Il Principe di Salerno: per una storia del Rinascimento meridionale (Parte I)

 

da prof. Giovanni Lovito (scrittore – storico)

SALERNO – Ancora oggi non sappiamo se Lorenzo II de’ Medici apprezzò il trattato (Il Principe) a lui dedicato; il Machiavelli, tuttavia, non rinunciò a credere nella possibilità, o necessità, di una restaurazione della virtù politica in Italia, con l’auspicio che la Nazione risultasse finalmente unita sotto l’egida del princeps ‘nazionale’. Altra tematica che conferisce un’impronta profondamente nazionalistica agli scritti del Segretario fiorentino è quella inerente alla cattiva consuetudine, propria degli italiani, di arruolare truppe mercenarie: sulle orme della storia antica, lo scrittore rinascimentale offriva alcuni importanti suggerimenti affinché l’Italia si liberasse dai barbari e si avvalesse di milizie proprie, tutelando la dignità e l’indipendenza nazionali. L’ingerenza del Papato nella sfera temporale, infine, sembra costituire l’ulteriore motivo ricorrente nei trattati politici di uno ‘storico’ che, sulle orme di Dante, tenne a segnalare e denunciare più volte l’intervento degli ecclesiastici nella vita politica italiana, causa prioritaria e assoluta, questa, della disunione degli Stati e del frazionamento della ‘Nazione’:

«È Il secondo motivo dominante del Machiavelli: il papato temporale, causa della disunione dell’Italia. La coscienza ghibellina del Machiavelli stava ostinatamente ferma nella sua avversione al potere temporale dei papi, le cui armi spirituali gli sembravan destinate a spuntarsi, ogni qualvolta venissero adoperate per interessi mondani, e al funesto nepotismo dei pontefici, che dai parenti scenderà addirittura ai figliuoli. […]. Il Machiavelli aveva, dunque, trovato modo di isolare, dal groviglio della storia d’Italia, così frazionata e complessa, alcuni punti generali o centrali, da cui gli pareva poter desumere la presunta causa della persistente disunione del paese e il relativo rimedio. Causa: il papato politico. Rimedio: il principe liberatore» (F. ERCOLE, L’Italia dalla battaglia di Pavia al Sacco di Roma e l’estrema attività pratica di Niccolò Machiavelli, in Da Carlo VIII a Carlo V: la crisi della libertà italiana, Vallecchi, Firenze 1932, pp. 265; 266).

 
In tale contesto storico va senz’altro inquadrata l’opera politica e culturale svolta da Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, la cui signoria in territorio campano coincide con l’affermazione nel Regno di Napoli dei viceré spagnoli.  Il primo fu Consalvo di Cordova che,  sconfitto il presidio francese rinchiuso in Castelnuovo, il 16 maggio 1503 diventava Viceré del regno; si segnalò, inoltre, per aver catturato Cesare Borgia (inviandolo prigioniero in Spagna) e, soprattutto, per aver riformato due importanti uffici napoletani, il Consiglio Collaterale e la Camera della Sommaria. Non poche volte, infine, per gli affari del regno trovò un valido collaboratore nel marchese di Padula Antonio Cardona. Seguirono (dopo il breve periodo in cui fu affidata la luogotenenza a Giovanna d’Aragona) don Juan de Aragon, conte di Ripacorsa e nipote di Ferdinando il Cattolico; il conte di Potenza Antonio di Guevara; Raimondo di Cardona, conte di Albento, che ebbe come luogotenenti il cardinale Remolines, arcivescovo di Sorrento, e Bernardo Villamarino conte di Capaccio; Carlo di Lannoy e il luogotenente Antonio Carafa conte di Santa Severina;  Ugo di Moncada, principe d’Orange, e il cardinale Pompeo Colonna, diventato viceré nell’anno 1529. Ammiratore ed estimatore della principessa salernitana, Isabella Villamarino, l’alto prelato le dedicò vari sonetti, mentre alla sua morte presso la villa di Chiaia (successivamente divenuta proprietà del figlio di don Pedro de Toledo) si vociferò che fosse stato avvelenato dallo stesso Ferrante, geloso dell’ormai troppo confidenziale rapporto instauratosi tra il religioso e la moglie:

