GAMBINO: le ombre di “Linea d’ombra” … la Cassazione risarcisce

 

Aldo Bianchini

SALERNO – La mattina del 15 luglio 2011 l’intera provincia di Salerno venne scossa dalla notizia di alcuni arresti clamorosi nell’ambito dell’inchiesta giudiziaria denominata “Linea d’ombra” che ipotizzava un “sistema Pagani” di collusione tra politica e camorra, condotta dall’allora tenente dei Carabinieri Marco Beraldo, diretta dal pm Vincenzo Montemurro (che aveva chiesto gli arresti) e confermata dal gip Gaetano Sgroia (che aveva emesso l’ordinanza di custodia cautelare in carcere).

Quello stesso giorno intorno alle ore 12, l’Arma dei Carabinieri (Comando provinciale di Salerno) diffuse il seguente laconico e sferzante comunicato stampa:

  • Un patto criminale, un accordo tra contraenti di pari livello senza un soggetto dominante finalizzato allo scambio elettorale politico-mafioso ma con interessi evidenti su tutta la vita pubblica del Comune di Pagani e su quelli limitrofi, è quello che i carabinieri del Comando Provinciale di Salerno agli ordini del Colonnello De Marco, coordinati dalla Direzione Distrettuale Antimafia, ritengono di aver spezzato. In mattinata i militari della Tenenza di Pagani guidati dal Tenente Beraldo, in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip del Tribunale di Salerno Sgroia nei confronti di Alberico Gambino, ex sindaco di Pagani ed attualmente consigliere regionale, e di altre sei persone. In manette sono finiti anche Giuseppe Santilli consigliere comunale del Pdl, l’architetto Giovanni De Palma capo settore urbanistica del Comune di Pagani, Raffaele Trapani, imprenditore e presidente della Paganese Calcio, Francesco Marrazzo, imprenditore e vicepresidente della Paganese, Michele Petrosino D’Auria, dirigente del consorzio del Bacino Salerno 1, e suo fratello Antonio, ufficialmente nullafacente e genero del boss Tommaso Fezza. I delitti, secondo la Procura di Salerno, diretta da Franco Roberti, sarebbero stati commessi con l’aggravante dell’attività di agevolazione del clan Fezza-D’Auria Petrosino, attivo nell’agro nocerino. Gambino, fino a poco tempo fa primo cittadino a Pagani, assieme alle altre persone finite in cella avrebbe creato un sistema che, con la complicità di politici locali e di livello regionale, consentiva al gruppo di gestire la vita pubblica e di controllare le principali attività economiche e imprenditoriali della zona (parliamo di lavori, assunzioni, parcheggi, rifiuti e quant’altro). Il quadro probatorio raccolto dagli inquirenti in tutta Italia, con dichiarazioni delle vittime, intercettazioni telefoniche ed ambientali, registrazioni, documenti, è composto da prove incontrovertibili, così che il gip ha firmato immediatamente il provvedimento affinchè le condotte in contestazione che erano ancora in atto (estorsioni ad imprenditori, concussione per la presenza tra gli estorsori di esponenti che esercitano funzioni pubbliche e così via) potessero essere interrotte. Sotto la lente d’ingrandimento saranno poste tutte le competizioni elettorali a cui Gambino ha partecipato dal 2006 in avanti. Intanto, visto il quadro accusatorio, la vicenda è stata segnalata alla Prefettura, che dovrà decidere sull’eventuale scioglimento del Comune di Pagani per infiltrazione mafiosa. Il provvedimento eseguito oggi non è affatto conclusivo delle indagini che, anzi, vanno avanti e potrebbero portare a sviluppi inattesi a breve.

Per la cronaca, quella stessa mattina presi subito le distanze dal comunicato stampa sopra riportato che mi appariva più come una sentenza definitiva passata in giudicato piuttosto che un semplice comunicato stampa informativo degli arresti; posi subito delle domanda a me stesso ed alla platea deli lettori ed iniziai una battaglia del tutto solitaria per il riconoscimento dell’innocenza di molti imputati che, nelle more delle lungaggini dei processi di primo e secondo grado, rimasero in cella per un tempo assolutamente ingiustificato (qualcuno circa un anno e mezzo).

Quelle “prove incontrovertibili” gelidamente rassegnate alla stampa ed al tribunale dall’allora comandante generale provinciale dell’Arma dei Carabinieri sono naufragate e si è arrivati dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione che, al momento, ha giudicato le prime tre richieste di risarcimento per la giusta carcerazione subita.

Tutte e tre accolte con una sentenza che lascia addirittura ampi spazi per una richiesta di integrazione del risarcimento che al momento è stato fissato, e già devoluto, per un importo complessivo di 300mila euro per tutti e tre gli ex imputati; mi astengo dal riferire i nominativi dei tre risarciti soltanto per motivi legati, ovviamente, alla loro privacy; aggiungo solo che sono tra i principali imputati.

A questo punto, però, qualcuno dovrebbe pur chiedersi quanto è costata allo Stato ed a noi tutti l’operazione giudiziaria passata alla storia con il nome di “Linea d’ombra” e per la concretizzazione della stessa lo Stato impegnò un numero elevato di uomini (risorse umane) per mettere in piedi un quadro probatorio rivelatosi, poi, fasullo: interrogatori, intercettazioni telefoniche ed ambientali, registrazioni, documenti, ricorsi istituzionali (gip, gup, riesame, cassazione, tribunale, appello, cassazione) per un costo globale davvero da fantascienza; costo sostenuto naturalmente da denaro pubblico.

E per avere quale risultato ?, che alle cifre già altissime bruciate sull’altare di una presunta e forzata colpevolezza devono essere, oggi, aggiunti i primi risarcimenti (già incassati) per un totale di 300mila euro.

Siamo tutti soddisfatti di questa giustizia ? lascio la domanda senza risposta.

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