sarebbe cambiato per sempre. Tutto iniziò con una pioggia fitta ma lenta ed infinita, come accade spesso e da sempre in città. Dopo qualche ora le cose peggiorarono e la pioggia fitta si trasformò in qualcosa di diverso e di devastante che è passato alla storia come “l’apocalisse di Salerno”. Veri e propri fiumi d’acqua invasero e travolsero la città, le aste torrentizie mai curate non ressero alla furia degli elementi e l’acqua tracimò da ogni parte ed in ogni parte. Si infilò dovunque, devastò tutto e tutti, sconquassò case, palazzi, strade, fognature; insomma un disastro naturale senza precedenti che nessuno avrebbe mai potuto immaginare. Nei giorni successivi i superstiti e i soccorritori furono costretti a fare i conti con un bilancio pesantissimo: 318 morti, 350 feriti e più di 7.000 senzatetto. Sembrava una città finita, isolata dal resto del Paese, sconfitta per sempre. Invece come d’incanto si mobilitò l’intero Paese e tutta la comunità internazionale si rese conto della grande sciagura che aveva colpito la città di Salerno proprio nell’anno in cui ricorrevano i festeggiamenti per il millennio della traslazione delle reliquie di San Matteo (patrono di Salerno) nel grande Duomo cittadino e provinciale. I soldi, tanti, che arrivarono dal Governo centrale e dall’Estero furono spesi malissimo e in molti casi malversati tra scandalose gare di appalto e mazzette gigantesche sotto la protezione della nuova scoperta, l’ambiente, che fino a quel momento per tantissimi era una parola soltanto da vocabolario. Nel nome dell’ambiente si scatenò una vera e propria corsa all’oro, cioè una strana ed allarmante elasticità istituzionale in favore di falsi imprenditori e politici senza scrupoli. La giustizia in quel caso fece poco o nulla, il grido di dolore e di allarme dei salernitani era talmente forte che bisognava fare tutto e in fretta, anche a costo di sbagliare, come si sbagliò. L’alba del giorno dopo, quella del 26 ottobre, si aprì su una popolazione vinta dalla tragedia e dal dolore, stremata dalla fatica ma pronta ad inarcare le reni in una gara di solidarietà senza precedenti e nel solco di una grande civiltà ed umiltà. Servì a poco la mobilitazione del presidente del consiglio dell’epoca, Mario Scelba, giunto a Salerno con il ministro dei lavori pubblici Giuseppe Romita, l’uomo che due anni dopo avrebbe dato il via alla più grande opera infrastrutturale italiana di tutti i tempi: l’autostrada del sole, ovvero la “strada dritta” che proprio in questi giorni è stata ricordata dalla tv nazionale con un film davvero molto bello. Ma naturalmente per 318 morti non potevano bastare solo il presidente del consiglio e il ministro ed arrivò anche il presidente della repubblica Luigi Einaudi; la sua presenza riuscì a placare, soltanto in parte, l’ira di un’intera popolazione che si sentiva abbandonata a se stessa e senza futuro. Ma presto l’ira lasciò il posto alla preoccupazione di riuscire ad ottenere tutto quello che era possibile ottenere, presero vita interi quartieri della città: dal Rione Lauro fino ai villaggi tra Pastena e Mercatello che ancora oggi fanno bella mostra di se e che impediscono, di fatto, uno sviluppo più organico di Salerno anche in rapporto alla nuova colata di cemento urbanistico che si annuncia ancora più pericolosa di quelle del recente passato. In questi sessant’anni in tanti si sono cimentati nel ricordare e raccontare, con filmati e scritti, i momenti più drammatici di quella notte ed anche gli episodi eccezionali che caratterizzano le ore successive al nubifragio come quella culla ripescata a mare con un bambino stretto nelle coperte ed ancora vivo. Una delle pagine più belle l’ha scritta Salvatore Memoli, avvocato e politico molto noto, nel libro di recente pubblicazione e denominato “Calata San Vito 110. Anche l’arcives<covo Mons. Luigi Moretti non è rimasto insensibile al ricordo dei lutti del ’54 e presiederà la Celebrazione Eucaristica domenica 26 ottobre, alle ore 11.00, preso la parrocchia di S. Trofimena nell’Annunziata in Salerno; proprio in quella che fu la Chiesa simbolo del ritorno alla vita, della ricostruzione e dello slancio verso il futuro. Io giunsi a Salerno la mattina del 28 ottobre 1954 (giovedì), insieme a mio padre, per andare a far visita a mio fratello che era studente della prima liceo e alloggiava nel collegio Antonio Genovesi ubicato in pieno centro storico. Camminando a piedi dalla stazione ferroviaria fino al collegio ebbi modo di vedere le due facce della stessa città, la prima senza traccia alcuna della tragedia e la seconda ancora sotto il fango; avevo nove anni e fu per me un’esperienza molto significativa e dolorosa.

 

 

 

 

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