IL VALLO DI DIANO AL TEMPO DEI ROMANI. GLI AGRIMENSORI, DA MISURATORI DI CONFINI AD ARTISTI DELLA SUDDIVISIONE TERRITORIALE (due puntate in una)

Dr. Michele D’Alessio

(giornalista-agronomo)

 

 

 

 

 

 

 

Come abbiamo ben spiegato negli articoli precedenti, la caratteristica essenziale della suddivisione agraria fatta dai Romani è la sua regolarità geometrica, che si basa sull’incrocio ad angolo retto delle linee di divisione. In sostanza, gli agrimensori romani dividevano il terreno da assegnare con una griglia di linee parallele e perpendicolari, che formavano maglie quadrate o rettangolari. La geometria è un criterio che “fu evidentemente scelto perché un reticolato di misure identiche permetteva una facile misurazione dei terreni da assegnare con un criterio di eguaglianza e favoriva una ordinata sistemazione di bonifica agraria e una facile amministrazione catastale”. Chi si occupava della suddivisione agraria erano chiamati agrimensori, che riportati nel nostro tempo sarebbero gli attuali Topografi, come ci racconta il nostro esperto di storia e scrittore pollese il dottor Vitantonio Capozzi

“….Ci sono molti siti che descrivono come gli agrimensori, che in effetti erano anche dei topografi, usavano la groma. Lo strumento è costituito da tre parti fondamentali: stelletta, rostro e ferramento. La stelletta è fatta di due assi uguali messi a croce ad angolo retto, in metallo; dalle estremità, che sono dette curnicula, cadono quattro fili a piombo con pesi accoppiati a cono e a pera. Il tutto è sostenuto dal rostro, asta robusta con le estremità a cilindro: in una estremità si innesta il perno girevole della stelletta, l’altra estremità serve per l’innesto al bastone verticale. Il rostro è anche detto mensola. La distanza fra gli assi dei due cilindri misura esattamente un piede (circa 30 cm). Poi c’è il ferramento, che è il bastone in metallo cavo, atto ad essere supporto del rostro. Il ferramento ha l’estremità inferiore fatta a punta metallica a cono, con alette di presa, da infiggere nel terreno. Ma questo non basta. V’è da ritenere che la groma venisse posizionata col ferramento infisso al suolo in posizione esattamente verticale, all’uopo servendosi dei fili a piombo, con i quali se ne controllava il parallelismo. Successivamente, mediante un quinto filo a piombo, si faceva in modo che il centro della stelletta fosse corrispondente al punto di stazione. C’era quindi anche un cono di legno, che veniva posizionato per fissare il riferimento al punto di stazione e la punta veniva conficcata nel terreno oppure su di un cippo lapideo portatile. La groma, a questo punto, era pronta per l’uso. Poiché i fili a piombo cadenti dalla cornicula costituiscono due coppie di traguardi, l’uso della groma consisteva nel mirare i vari punti del terreno proprio attraverso questi traguardi. Innanzi tutto, quindi, la croce dello strumento doveva essere orizzontale, col filo a piombo centrale che determinava il punto di stazione. A corredo dello strumento, c’erano due mete, ossia due paline, che venivano posizionate nella direzione voluta, verificata coi traguardi dati dai fili a piombo. Una volta stabilita la direzione lungo la quale tracciare la prima linea, per esempio il decumano, il gromatico, utilizzando la groma e avvalendosi degli assistenti, faceva posizionare le due mete. Subito dopo, egli stesso controllava la posizione delle due mete, tramite un asse dello strumento, in modo che i tre fili a piombo della groma e le paline fossero allineati. A questo punto, utilizzando l’altro asse, quello perpendicolare al primo, si procedeva poi al posizionamento delle paline lungo la linea del cardine.

Addentriamoci ora in un aspetto importante che concerneva la ricerca della perpendicolarità.

Sappiamo che gli agrimensori usavano spesso il verbo perpendere, che è generalmente tradotto con il significato di pesare esattamente, vagliare, considerare, esaminare. E poiché la parola è associata al ferramentum ed alla messa in stazione della groma, è molto probabile che il corretto significato sia da ricercare nella verticalizzazione dello strumento. Ossia, perpendere assume il significato di trovare la perpendicolarità dello strumento. Del resto questa operazione era ritenuta indispensabile per evitare gli errori di mira e ottenere così la giusta precisione negli allineamenti. Grazie al filo a piombo, il centro della squadra veniva posto sulla verticale del punto di stazione individuato sul terreno (umbilicus soli), che di solito era rappresentato da un elemento permanente in pietra o in legno fissato sul terreno. A dire il vero però, questa operazione non garantiva la perfetta verticalità. Dobbiamo anche osservare che innanzitutto il punto di infissione del ferramentum doveva trovarsi ad una distanza dal punto di stazione, che risultava essere pari alla lunghezza del rostro (distanza asse di rotazione stella – asse di rotazione mensola). A questo punto si ruotava la mensola, ossia il rostro, finché il filo a piombo centrale non si veniva a trovare in perpendicolare sopra il punto di stazione. Se ciò non accadeva era evidente che il ferramentum non era in perfetta posizione verticale. Del resto, l’utilizzo della groma non era affatto semplice. È verosimile pensare anche che l’umbilicus soli non potrebbe intendersi come un punto nel terreno ma come uno strumento capace di facilitare l’operazione necessaria per render verticale la groma. Come anche si potrebbe pensare ad un accessorio mobile del ferramentum, ad una sorta di stelo metallico girevole, della stessa lunghezza del rostro, dotato di un anello di chiusura che gli avrebbe permesso di essere fissato all’altezza desiderata sul ferramentum, con la previsione, all’altra estremità, di un’asola tale da accogliere la punta del filo a piombo centrale. Un tale sistema, del resto, avrebbe consentito la rapidità di eseguire rapidamente e, in tutta sicurezza, l’operazione di corretta messa in stazione della groma stessa. L’anello di questo strumento doveva essere con tutta evidenza un ombelico, utilizzato per centrare lo strumento, da intendersi insomma come una sorta di messa in bolla…”

Gli agrimensori, una volta suddiviso i lotti da assegnare, dovevano poi produrre una documentazione dettagliata della nuova situazione catastale, e quindi dovevano redigere forma e, ossia mappe, e anche dei libri di accompagnamento. Gli agrimensori svolgevano, come si è visto, una moltitudine di attività, che andavano dagli aspetti più tecnici a quelli più teorici della colonizzazione romana, erano dei veri artisti dell’uso della geometria e non solo.

 

IL VALLO DI DIANO E LA FONDAZIONE DELLE COLONIE ROMANE NEL VALLO (AULETTA, POLLA, ATENA  L, SALA C.)  E L’APPORTO DELLA DOCUMENTAZIONE EPIGRAFICA

 

Dr. Michele D’Alessio (giornalista)

 