«A 28 giugno 1532 morì de venerdì alle hore 16 Pompeo Colonna nei suoi giardini di Chiaia…e là stette sino alla domenica e non ci fu fatto bella esequie; et il venerdì et il sabato furono saccheggiate tutte le sue robe e questi due giorno stette esso in terra sopra un matarazzo abbandonato da ciascuno eccetto che da un paggio che lo guardava. […]. La facilità onde il Principe usava sbarazzarsi de’ suoi nemici aveva certo contribuito ad avvalorare la voce che il Colonna non fosse morto naturalmente, e le aspre parole che eran corse fra loro e la vivace ammirazione de l’ardito Cardinale per la giovine principessa, davano alla cosa una grande verosimiglianza» (L. COSENTINI, Una dama napoletana del sec. XVI: Isabella Villamarino principessa di Salerno, in «Rassegna Pugliese di Scienze, Lettere ed Arti», n. 1, Trani-Bari 1895-96, p. 177).

Al cardinale Colonna seguì il viceré Don Pedro Alvarez de Toledo, considerato «il primo Viceré che veramente si interessò al governo di Napoli e del regno». Mediante alcune prammatiche, il funzionario regio cercò di limitare lo strapotere dei baroni, apportando cambiamenti radicali e un progressivo miglioramento nell’amministrazione della giustizia; sostenne, inoltre, le autonomie cittadine vietando la chiusura dei terreni destinati alla collettività e volle  altresì che «si provvedesse a reintegrare i territori che appartenevano ai pascoli della Dogana delle pecore di Foggia». Altre importanti innovazioni apportò nel campo dell’amministrazione della giustizia, aumentando il numero dei giudici della Vicaria (quattro criminali e due civili); più volte, quindi, fu accusato di commettere estorsioni e abusi non solo sui sudditi del regno, bensì anche  nei confronti di nobili, giudici e funzionari della legge e della giustizia. Non solo. Diverse liti il viceré mosse nei confronti del Principe di Salerno, sicché non pochi storici hanno collegato, giustamente, il tramonto della potenza del Sanseverino alla profonda rivalità instauratasi con il delegato di Carlo V nel regno napoletano. Si narra, tra l’altro, che allorché Carlo V doveva ricevere l’incoronazione nella città di Bologna, Ferrante, rappresentante supremo del Regno di Napoli, in un primo momento era stato designato quale portatore dello scettro imperiale; successivamente, invece, tale incarico fu assegnato al marchese d’Astorga, giunto dalla Spagna «col donativo de i regni iberici, ch’erano ducento cinquanta mila doble d’oro». Il princeps, deluso da tale provvedimento, «si risolse di non volere comparere quel dì nella festa […]. Ma venuto il dì determinato elesse di mandare in luogo suo Leonetto Mazzacane, suo vassallo, cavaliere valoroso e di bella presenza, vestito delli vestiti che avea fatti per sé». Il Croce, a sua volta, asserì: «Come sudditi devoti tutti (i baroni) si affrettarono ad accorrere a Bologna nel 1530 per fare corteggio all’Imperatore; e colà il gran rammarico del principe di Salerno, non ancora ribelle, fu di non poter portare una delle insegne, lo stocco e lo scettro, affidato l’uno e l’altro a personaggi spagnoli […]». Scrisse il Fava: «Questa rivalità non tardò a manifestarsi apertamente e ad acquistare carattere personale, giacché da una parte Ferrante, memore del passato, faceva poco conto delle prammatiche vicereali, dall’altra don Pietro voleva fiaccare quell’orgoglio baronale e ridurlo all’obbedienza. […] Il grave colpo inferto a Ferrante non fu pel potere vicereale soltanto una vittoria su un barone del regno, ma su tutto il baronaggio. La misera sorte del principe di Salerno doveva essere di esempio e di monito a quanti volessero tentare di scuotere il giogo che ormai s’era saldamente piantato sul loro collo» [A. FAVA, L’ultimo dei baroni: Ferrante Sanseverino, in «Rassegna Storica Salernitana» XVIII (1943), p. 11]. Ad accrescere l’antagonismo fu l’introduzione, per volere del viceré, dell’Inquisizione nel Regno di Napoli. Alla notizia, non poche città si ribellarono, mentre lo stesso Ferrante venne prescelto dal popolo in qualità di ambasciatore presso la corte regia, perché Carlo V fosse messo al corrente degli abusi giudiziari commessi dal Toledo. Mentre Vincenzo Martelli cercava di distogliere il principe dal proposito d’incontrare il sovrano d’Asburgo, Bernardo Tasso, con un discorso riguardante le leggi e la corretta amministrazione dello Stato e dei popoli, consigliava a Ferrante di recarsi presso la corte di Spagna. Ecco, a tal proposito, una testimonianza estratta dall’epistolario dello scrittore rinascimentale:

