Travaglio di un militante

Di Pasquale  Borea

Gentile direttore,

non intendo con queste righe effettuare un esercizio di protagonismo o richiamare l’attenzione sulla mia personale visione del panorama politico nel momento attuale, ma piuttosto offrire uno spunto di riflessione. Se critica è, lo spirito con il quale la stessa è proposta vuole essere costruttivo, riflessivo, nella convinzione che la politica di questi tempi ha bisogno più che mai, fuori e dentro i partiti, di riflessioni franche, libere e coraggiose. I partiti della seconda Repubblica appaiono oggi come dei malati terminali, non solo e non tanto in ragione della crisi del sistema politico nel suo complesso, quanto piuttosto per l’incapacità della sua classe dirigente di portare avanti un progetto politico e di traghettarlo verso il futuro, attraverso un meccanismo di confronto, di pensiero e di azione, tale da condurre alla elaborazione di proposte e all’ impegno perché le stesse si traducano in fatti, condivisibili o meno, che siano in grado di lasciare un segno, e dunque di testimoniare l’impegno credibile dei singoli all’interno di un “contenitore” politico. Gli scandali degli ultimi tempi, il malgoverno diffuso, l’incapacità di offrire alla collettività una visione per il futuro, sono irrimediabilmente il frutto dell’approssimazione, dell’inadeguatezza, in primo luogo culturale, della classe dirigente e della conseguente incapacità della stessa di arginare al proprio interno il decadimento che conduce all’attuale, dilagante, sentimento di anti-politica. Parlando a chiare lettere, vi sono delle responsabilità ben precise dei massimi dirigenti politici, a livello nazionale quanto locale, che risiedono in alcune scelte scellerate, in gran parte dipendenti da un’altrettanto scellerato sistema elettorale che ancora oggi si tentenna a modificare, che ha consentito a quegli stessi dirigenti di circondarsi, nella migliore delle ipotesi, di “yes men” incapaci di elaborare una proposta, una visione autonoma, una critica, e nella peggiore, di introdurre in posizioni di vertice personaggi inadeguati, improponibili, poco attrezzati culturalmente e poco adatti ai ruoli, spesso lautamente retribuiti, nei quali si sono ritrovati. Ciò è riconducibile, a mio sommesso avviso, non solo alla incapacità dei vertici di selezionare la classe dirigente, quanto al timore degli stessi di selezionare una classe dirigente “pensante”, dal loro punto di vista in grado di attentare alla stabilità delle leadership (tanto a livello nazionale quanto a livello locale). La mia personale esperienza di militanza mi ha dato prova che spesso, troppo spesso, quei dirigenti e militanti “pensanti” sono stati messi in ombra, piuttosto che essere valorizzati, in ragione di un “velato timore” di perdita di leadership, o molto più volgarmente di perdita di potere da parte dei capi. Un autorevole e raffinato esponente della prima Repubblica del resto sosteneva che “il potere logora chi non ce l’ha”, ma negli ultimi tempi, tuttavia, sembra logorare anche chi quel potere lo detiene da tempo. Tutto ciò ha inevitabilmente condotto il paese ad avere, da un lato, un “leaderismo” sfrenato che attribuisce all’Italia il demerito di avere una classe politica fra le più vetuste del mondo, e dall’altro ad un ricambio generazionale che  in parte vi è stato, ma lo stesso è fortemente viziato, salvo rarissimi casi, da una carenza di qualità. Il “ricambio” è in gran parte avvenuto attraverso personaggi scelti in base alla loro capacità di “non nuocere” al potere costituito, alla loro “non autonomia” di pensiero, semplicemente perché l’esigenza è stata quella di consentire un “finto ricambio” fatto spesso di replicanti adulatori, di gente che applaude, che non contraddice, che esegue, che ha una gratitudine malsana perché interessata, che è costretta perché ricattabile, o perché magari ad essere ricattabile dai replicanti “volti nuovi” è il leader “maximo”, o “minoris generis” che sia.In questo modo si sono moltiplicati  i casi di dirigenti, tesorieri, amministratori, assurti agli onori della cronaca -nel migliore dei casi- per la loro inadeguatezza, ovvero per i loro misfatti, che hanno in fin dei conti danneggiato gli stessi “leader”, i partiti, ed il senso comune di onorabilità della classe politica che è andato, via via, scemando. Di ciò vi sono numerosissimi esempi nel panorama politico nazionale e locale- si badi non solo nel mio partito- in cui dirigenti, neppure capaci di leggere quattro righe preparate alla carlona dinanzi ad una platea congressuale di militanti o di potenziali elettori, fomentano –soprattutto nei cuori delle giovani generazioni, spesso più attente e preparate di quanto si pensi- il sentimento di rifiuto. Nei casi più gravi, altri esponenti del ricambio generazionale senza qualità si fanno notare per latrocini, distrazioni di fondi, o condotte morali al limite della decenza che, soprattutto nell’epoca della “generazione 1.000 euro” stimolano, più che il rifiuto, l’olfatto collettivo, attraverso il puzzo nauseabondo di una classe politica lasciva, irresponsabile ed insensibile rispetto ai bisogni della gente che lavora e lotta tutti i giorni per andare avanti. Da qui l’esigenza dei meno indifferenti alla cosa pubblica di identificarsi in “contenitori” avulsi dallo schema partitico tradizionale, il Movimento 5 stelle a livello nazionale, o altri gruppi, anche a livello locale, penso ai “figli delle chiancarelle” salernitani, che riescono a farsi portavoce di esigenze della società, magari attraverso strumenti non convenzionali, quali l’ironia e la satira, che diventano forme di opposizione, di proposta, di alternativa, più efficaci delle sterili dichiarazioni di qualche dirigente o amministratore. Questi contenitori “non convenzionali” diventano allora sempre più spesso la reale opposizione, o il reale centro di elaborazione di proposte politiche di governo di territori o istituzioni, supplendo alla carenza di chi, invece, dei “contenitori” tradizionali fa parte, ma tende a galleggiare sullo scranno conquistato nel timore che una presa di posizione, ancorché libera e ragionata, possa portare alla perdita dell’incarico o della prebenda. Sia chiaro, non mi riferisco a nessuno in particolare, ma ad una tendenza diffusa, percepita ed in qualche caso conclamata, che in pochi hanno la franchezza di inserire nel dibattito politico.