La viabilità del Vallo di Diano in età romana ed i suoi collegamenti con le aree di interesse economico e culturale site nella stessa Lucania ma anche con il Bruttium e la Campania è l’erede e la testimonianza, nella gerarchia dei suoi percorsi, della dinamica storica in cui la sua vocazione territoriale di trait d’union strategico ha ricoperto un ruolo di primo piano, soprattutto a partire dall’VIII sec. a. C., in seguito alla formazione di una rete di centri di potere economico. La viabilità, già in periodo lucano (IV-inizi III sec. a. C.), entra a far parte di un sistema federale che controlla anche fattorie e santuari rurali collegati tra loro da una fitta rete interna di raccordo ma anche gli itinerari più lunghi di collegamento con aree del Tirreno e dello Ionio (D’Henry, 1981, pp. 181-197). La viabilità del Vallo di Diano ricade in un territorio di cui non si è individuata una propria denominazione geografica in età romana ed il campus Atinas (v. Cicerone e Plinio il Vecchio) comprende il territorio pianeggiante, appunto il campus, posto intorno alla città di Atina (Fraschetti, 1981, p. 201). Tale area ha risentito tramite la viabilità principale pedemontana, e, quindi, più al sicuro da rischi alluvionali e paludosi, delle vicende legate alla conquista romana del 272 a. C., ai passaggi di Annibale ed Annone durante la seconda guerra punica, dei danni provocati dalla guerra e dalle successive trasformazioni territoriali in ager publicus amministrato da prefetti nelle principali località, che per lo più avrebbero conservato lo statuto di città federate, recependo istituzioni romane innestate su precedenti statuti locali, soprattutto dopo la loro trasformazione in municipi. La legge agraria, la centuriazione e la via Regio-Capuam.  Quanto alla legge agraria di Tiberio Gracco, che nel 133 a. C. doveva provvedere alla distribuzione di appezzamenti dell’ager publicus al proletariato di Roma (Fraschetti, 1981, p. 207), nel Vallo di Diano fu applicata nel 131 a. C., come documentano i cippi graccani rinvenuti a Polla, ad Atina, a Sala Consilina, nell’agro di Volcei, collocati presso la via fa Reggio a Capua che, probabilmente rappresentava nel Vallo il decumano massimo (Fraschetti, 1981, p. 205). Lo ribadiscono Guariglia e Panebianco, secondo i quali anche i sentieri attuali intersecantisi ad angolo retto rappresentano le tracce della suddivisione6 , in rapporto alla strada ed alla centuriazione della regione; qui, comunque, gli effetti di tale iniziativa non dureranno a lungo in quanto il ceto di piccoli e medi proprietari, che si era formato in seguito alle assegnazioni graccane e alla guerra sociale e civile scomparirà abbastanza rapidamente, secondo un processo, già iniziato nel I sec. a. C. (Coarelli, 1981, p. 227). Per i dettagli ci affidiamo all’ormai noto studioso e scrittore Dottor Vitantonio Capozzi di Polla, che con le sue ricerche del Vallo  nel periodo romano sta suscitando parecchio interesse “…I Romani man mano che sottomettevano con le armi le regioni d’Italia, si impadronivano di parte del territorio e vi fondavano città (Appiano, Bella Civilia 1.29). Le città non erano altro che colonie e potevano essere direttamente fondate dai romani oppure realizzate su centri abitati preesistenti, successivamente ristrutturate secondo l’organizzazione che i magistrati romani nominati dai Comitia davano ai centri urbani. La fondazione delle colonie in realtà era una pratica antica che gli stessi romani assegnavano alle popolazioni preromane. La decisione di fondare (o come si usa dire di dedurre) una colonia era un atto ufficiale della Res Pubblica che reclutava la popolazione dei nuovi residenti (coloni). In età repubblicana la fondazione di una colonia veniva deliberata dalle assemblee popolari (Comitia), su conforme proposta dei tribuni della plebe o anche dei consoli che operavano su decisione del Senato, mentre, durante il periodo delle magistrature straordinarie (dittature o triumvirati) la fondazione delle nuove colonie veniva assunta direttamente dai magistrati supremi e, successivamente, in età imperiale, la decisione dipendeva esclusivamente dall’imperatore. Ma andiamo per gradi, cercando di approfondire nei suoi dettagli il meccanismo, le finalità e le ragioni delle fondazioni durante il periodo repubblicano. In questo periodo Roma estese gradualmente la sua egemonia sull’Italia centrale e sul mondo mediterraneo con un complesso sistema di alleanze di cui i vari centri entravano a far parte in maniera diversa a seconda delle loro caratteristiche culturale, economiche e dell’atteggiamento nei confronti di Roma. Le più antiche colonie di cui è pervenuta notizia risalgono al V – IV secolo a.C., ai tempi dell’alleanza fra Roma e i Latini (Foedus Cassianum), quando vennero creati nei territori conquistati dei centri autonomi e sovrani nell’ambito del territorio assegnato. In virtù di questa alleanza, i Latini, a differenza delle altre popolazioni italiche, godettero di condizioni particolarmente favorevoli. Nello specifico, beneficiavano di importanti diritti, tra i quali ricordiamo lo ius commercii (diritto di stringere rapporti commerciali giuridicamente validi con i cittadini romani); lo ius conubii (diritto di contrarre matrimonio legittimo con cittadini romani); lo ius migrandi (possibilità di acquisire la piena cittadinanza trasferendosi a Roma). In seguito, quando i Latini ricevettero la piena cittadinanza romana, l’espressione ius Latii rimase ad indicare uno status giuridico intermedio tra la condizione di cittadini di pieno diritto (cives) e quella di stranieri (peregrini). Per garantire la romanizzazione dei territori conquistati, Roma inviò nelle regioni di recente acquisizione gruppi di cittadini romani a fondare nuove città, oppure ad aggiungersi a comunità preesistenti. Queste colonie potevano, quindi, essere costituite da soli cittadini romani e, in tal caso, erano assimilate ai municipia optimo iure; quando invece i coloni entravano a far parte di un centro già esistente, la nuova colonia veniva considerata come una città federata o come città di diritto latino, qualora fosse stata formata da un mix di coloni romani e latini insieme; in questo caso, quei cittadini romani che partecipavano alla fondazione della colonia, perdevano la cittadinanza. Di solito le colonie erano di dimensioni medio-piccole e godevano di una certa autonomia amministrativa, possedendo un Senato, un’ assemblea popolare e propri magistrati, i duoviri. La deductio di una colonia era di solito decisa da un senatus-consultum, seguito da un plebiscitum, che, oltre a stabilire la posizione geografica, attraverso la distribuzione del territorio conquistato (ager pubblicus), venivano fissate le dimensioni del nuovo centro urbano, ivi incluso l’elenco dei coloni. Occorreva quindi realizzare spazi comuni sin dalle origini che diventano il centro di mercato e della vita collettiva dei coloni. Questi spazi centrali costituivano il foro (forum), dove ben presto vengono costruiti degli edifici di interesse pubblico come le osterie (cauponae), locande, bordelli, templi. Nel foro le divinità venerate erano quelle della triade capitolina (Giove, Giunone, Minerva), ma anche quella di Apollo. Talvolta viene venerata la memoria di colui che ha creato il forum o che l’ha monumentalizzato (per es. Forum Livii –> oggi Forlì, oppure Forum Popilii –> oggi Forlimpopoli). Il sistema della deduzione delle colonie servì per rinsaldare il potere di Roma e per dislocare lungo le strade consolari centri strategici sotto il profilo militare, logistico ed economico. Il territorio delle colonie veniva centuriato e in parte assegnato in lotti ai coloni che dovevano coltivarlo e trarne il necessario sostentamento. A tale proposito è davvero significativa l’epigrafe di Polla, detta Lapis Pollae o Eogium, laddove si fa cenno alla costruzione, da parte del costruttore della strada consolare Regio-Capua, di un foro con annessi edifici popolari. Su questo argomento avremmo modo di soffermarci, in altra occasione, per analizzare nei suoi dettagli l’epigrafe romana. Riprendendo il tema sulle colonie, queste potevano essere di due tipi: latine e romane. In quelle latine venivano insediati cittadini romani, latini, ma anche italici, i quali acquistavano la cittadinanza latina della colonia che formalmente risultava autonoma ed alleata di Roma. L’ordinamento delle colonie latine ricalcava quello dello Stato romano con un senato, assemblee popolari e magistrature. Avevano leggi e contingenti militari autonomi e potevano battere moneta. Nei confronti di Roma avevano l’obbligo di fornire aiuti militari ed economici in caso di stato di guerra o di necessità. Le colonie romane erano formate da cittadini romani di pieno diritto ed erano considerate parte integrante dello Stato romano e in quest’ambito avevano diritto di voto. Inizialmente dipendevano direttamente da Roma ma in seguito furono dotate di organismi (senato, assemblee, magistrature) autonomi ma con giurisdizione limitata. Esisteva infine una forma di colonizzazione che non comportava la deduzione di coloni ma solo la distribuzione di terre. Questa forma di colonizzazione, che normalmente avveniva nei territori meno esposti sul piano militare, viene definita assegnazione viritana ….”

