SCUOLA: dopo i fatti del Genovesi e il tentato omicidio cosa possono fare la famiglia, la scuola e la chiesa ?

Aldo Bianchini

SALERNO – In una fredda serata del lontano 1953 fui portato, anzi meglio dire trascinato, da mio padre e mia madre nella Chiesa Madre del paese (sono nato e cresciuto a Muro Lucano in provincia di Potenza) per andare ad ascoltare un “predicatore”, un minuscolo ometto infilato dentro un saio. Avevo appena otto anni ma quell’uomo dall’alto del pulpito riuscì a colpire il mio immaginario  e, soprattutto, a farmi capire i primi elementi fondanti dei valori della famiglia e della relazione tra famiglia e la chiesa intesa come fede cristiana. Ricordo perfettamente alcune sue parole: “per il raggiungimento della pace e della giustizia”; le stesse parole che ho letto all’indomani della visita di S.E. Mons. Luigi Moretti (arcivescovo di Salerno) presso l’Istituto Scolastico “Genovesi” di Salerno dopo il fattaccio relativo al grave ferimento di un ragazzo ad opera di un suo coetaneo, entrambi studenti del Genovesi. Parole che il presule salernitano ha pronunciato durante il suo colloquio, riservato e quindi ancor più carismatico (ma questo la stampa salernitana stenta a capirlo !!), con alcune centinaia di ragazze e ragazzi del prestigioso e storico istituto scolastico. Sono perfettamente d’accordo con l’arcivescovo, la scuola ha avuto, ha e deve avere un ruolo importantissimo nella formazione delle giovani generazioni; ma da sola la scuola non basta. Non possiamo difatti far gravare sulla scuola il peso della formazione giovanile che ha bisogno di altri sostegni come la famiglia e il contesto ambientale in cui la stessa famiglia vive. Concetti, questi, che non sono mediatici ma profondamente cristiani che devono andare a toccare le corde giuste della sensibilità e della coscienza di ognuno; da qui la ragione della riservatezza dell’incontro che la stampa non ha capito. Ecco perché Mons. Moretti ha inteso parlare da solo a quella moltitudine di giovani studenti, lo ha fatto per raggiungere meglio il loro animus confidenti e per far emergere tutto quello che di buono ogni individuo possiede nel suo dna naturale. Quella sera nella Chiesa Madre di Muro Lucano non c’erano giornalisti, le telecamere non avevano ancora invaso il nostro mondo, i tablet erano solo nella fantasia di pochi conoscitori delle guerre stellari; eppure quel piccolo predicatore (che oggi verrebbe additato come un “comunicatore”), dotato di una capacità dialettica fuori del comune, con le sue parole mi fece capire alcuni dei concetti fondamentali del nostro vivere in comunità. E se la Chiesa utilizza le stesse parole a distanza di più di sessant’anni può voler dire soltanto due cose: o che non ha saputo adeguarsi ai tempi oppure che quel messaggio cristiano non colpisce più l’immaginario collettivo che è preso da tantissimi altri diabolici diversivi. La Chiesa del futuro deve, quindi, cercare di riempire questo enorme fossato che si è aperto tra se stessa e la massa di fedeli o di semplici cittadini dotati di buona volontà. Ecco perché il messaggio che Mons. Moretti voleva confidare ai giovani studenti del Genovesi aveva bisogno di assoluta riservatezza; il nostro arcivescovo si è reso ben conto che la scuola – la chiesa – la pace e la giustizia non devono far parte di un circo mediatico senza senso ma devono servire come strumento per aprire le coscienze e scardinare tutti i pregiudizi di cui, lentamente e nel tempo, ci siamo fatti tutti portatori. Anche per questa ragione il nostro presule ha posto i giovani al centro del suo ministero ben sapendo che gli stessi vanno affrontati alla pari, prima in gruppo e poi singolarmente per cercare di raggiungere l’obiettivo. Del resto lo ha esplicitato molto bene il suo portavoce “don Alfonso D’Alessio” quando, pochi giorni prima dell’incontro con la scuola, ha evidenziato in poche righe il pensiero e l’azione dell’arcivescovo. Adesso tocca alle parrocchie ed a tutti i sacerdoti seguire l’esempio del loro capo, perché la parrocchia ha perso quell’antico sapore di luogo di raccoglimento, di aggregazione e di crescita singola e collettiva. La misericordia, tanto invocata dal Santo Padre e giustamente anche dall’arcivescovo, forse c’entra poco con la cultura della pace e della giustizia, ma può essere la leva giusta per cominciare a risollevare il problema della presa di coscienza delle nostre coscienze. Non è scritto da nessuna parte che il figlio di un delinquente sia destinato a diventare delinquente anch’egli; lo diventerà solo se viene lasciato in balia di se stesso senza chiari e pregnanti punti di riferimento che, in passato, molto spesso sono stati trovati nella Chiesa e nei suoi servitori. Oltre il cappuccino di quella fredda serata d’inverno del ’53 ho conosciuto, da vicino, almeno due sacerdoti-uomini che hanno influito sulla mia crescita. Il primo fu “don Antonio Lisanti” che a Muro Lucano, quasi come un curato di campagna, teneva a bada tanti ragazzi come me nel piccolo oratorio di cui aveva avuto la disponibilità organizzativa riuscendo, pur con l’infernale rumore dei calcetti e degli schiamazzi, a trasmettere sanissimi principi di fede, di pace e di giustizia. Il secondo l’ho conosciuto a Salerno, era il parroco di Santa Croce e si chiamava “don Giovanni Pirone”. Riuscì a gestire il presente e il futuro di una sterminata generazione di futuri professionisti (molti dei quali ancora oggi al governo della città e delle sue istituzioni) sottraendoli letteralmente ai pericoli della strada e servendosi anche dell’opera di semplici personaggi di buona volontà come il mitico Raimondo con il suo piccolo ritrovo serale, denso di fumo, nel cuore di Torrione. Ecco, don Giovanni, aveva scoperto la chiave “dell’essere fratelli e portatori di ricchezza l’uno per l’altro”, cattolici cristiani e non credenti; una chiave che deve essere velocemente riportata a galla per sopperire al lungo periodo di silenzio e far rinascere “il senso di comunità” evocato da Mons. Moretti.

 

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