A questo punto i partiti e le leadership sono dinanzi ad un bivio: o sono capaci di attuare rapidamente una riflessione interna, tale da consentire una catartica transizione generazionale di qualità, facendo emergere le personalità migliori, culturalmente attrezzate, in grado di elaborare e condurre un’azione politica disinteressata, moralmente solida, capaci di scaldare e conquistare l’elettorato piuttosto che dispiegare un potenziale economico per raccogliere un voto “drogato”, oppure l’adesione a contenitori non convenzionali, trascinata dal vento dell’anti-politica, li spazzerà via, senza tuttavia la garanzia che questi “contenitori” alternativi possano efficacemente governare enti ed istituzioni.

Vi è una terza via: quella che si è materializzata con l’uscita di scena del governo eletto (persistendo tuttavia un Parlamento di nominati) e la “supplenza” dei “tecnici”, ma a quel punto, per non correre il rischio che i tecnici siano una mera espressione di lobby o poteri, più o meno forti, tanto vale – ragiono per assurdo e con spirito provocatorio- che i rappresentanti delle istituzioni vengano nominati per concorso, a tempo determinato, qualche anno e poi a casa. In questo caso si avrebbe la garanzia che le istituzioni vengano rette dai migliori, certamente non immuni da vizi o errori, ma almeno scelti a seguito di un’ accurata ed obiettiva selezione, quella che i partiti sono stati, finora, incapaci di fare.

Grazie per l’attenzione,

                                                                                                                 Avv. Pasquale Borea

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