LINO TREZZA: l’ennesima morte bianca

 

Aldo Bianchini

SALERNO – Nonostante le ripetute campagne pubblicitarie di sensibilizzazione dei lavoratori e delle istituzioni in genere per le problematiche legate agli infortuni sul lavoro il numero degli infortuni, per cause violente in occasione di lavoro dipendente e autonomo, nel nostro Paese sono in aumento e anno dopo anno fanno crescere in tutti noi uno sgomento per l’inevitabilità degli eventi, anche luttuosi, che nessuno riesce a controllare ed ad abbattere. E pensare che nel nostro Paese la legislazione in materia di infortunistica sul lavoro è tra quelle più avanzate nel mondo ed è nata addirittura verso la fine del 1800 per essere poi disciplinata in maniera meticolosa nel 1955 con il DPR n. 547. Un decreto che ha preceduto di quasi quarant’anni le direttive europee degli anni 90.

Il fenomeno è di una tale gravità che produce un costo sociale che sfiora, se non supera, alcuni miliardi di euro e si avvicina, comunque, ai 40miliardi di euro all’anno.

E’ facilmente comprensibile il beneficio che tutti noi ricaveremmo da una giusta e attenta politica per prevenire e/o ridurre il rischio di infortuni sul lavoro e delle malattie professionali che provoca, oltre ad alcune centinaia di miglia di infortuni, anche una media di circa tre morti bianche al giorno; un prezzo che una società civile come la nostra non dovrebbe mai e poi mai pagare.

Anche la nostra città e la nostra provincia non si sottraggono a questa specie di legge del taglione che affonda le sue basi, per dirla tutta, non solo nella carenza di una vera e propria “cultura antinfortunistica” che in questo Paese non riesce a decollare definitivamente nonostante gli ingenti finanziamenti spesi negli ultimi decenni per corsi di formazione, coinvolgimento delle scuole e incentivi ai datori di lavoro virtuosi.

Tutto questo come quadro generale che non attiene la psicologia della persona colpita da infortunio sul lavoro o le persone superstiti di un morto sul lavoro; ancora non siamo riusciti a superare la brutta consuetudine burocratico-amministrativa di assegnare un numero agli infortunati e di riconoscerli soltanto per quel numero senza quasi mai pensare e badare che dietro quel numero (pur necessario ai fini statistici e procedurali !!) c’è una persona, c’è un uomo con tutta la sua sensibilità psicologica, le sue paure, la sua storia familiare e personale; insomma che al di là di quel numero c’è tanto di spessore umano ed anche relazionale.

Questa, purtroppo, è la burocrazia che vince su tutto ed annulla tutto scaraventando nel facile oblio del dimenticatoio e del tempo ogni ricordo ed ogni buono proposito che subito dopo un infortunio o una tragedia più grossa tutti cercano di rappresentare per far passare il messaggio che le istituzioni funzionano e sono l’ancora di salvezza di tutti e di tutto.

Molto spesso, però, non funziona così; ed ha fatto bene la giornalista Angela Trocini de Il Mattino che il 1° febbraio scorso, in prossimità del probabile inizio del processo penale, ha ricordato il drammatico infortunio mortale occorso al giovane Lino Trezza il 22 novembre 2016 quando rimase schiacciato tra un pallettizzatore ed un container nel porto di Salerno; una tragedia che colpì l’immaginario di tutti  anche perché lasciava una giovane moglie ed un bambino di soli 4 anni, e che tutti abbiamo velocemente dimenticato deludendo la vedova Clelia che credeva fortemente nella solidarietà e nell’azione pratica delle istituzioni e che è rimasta soltanto con la solidarietà formale di alcuni colleghi del defunto marito.

La brava Trocini ha raccolto anche lo sfogo della vedova: “Sono trascorsi due anni dalla morte del marito e, dopo le prime manifestazioni di solidarietà avvenute nei giorni successivi, si è registrato un totale distacco da parte di chi avrebbe dovuto tutelare Lino Trezza; mio marito è stato solo un numero. Non è stato tutelato prima nè dopo la morte. E neanche mio figlio, che quando ha perso il padre aveva solo 4 anni, è stato tutelato. In questi due anni gli unici a preoccuparsi per noi sono stati i colleghi di Lino e non coloro i quali, almeno al momento, sono indagati per la morte di mio marito”. Ora la vedova attende giustizia da un giudice, una giustizia che comunque non le restituirà mai gli affetti perduti e, soprattutto, non la riporterà a credere nelle istituzioni.

Alla fine le responsabilità si diluiranno e i loro effetti saranno leggeri, plasmabili e superabili nel tempo, purtroppo per Lino Trezza che a soli 35 anni ha dovuto lasciare questa terra e la sua famiglia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *