LA VERITA’ FUORI DAL PROCESSO: nuovo affondo di Giovanni Falci

 

La redazione

 

SALERNO – Continua il dibattito su “la verità fuori dal processo”; ritorna all’attacco l’avv. Giovanni Falci con un nuovo interessante pezzo di approfondimento sul mondo della giustizia ed in particolar modo del mondo nato e cresciuto dopo il nuovo codice di procedura penale.

 

 

Giovanni Falci:

Riprendendo il discorso sul “nuovo codice” di procedura penale e in genere sulla “giustizia malata” è bene fare alcune precisazioni.

Il codice originario prevedeva sì uno sbilanciamento verso il PM nella fase delle indagini (potevi essere indagato a tua insaputa), ma questo era controbilanciato dal fatto che quelle “prove” raccolte a tua insaputa, non potevano essere utilizzate nel dibattimento.

Restavano nel fascicolo del PM e la prova si formava in dibattimento nel contraddittorio delle parti in attuazione delle norme della Convenzione dei diritti dell’Uomo (art. 6 CEDU: Ogni accusato ha più specialmente diritto a (…) interrogare o far interrogare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’interrogazione dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico)

Durante il dibattimento il PM o anche la difesa potevano ricorrere a quei verbali di prova contenuti nel fascicolo del PM “solo” per procedere a contestazioni.

In buona sostanza di fronte al teste che aveva detto ai Carabinieri nel corso delle sue s.i.t. (sommarie informazioni testimoniali) rese all’interno della caserma, che “aveva visto l’imputato fare una determinata cosa” e, poi, a dibattimento aveva detto che “non aveva visto l’imputato fare quella determinata cosa”, il PM poteva “contestare” questa contraddizione, ma ….. non poteva acquisire al fascicolo del dibattimento il verbale della testimonianza resa nelle indagini e ….. il Giudice non poteva “ricostruire il fatto” sulla scorta di quella deposizione.

In definitiva la contestazione poteva solo essere valutata ai fini della credibilità del teste.

Nell’economia della motivazione il Giudice poteva dire che non riteneva attendibile quel tale teste sulla scorta delle contestazioni avvenute, non lo utilizzava per quello che aveva deposto, e non utilizzava e ricostruiva il fatto sulla scorta della precedente deposizione.

La contestazione neutralizzava il teste e lo escludeva dagli argomenti su cui motivare.

Tornando al nostro caso, il Giudice non avrebbe potuto scrivere in sentenza che condannava l’imputato perché il teste, come risulta aver detto in caserma “aveva visto l’imputato fare una determinata cosa”……

Poi è successo qualcosa che ha cambiato tutto.

Una silenziosa sentenza della Corte Costituzionale, la sentenza 255 del 18.05.92, ha di fatto distrutto il codice.

Un codice è fatto di norme che si mantengono in armonia ed equilibrio una con l’altra, sono ordinate in modo che c’è un legame; è una sorte di muro costruito da tanti mattoni che sono le singole norme.

Se togli un mattone, se abolisci una norma, il muro frana come è avvenuto nel nostro caso.

Era il 1992 pochi giorni prima della strage di Capaci e l’anno prima di Tangentopoli.

La Corte Costituzionale sentenziò che l’art. 500 c.p.p. era incostituzionale nella parte in cui prevede il potere del giudice di allegare nel fascicolo processuale, tra gli atti utilizzati per le contestazioni, solo le sommarie informazioni assunte dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell’immediatezza del fatto, e non anche le dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero.

Il sistema accusatorio è praticamente finito quel giorno.

 

Ha ragione Salvatore Memoli quando dice che “Il dibattimento dovrebbe essere il luogo per eccellenza dove l’assunzione della prova ammette un contraddittorio vibrante ma un istinto di conservazione naturale spinge a salvaguardare comportamenti che non evitano il gravoso peso delle accuse”.

Non so se a caso o meno ma è stato veramente un istinto di conservazione a fare modificare quella norma che ha di fatto azzerato il sistema accusatorio.

Quella sentenza della Corte Costituzionale, come gran parte delle pronunce di quell’organo, ha sottostanti ragioni politiche.

All’epoca al Ministero della Giustizia c’era Giovanni Falcone il quale aveva ben capito che i processi di Mafia, soprattutto quelli istruiti sulle chiamate in correità dei collaboratori di giustizia, sarebbero naufragati in dibattimenti nei quali il pentito avrebbe potuto “ripensarci” su quello che aveva detto nella fase delle indagini.

Ecco allora che bisognava intervenire con una “piccola” modifica che però ha travolto lo spirito di quel codice.

Da quel momento veramente tutto il sistema si è sbilanciato verso l’accusa.

Nelle fasi delle indagini puoi raccogliere elementi di nascosto, senza contraddittorio che, poi, saranno prove a tutti gli effetti attraverso le contestazioni che garantiscono di far transitare il verbale di s.i.t. nel fascicolo del dibattimento.

Da quel momento e a seguito di quella pronuncia del giudice delle leggi, quel giudice di cui prima potrà scrivere nella sentenza che “condanna l’imputato perché il teste, come risulta aver detto in casermaaveva visto l’imputato fare una determinata cosa”…… e nonostante a dibattimento abbia negato tale circostanza.

Il “meccanismo giudiziario davvero infernale” di cui parla Aldo, sicuramente non l’hanno voluto gli avvocati “con l’emanazione del cosiddetto “nuovo codice di procedura penale” del 1989”, quello funzionava perché in quel codice “il nodo centrale dell’inchiesta era nell’aula”.

E’ stata la Corte Costituzionale a consegnare con quella sentenza “enormi poteri investigativi gratuiti ai PM”.

Nelle università solo per tre anni si è sperato e studiato un processo accusatorio, quasi all’americana.

Ci siamo abituati a processi che accertano la verità processuale e tralasciano la realtà” dice Salvatore Memoli; ma questo è inevitabile.

Nel processo non si potrà mai raggiungere una prova scientifica, quindi certa, di ciò che è accaduto nel passato.

Il metodo scientifico è basato sul principio dell’esperimento e dunque della verifica.

Non è possibile perciò verificare oggi ciò che è accaduto in precedenza.

Non è possibile fare l’esperimento!

Per questa ragione è possibile che giudici razionali giungano a conclusioni opposte.

La verità dipende dalla prova.

Come disse Bentham, il campo della prova non è altro che il campo della conoscenza.

Un processo che ritiene utilizzabile una confessione estorta giunge ad una verità ben diversa da un processo che ritenga inutilizzabile quella prova.

Ma non è solo un problema di prove.

Se prendiamo ad esempio il processo del caso O. J. Simpson che fece molto scalpore negli Stati Uniti ci accorgiamo che una giuria lo ha assolto; da noi lo avrebbero condannato senza tanti patemi d’animo.

Questo avviene perché le stesse prove portano a giudizi diversi.

Il fatto è che le stesse prove possono essere giudicate con tecniche di giudizio diverse.

Ci si può affidare ad una gerarchia legale di prove come avveniva nel medio evo, o al libero convincimento di giudici professionali come avviene da noi; o ci si può affidare alla giuria.

Come dire: facciamo giudicare alla legge (prove legali); mettiamoci nelle mani dei giudici tecnici (libero convincimento di giudici professionali); oppure diamo piena libertà a persone comuni che ragionano con buon senso (giuria), come avviene negli Stati Uniti.

Perciò non è semplice l’affermazione di salvatore Memoli non è più consentito affidare la vita dell’imputato a margini di creatività che non hanno nulla a che fare con l’oggettività delle condotte e l’obiettività della valutazione della reale infrazione della norma.

Il processo è sempre stato un modo di accertare la verità, ma spesso si è accontentato della certezza (soggettiva) piuttosto che della verità (oggettiva).

Il fine a cui tende il processo è la certezza di aver raggiunto la verità, ma non è stato ancora inventato un mezzo che garantisca il fine.

Il dramma è proprio qui: che molte volte confondiamo la verità con la certezza.

La certezza è pericolosa perché ci mette in balia delle credenze private del giudice.

E’ la verità che ci garantisce. Ma il fatto è che non saremo mai in grado di aver raggiunto la verità.

Dice Senofonte: “ma la certa verità nessun uomo l’ha mai conosciuta, né mai la conoscerà. (…) Ché se anche per caso giungesse ad esprimere la perfetta verità, neppure lui lo saprebbe: poiché tutto non è altro che una tela intessuta di congetture”.

Ed è qui che riecheggia il perenne monito di Manzoni nella “storia della colonna infame”: “è men male l’agitarsi nel dubbio, che il riposar nell’errore”.

Alla prossima per tentare di dare una risposta al quesito: qual è il tipo di processo che più ci consente un avvicinamento alla verità?

Giovanni Falci

 

 

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