«Quanti sono stati e ne’ presenti , e ne’ passati secoli che per lasciare onorata memoria di sé, con men bella , e men lodata occasione, fra l’armi, fra ’l fuoco sono andati ad incontrare la morte? Senza speranza d’altro guadagno , che di questa gloria […]. Questa è impresa nella quale servite a Dio, fate beneficio alla Patria, ai parenti, agli amici, e alla vostra posterità: nella quale non solo non offendete il Re vostro, né cagione li date di dovervi né riprender, né castigare; ma gli fate servizio utile, e onore, facendolo Signore degli animi, e delle volontà degli uomini; che “l’esser Signor delle robe piuttosto si conviene a tiranno, che a legittimo Signore”. Pigliate forse impresa difficile e pericolosa? Certo no; ma facile e sicura. Non andate per offendere S.M., per levarle l’obbedienza di questo Regno, per sollevarle i popoli, né per fare altri effetti simili; ma per confirmar gli animi dei sudditi nella solita fedeltà, per acquetare i tumulti e per accrescer la devozione e la fede loro. Vi mancano forse ragioni non apparenti, ma vere; non probabili, ma necessarie, e fondate sul servizio di Dio , e della religione, sul beneficio di S.M. e su l’utile di questo Regno? O è forse S.M. un prencipe barbaro, empio e non capace di ragione? “Non conoscerà egli che niuna cosa è più atta alla conservazione degli Stati, e degli Imperi, che l’essere amato; e niuna più contraria, che l’esser temuto? Non saprà che s’ha in odio colui che si teme, e che agli odi di molti niuna potenza, per grande che sia, può resistere lungamente?”».

L’Imperatore, persuaso e convinto da Pietro Gonzales di Mendozza (inviato in Spagna dal viceré ancor prima del principe), così si espresse a riguardo: «Credono forse questi di Napoli che per tenere il Principe in mia Corte, io sia per far altro di quello che mi viene in testa? Né per lui, né per molti principi come lui farò mai altro di quello che mi piace». Nonostante ciò, il dominus salernitanus al suo ritorno a Napoli venne acclamato dalla folla accorsa per le strade a salutarlo, cosa, questa, che infastidì non poco don Pedro, pronto a muovergli contro altre false accuse inerenti, questa volta, alla dogana di Salerno e al ‘regio fisco’. Stanco dei soprusi commessi dal delegato imperiale, il Sanseverino si recò nella cittadina di Diano, dove, sul campo bianco dello stemma familiare collocato all’interno del convento della Pietà, fece incidere questa terzina:  Non più bianco il color, ma tutto intero  Pardiglio è ’l campo (o mia perversa sorte!) E tra ’l traverso, affumigato, e nero.
      
Come era avvenuto nei secoli precedenti e, in modo particolare, al tempo della congiura baronale che vide scontrarsi nella cittadina di Diano Antonello Sanseverino e Federico d’Aragona, i rapporti tra la corona spagnola e il baronaggio locale s’erano davvero incrinati e alcune considerazioni fatte, decenni fa, dal Croce (tratte dalla sua prefazione al volume di Laura Cosentini) offrono un notevole contributo a riguardo: «La vita di Ferrante Sanseverino principe di Salerno rappresenta la sottomissione e trasformazione del baronaggio napoletano, accaduta nel dominio spagnolo. A Ferrante Sanseverino venne meno veramente il terreno sotto i piedi. […] Egli non si rese pieno conto che i tempi erano cangiati e che don Pietro di Toledo, saldamente appoggiato alla monarchia di Carlo V, offriva ostacolo ben altrimenti duro di quelli contro i quali si eran levati i suoi antenati. Don Pietro lo scalzò da tutti i lati, lo isolò, lo sforzò infine a uscire furtivamente dal regno. […]. Nel conflitto col viceré spagnuolo il superbo principe di Salerno, ancora così bollente del ricordo di quel che i suoi antenati avevano potuto contro i re, soccombette; e quando, volendo fare ricorso all’imperatore, da Venezia gli spedì un suo diplomatico per ottenere promesse di sicurezza innanzi che si presentasse egli medesimo di persona, Carlo V uscì in un detto che, nel respingerla, qualificava e scherniva insieme quella pretensione: “Mira que el Principe quiere capitular conmigo” […]» (B.CROCE, Il “viceregno” e la mancanza di vita politica nazionale, in Storia del Regno di Napoli,  Bari 1966, p. 92). In questo clima di grande tensione un altro avvenimento scosse profondamente l’intera società napoletana ovvero l’ordine di soppressione, da parte del Toledo, dell’Accademia pontaniana, uno dei centri di cultura più importanti del regno. Francesco Alois venne arrestato per sospetto d’eresia, mentre Scipione Capece, altro membro dell’accademia fondata dal Pontano, venne rimosso dalla carica di consigliere del Sacro Regio Consiglio e morì il 9 dicembre 1551, mentre era ospite di Ferrante  «cui era legato da vincoli di affinità, perché cugino della moglie Isabella Villamarino».
Diverse erano le accademie dislocate nell’intero regno; tra le stesse ricordiamo quelle salernitane degli Accordati e dei Rozzi sostenute, nel secolo XVI, da Ferrante Sanseverino.
Le conseguenze della lite sorta fra il Toledo e il principe salernitano si fecero sentire anche negli anni successivi. Nel 1549 il Sanseverino si recò a Genova per omaggiare Filippo II, ma fu ricevuto «assai poco onorevolmente tanto che se ne tornò a Napoli “più stizzito di prima”»; nel 1551, invece, don Garzia Toledo, figlio di don Pedro, nascostosi con alcuni suoi uomini nei pressi di Vietri sul Mare, attentò alla vita del principe che ritornava da Napoli a Salerno. Nonostante la mira fosse stata rivolta al petto, il signore rimase ferito al ginocchio sinistro.
La lentezza del processo indusse Ferrante a muovere ulteriori accuse nei confronti del Toledo, ma ciò non fece altro che istigare e provocare ancor più il funzionario spagnolo che, deciso a togliere definitivamente di mezzo il signore salernitano, «gli intentò una causa imputandolo di eresia, di ribellione e d’altri misfatti». Furono questi, dunque, alcuni dei motivi fondamentali che indussero il princeps a trasferirsi prima a Venezia poi a Padova, dove, tra l’altro, tentò di curare nel migliore dei modi la ferita. Ripose, quindi,  tutte le sue speranze in Enrico II, prima, negli stessi Turchi alleati dei Francesi dopo, mentre una lirica del Tasso conferma chiaramente la sua grande deferenza nei confronti del re francese:

Invittissimo Errico, or che all’ardente
                                                Vostra virtù tant’è fortuna amica,
                                                Che, quasi un Sol che sorga d’Oriente,
                                                Sgombra ogni nebbia che la terra implica;

                                              Volgete l’armi, e l’animosa mente
                                                 Ove pur di chiamarvi s’affatica
                                                 Con le bellezze sue languide e spente
                                                 Napoli, vostra tributaria antica.

Non vi perdete occasion sì bella,
                                                        Or che v’arride il cielo: or che seconda
                                                         E destra avete ogni benigna stella.

Sì vedrem poi nella sua lieta sponda
                                                  Andar cantando Errico ogni donzella;
                                                  E rallegrarsi il ciel, la terra e l’onda.

Il sonetto si apre con l’invocazione di Bernardo Tasso, segretario del Principe, a Enrico II, affinché con la sua grande virtù conduca il suo esercito nel territorio napoletano, per debellare definitivamente il predominio spagnolo. Dopo la pace di Cateau Cambrésis, tuttavia, Ferrante «non ebbe più l’appoggio del sovrano e finì non povero, ma ignorato e negletto»;
 abiurò  la fede cattolica e divenne ugonotto dopo il suo matrimonio (morta Isabella) con una donna avignonese.  

(Seconda parte: Ferrante Sanseverino e la cultura a corte)

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