Dalle informazioni del dottor  Capozzi (che ringraziamo sempre per la sua disponibilità  e grande conoscenza storica) possiamo dire con certezza, che il processo di romanizzazione del Vallo è quindi connesso alla centuriazione (Fraschetti, 1981, p. 206) ed all’apertura dell’importante strada che, congiungendo Capua a Reggio, lo attraversava, come si evince dal famoso testo dell’epigrafe di Polla: un magistrato romano di cui non ci è pervenuto il nome, dichiara orgogliosamente di aver costruito la strada da Reggio a Capua e di avervi posto tutti i ponti, i miliarii e i tabelarii. Inoltre riporta la distanza in miglia tra le varie località interessate dal percorso: dal Vallo a Nocera 51 miglia, a Capua 84, a Murano 74, a Cosenza 73, a Valentia 180, allo Stretto di Messina, detto “ alla Statua” 231, a Reggio 237. Quindi, da Reggio a Capua, in totale, sono 321 miglia. Inoltre ricorda che quando era pretore in Sicilia, ha fatto prigionieri, ha reso 917 schiavi fuggitivi (di proprietà) degli Italici e, per primo, ha fatto indotto i pastori ad abbandonare l’ager publicus a favore degli aratori. Infine, in quel luogo ha costruito il foro e gli edifici pubblici, in un luogo attraversato dalla strada (Coarelli, 1981, p. 206), presso l’attuale borgo S. Pietro, quasi ad egual distanza tra la località ad Calorem e Atina, ed in età imperiale dipendente amministrativamente da Volcei.

MICHELE D’ALESSIO

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *