il Quotidiano di Salerno

direttore: Aldo Bianchini

MONETA, BANCHE, GUARDAROBA E ALTRE STORIE

 

Felice Bianchini junior

(Corrispondente e notista politico)

ROMA -

  1. Economia mercantile, monetaria e capitalistica

 

La cellula dell’economia è la merce, la quale ricopre un ruolo di mediazione: in sostanza, per avere una merce, bisogna cederne un’altra. Questa ossatura fondamentale del nostro sistema economico può essere definita «Economia mercantile», che si presenta secondo lo schema: M(a) – M(b). Tuttavia, ogni coscienza riconoscerà come approssimativo lo schema mercantile, in quanto, all’interno della nostra società, solo una quantità ridotta di scambi si presenta sotto forma di baratto, ossia una merce a fronte di un’altra merce. Nel mondo quotidiano, infatti, l’acquisto di una merce è ulteriormente mediato dal denaro, secondo lo schema M(a) – D – M(b), che rappresenta l’«Economia monetaria». Ma noi non siamo né soltanto in un’economia mercantile, né soltanto in un’economia monetaria, bensì in un’«Economia capitalistica», come Keynes, con l’ausilio di Marx, ci fa notare:

 

Una pregnante osservazione di Marx ha messo in luce che la natura della produzione nel mondo reale non è come gli economisti sembrano spesso supporre un caso del tipo: Merce – Denaro – Merce, cioè intesa a scambiare una merce o un lavoro contro denaro al fine di ottenere un’altra merce o lavoro; questa può essere la prospettiva del singolo consumatore, ma non è quella del mondo degli affari, che dal denaro si separa in cambio di una merce o di un lavoro solo per ottenere più denaro, secondo un processo del tipo: Denaro – Merce – Denaro. J.M.Keynes

 

Quindi, il capitalismo è un’economia mercantile, monetaria, con finalità di plusvalore: questo perché nello schema che lo rappresenta D – M – D’, ΔD (ossia D’ – D, la differenza tra il denaro iniziale e quello finale), dev’essere maggiore di zero. La condizione ΔD > 0 non è altro che la condizione del profitto, ciò che regge e al contempo muove l’attività economica capitalistica.

Per essere ancora più precisi, tuttavia, occorre dire che il capitalismo così come si presenta nel 2020 non è più quello “padronale”, ossia del proprietario della fabbrica, il quale gestisce la sua attività economica in rapporto (conflittuale o meno) diretto, faccia a faccia, con i propri dipendenti, cercando di spendere meno e guadagnare di più, e che, in quanto imprenditore, ha bisogno di quella “M” (che rappresenta i suoi costi, l’insieme dei mezzi di produzione), o meglio ancora ha bisogno di produrre qualcosa; no, ormai chi detiene il denaro è lontano dal vero e proprio processo produttivo (e dunque non ha più un rapporto diretto con i lavoratori), poiché la produzione del profitto è sempre più slegata dalla cosiddetta «Economia reale»: la M che ieri rappresentava nella maggior parte dei casi un apparato produttivo, composto da forza lavoro e mezzi tecnici di produzione, oggi sempre più spesso va ad assottigliarsi, costituendosi come strumento finanziario da sfruttare per una rendita o da rivendere in un momento successivo all’acquisto, al fine di realizzare una plusvalenza. Stando così le cose, l’assottigliarsi di M quasi costringe a ripensare lo schema capitalistico come un mero accrescimento fine a sé stesso di denaro, secondo lo schema: D – D’ – D’’ – … – ∞.

 

 

  1. Banche e guardaroba: origine, nascita e vita della moneta

 

Di fronte a questa situazione, sorge spontanea una domanda: se la circolazione capitalistica deve avere un incipit nel denaro, questo denaro da dove viene? Gli economisti tradizionali dicono: “c’è, ed è il risparmio delle famiglie”; e il risparmio delle famiglie come si è formato?

L’altra soluzione è dire: “è il frutto dell’oro estratto dalle miniere”. E se non ci sono miniere, come si fa a far partire il circuito capitalistico? La realtà è che il punto di partenza essenziale della circolazione capitalistica, quel denaro che dev’essere posto ad incipit, non è estratto dalle miniere, o “ricchezza degli antenati”, ma è creazione pura delle banche: la moneta nasce a fronte del diritto di credito.

La seconda domanda, a questo punto è: quanto ne può essere creato?

Quando comunemente si pensa alla banca, prima che associarla al diritto di credito, la si pensa come centro di deposito dei risparmi, il che è vero. Ciò che però trae in inganno è il pensare che il credito dipenda strettamente dai depositi, i quali tuttavia, nel corso della storia, insieme al concetto di “riserva bancaria”, hanno perso terreno e rilevanza. L’inganno di cui parliamo è l’associazione indebita tra Banche e guardaroba: un guardaroba, se riceve 100 vestiti, restituirà 100 vestiti; secondo questa logica, una banca, se fosse un guardaroba, ricevendo 100 di denaro, dovrebbe prestare al massimo 100. Tuttavia, siccome il denaro non si consuma, il sistema bancario potenzialmente può concedere prestiti per un multiplo al limite infinito di 100 (la gestione oculata o meno del credito determinerà la sopravvivenza o il fallimento).

Quando avviene, ad esempio, l’accensione di un mutuo, non si contano le monete e le banconote nelle cassette di sicurezza per avere il via libera – tantomeno ne viene erosa una quantità, consegnandone una parte, visto che avviene tutto sotto forma di accreditamento su c/c -, bensì si vincola la concessione del credito a dei requisiti di tipo patrimoniale e finanziario del concessionario, i quali rientrano nell’alveo del merito di credito - e non è neanche detto che venga rispettato questo criterio (vedi mutui subprime).

Restando nella teoria, immaginiamo adesso di porci nell’anno zero di un sistema capitalistico: la banca dà il via al circuito prestando 100 di denaro (con un’interesse di 10) a un imprenditore, il quale con questi soldi immaginiamo si procuri 4 lavoratori, pagandoli in totale 100 (25 l’uno), affinché producano 5 unità di un prodotto qualsiasi, per comodità immaginiamo 5 pere. A questo punto, affinché l’imprenditore quantomeno non fallisca, le 5 pere non potranno essere vendute a un prezzo di 20 l’una, per un totale di 100, ma dovranno valere almeno 110, 22 l’una. Qui si ha un paradosso, detto “paradosso del profitto monetario”: per completare la circolazione – e realizzare il profitto – le merci devono essere vendute; tuttavia, si noterà che all’interno del nostro sistema non c’è abbastanza moneta per acquistare tutte le merci, poiché ogni lavoratore con il suo salario acquisterà al massimo una pera per 22 (depositando il proprio risparmio di 3 nella banca: ciò ci illumina sul fatto che i depositi siano figli dei prestiti, ma questa è un’altra storia), lasciando all’imprenditore: una pera invenduta e un interesse da pagare. Ora, a meno che la banca non accetti la pera invenduta (o circa mezza, visto che il valore dell’interesse è 10 e quello della pera 22) per estinguere il debito, l’imprenditore si troverà nei guai. La storia e la teoria economica vanno incontro all’imprenditore in tre modi, fermo restando che da qualche parte la moneta mancante va reperita:

 

  • Credito al consumo (o debito privato): una soluzione è lasciare che le famiglie (nel nostro caso i 4 lavoratori, o essendoci una pera, anche solo uno) si indebitino, per acquistare le rimanenze.
  • Deficit statale (o debito pubblico): lasciare che la moneta mancante sia immessa nel sistema dallo stato, tramite spesa pubblica.
  • Domanda estera (o debito degli altri): l’ultima possibilità è che l’imprenditore esporti all’estero la pera rimanente.

Questo semplice e alquanto generico esempio, in realtà, a livello intuitivo, facilita la comprensione delle più grandi e complesse dinamiche reali.

All’interno di uno Stato, il denaro circola in tre settori: privato, pubblico ed estero. Tra questi tre settori ci dev’essere un equilibrio tale per cui la somma dei rispettivi saldi sia pari a 0. Occorrerà fare amicizia con un paio di semplici equazioni:

 

Il Reddito (Y) è uguale a: Y = C + I + G – T + X – M ;

 

Il Reddito (Y) meno il consumo (C) è uguale al risparmio (S): Y – C = S ;

 

Spostando nella prima equazione C e I a sinistra otteniamo: Y – C – I = G – T + X – M ;

 

Sostituendo a sinistra S a Y – C, otteniamo:  (S – I) = (G – T) + (X – M)

 

Dove:

 

(S – I) è il saldo privato (risparmio – investimenti)

 

(G – T) è il saldo pubblico (spesa pubblica – gettito fiscale)

 

(X – M) è il saldo estero (esportazioni – importazioni)

 

L’equazione così scritta non presenta lo 0; ciò significa banalmente che: ciò che è a sinistra (S – I) dev’essere uguale a ciò che è a destra, ossia (G – T) + (X – M).

 

Se c’è sovra-risparmio o sotto-investimento (S – I positivo), per mantenere l’equilibrio dev’esserci: un deficit di bilancio (G – T positivo, o anche G > T), e/o un surplus della bilancia commerciale (X – M positivo, o anche X > M).

 

Adesso immaginiamo un paese che sia tenuto a lavorare in termini di contenimento (se non azzeramento) del saldo pubblico (G – T). In una situazione di sovra-risparmio o sotto-investimento, in mancanza del deficit pubblico, sarebbe costretto a puntare sul saldo estero (X – M), o meglio sul surplus della bilancia commerciale, sulle esportazioni: su di esse può contare chi è maggiormente “competitivo”, ossia chi offre un prodotto soddisfacente a livello di qualità ma anche e soprattutto di prezzo. Immaginiamo che il paese e i suoi partner (che sono anche direttamente suoi competitor) si siano dati un cambio fisso, una stessa moneta, tale per cui, anche se si verificassero degli squilibri a livello di bilance commerciali (surplus e deficit corrispondenti), il cambio non ne risentirebbe: maggiore domanda di prodotti di un paese non farebbe rivalutare la sua moneta, rendendo i prezzi più alti e quindi meno “competitivi” (tutto questo tradotto vuol dire che i rapporti di forza commerciale vengono cristallizzati). A queste condizioni, nella malaugurata ipotesi che il saldo estero si rivelasse tendente al disavanzo, diventerebbe necessario un aggiustamento del saldo privato (S – I), che può avvenire: o aumentando gli investimenti (I), o diminuendo il risparmio (S). La funzione degli investimenti è: I = f(re – i); dove “re” rappresenta le aspettative di guadagno e “i” il tasso di interesse: ciò che un’autorità monetaria può fare per aumentare gli investimenti è ridurre il tasso di interesse – ma non sempre funziona. Immaginiamo che la Banca Centrale Indipendente (a cui sono legati questi stati e che controlla, oltre al tasso di interesse, la quantità di moneta in circolazione) provi ad aumentare gli investimenti, arrivando ad azzerare “i” (fino a renderlo addirittura negativo in alcuni casi) e creando moneta, tramite un’operazione di acquisto di titoli nella pancia delle banche, inondandole di liquidità. Ora, mettiamo che questa liquidità, anziché riversarsi nell’economia reale sotto forma di credito, non si muova, rimanendo dunque ininfluente in termini di stimolo degli investimenti (per dirla con Keynes: il cavallo non beve).

Ebbene, di fronte a questi scenari capiamo che il cambio fisso, la repulsione verso l’intervento statale e la spesa pubblica (in particolare quella in deficit), uniti all’amore mercantilistico per le esportazioni, possono trascinare gruppi di paesi (o almeno i paesi importatori netti all’interno del gruppo) nel vicolo cieco del taglio della domanda interna, del reddito, della ricchezza nazionale. Ma possiamo anche intuire che, alla lunga, tutto ciò si ripercuote anche su chi sulla carta sta bene, su chi esporta, essendo gli altri paesi, i “compratori”, il principale mercato di riferimento dopo quello interno.

 

 

  1. …tratto da una storia vera

 

Ma la storia che abbiamo raccontato non è frutto della nostra fantasia. Le dinamiche descritte si sono realmente verificate. L’anacronistico mercantilismo monetarista europeo – che include l’odio verso l’intervento pubblico -, per dirla in soldoni, rifacendoci al nostro esempio precedente: lascia la pera invenduta, l’imprenditore sommerso dai debiti e i lavoratori a pancia vuota e senza un lavoro; o, nel migliore dei casi: vende la pera, ma lascia che il resto (ossia la sorte di imprenditore e lavoratori) avvenga altrove.

Servendosi di un illustre citazione, occorre capire che:

 

[…] quando il settore pubblico gestisce il proprio bilancio in disavanzo, quale che sia la destinazione della spesa, cosa che adesso è difficile da conoscere ed ancor più difficile da giudicare, c’è comunque un effetto monetario immediato in quanto attraverso il disavanzo del settore pubblico viene immessa nel sistema economico una liquidità tutta particolare, una liquidità, cioè, che per le imprese non comporta il ricorso al sistema delle banche. […] Se il settore pubblico viene gestito in pareggio, e cioè la spesa pubblica è coperta con le imposte, il settore pubblico non aggiunge e non toglie una lira di liquidità, si limita a prendere da una parte e a spendere dall’altra; le imprese ottengono liquidità aggiuntiva soltanto dal settore bancario con il conseguente indebitamento. Quando invece c’è un disavanzo nel settore pubblico, finalmente è lo Stato che s’indebita verso la Banca Centrale, con un allargamento della base monetaria, o si indebita verso i risparmiatori, aumentando la velocità di circolazione della moneta. […] [tramite la spesa pubblica] le imprese ottengono flussi di liquidità che per loro non sono un debito, liquidità sulla quale non devono pagare interessi. È stato proprio il disavanzo del settore pubblico che ha riequilibrato i conti del settore industriale verso il settore finanziario. A.Graziani

 

Tradotto: forse la soluzione migliore per la pera non è essere esportata, soprattutto se lo squilibrio che in quel caso si viene a creare non viene poi colmato da un deficit pubblico nel paese che ha importato, o da un’equivalente esportazione (diciamo una mela) che faccia il percorso inverso.

 

Questa estremizzazione del modo di vedere i rapporti economici è iniziata nel ’79 con il Sistema Monetario Europeo (SME), il “papà” dell’Euro, il quale si presentava come innovazione, come primo passo verso il grande sogno europeo, ma che all’atto pratico rappresentava un’azione politica reazionaria, in quanto riproponeva, in maniera ancora più stringente, un sistema di accordo di cambio internazionale (il precedente, di ampiezza quasi mondiale, era deceduto qualche anno prima, nel 1971, negli Stati Uniti, dove era nato nel 1944):

 

La creazione di un mercato finanziario unico [a differenza del Sistema di Bretton Woods, che non lo prevedeva] produsse come conseguenza la necessità per ogni paese di adeguare i propri tassi di interesse interni ai tassi vigenti nei mercati europei. Veniva in tal modo perduta la possibilità di condurre una politica monetaria autonoma e di determinare i tassi di interesse interni con l’obiettivo di realizzare il livello desiderato della domanda globale. L’obiettivo dell’occupazione passava in seconda linea rispetto a quello dell’integrazione finanziaria. […] Sul piano istituzionale, il primato degli obiettivi finanziari su quelli reali venne consacrato con l’affermazione che in ogni paese la Banca centrale, riconosciuta come custode dell’equilibrio monetario, avrebbe dovuto godere di una autonomia sempre più completa e svincolarsi dal controllo delle autorità politiche, tendenzialmente inclini a violare gli equilibri finanziari pur di soddisfare le istanze proveniente dai più diversi settori sociali. A.Graziani

 

La peculiarità di questo sistema era la perdita di sovranità, nella misura in cui non si aveva più la piena possibilità di determinare la domanda globale, non controllando più il tasso di interesse, dovendolo adeguare. Ma non poter controllare la domanda globale – Keynes docet – significa non poter incidere sul tasso di disoccupazione, non poter assicurare il diritto al lavoro, dunque, per noi italiani nello specifico, abbandonare la retta via della Costituzione.

Un’altra innovazione si registrava invece sul piano della bilancia dei pagamenti: un deficit a livello di movimenti di merci poteva venire compensato, anziché con equivalenti esportazioni, con importazioni di capitali, i quali provenivano anch’essi, insieme alle merci, da chi era in surplus:

 

[…] la possibilità di fare affidamento sul mercato internazionale per ottenere importazioni di capitali consentiva ai paesi partecipanti di considerare il vincolo della bilancia commerciale come assai meno rigido di prima: un eventuale passivo nei movimenti di merci poteva infatti essere compensato da una equivalente importazione di capitali. Come già detto, la Germania, incline a tenere la propria bilancia commerciale in attivo, era anche disposta a finanziare, mediante esportazioni di capitali, i paesi europei eventualmente in passivo. […] Serie riserve sono state avanzate in merito alla stessa coerenza interna dello SME. Un sistema basato sulla presenza di un doppio squilibrio simultaneo nei movimenti di merci e nei movimenti di capitali non può sottrarsi, prima o poi, a inconvenienti di fondo. Un disavanzo protratto nei movimenti di merci di un paese finisce con il minare la fiducia che i mercati ripongono nella sua valuta, anche se il cambio è sostenuto da un regolare afflusso di capitali. Al tempo stesso, si instaura un meccanismo perverso in virtù del quale il livello elevato dei tassi di interesse, necessario per stimolare le importazioni di capitali e per rafforzare la valuta debole, finisce per indebolirla ancora di più. Ciò accade perché tassi di interesse elevati costituiscono un fattore di inflazione e, al tempo stesso, riducono il livello dell’attività produttiva. A.Graziani

 

La lira sopravvisse allo SME, nonostante i problemi di “coerenza interna”, ma l’Italia ne uscì fittiziamente per qualche anno solo per prepararsi ad entrare, come impostato dal trattato di Maastricht nel 1992, all’interno della moneta unica europea, che vide la luce tra il 1999 e il 2002. Il problema del nuovo accordo di cambio riguardava sempre la bilancia dei pagamenti, in maniera forse anche più grave:

Se i cambi sono stabili, ogni squilibrio nei conti con l’estero deve essere sanato attraverso movimenti dei prezzi interni: ad esempio, per eliminare un disavanzo è necessario che i prezzi interni cadano rispetto ai prezzi esteri, in modo da stimolare le esportazioni e scoraggiare le importazioni. […] movimenti dei prezzi, variazioni dell’interesse e movimenti della domanda globale sono gli strumenti utilizzabili quando i cambi esteri sono rigidi.

Nella situazione creata dalla moneta unica europea, restano escluse sia la manovra dei cambi esteri sia quella del tasso di interesse; e poiché come è noto, nelle economie moderne, i prezzi tendono a essere rigidi, i paesi più deboli, quelli che per tendenza hanno conti con l’estero in disavanzo, non possono fare altro che ricorrere a manovre deflazionistiche. […] Tutti i paesi interessati (quelli deboli ancora non in linea con i parametri di Maastricht ndr) optarono quindi per manovre restrittive, consistenti nella riduzione della spesa pubblica e nell’aumento del prelievo fiscale; manovre che produssero inevitabili effetti depressivi. […] La caduta della domanda globale in un qualsiasi paese produce una contrazione delle importazioni; ciò significa automaticamente per gli altri paesi una caduta delle esportazioni e quindi una contrazione della domanda globale, che si aggiunge agli effetti depressivi derivanti dai provvedimenti adottati direttamente dalle autorità di governo. In altri termini, nel tentativo di rispettare le condizioni poste dal Trattato di Maastricht, i paesi europei, certamente al di là delle intenzioni, misero in atto manovre di contenimento della domanda che si contagiavano da un paese all’altro e si accrescevano reciprocamente. A.Graziani

 

Tra i paesi deboli c’era anche l’Italia, che dovette fare i conti con un debito pubblico passato alla storia per essere frutto di corruzione e sperperi della politica, ma che in realtà, ad un occhio un po’ più acuto, risulta essere frutto anche e soprattutto delle dinamiche macroeconomiche internazionali, tra cui il forte rialzo dei tassi di interesse, figlio degli anni ’80 e dello strano modo di riequilibrare la bilancia commerciale (tramite importazione di capitali) che li ha caratterizzati, unito alla nostra prematura e spontanea adesione al principio della banca centrale indipendente (12 anni prima circa del Trattato di Maastricht, con il quale venne creata la BCE e reso il principio europeo), con il famoso “divorzio Tesoro-Banca d’Italia”, che rese la creazione di moneta (o acquisto dei titoli del tesoro da parte della Banca Centrale) fuorilegge:

 

Dopo il 1979, la politica monetaria aveva subito, come abbiamo visto, una svolta restrittiva, il disavanzo era stato finanziato sempre meno con creazione di moneta e sempre più mediante emissione di titoli; si era così venuta accumulando una massa crescente di debito pubblico. […] l’aumento dei tassi di interesse proveniente dai mercati internazionali aveva accresciuto enormemente l’entità del debito. Già nei primi anni ottanta, si poteva dire che la parte preponderante del debito fosse dovuta all’onere accumulato degli interessi passivi, mentre il disavanzo corrente si andava riducendo rapidamente. Secondo alcuni, sarebbe stata la stessa entità del debito pubblico a produrre l’aumento dei tassi di interesse. Secondo altri, l’entità del debito di per sé non avrebbe esercitato alcun influsso sui tassi di interesse, i quali, come abbiamo visto in precedenza, sarebbero stati tenuti elevati dalle autorità monetarie per garantire l’afflusso di capitali necessario a sanare la bilancia dei pagamenti. […] Sarebbe stato più saggio effettuare una politica espansiva, anche utilizzando la spesa pubblica, e concentrare gli sforzi nella riduzione dei tassi di interesse. Queste argomentazioni venivano completate osservando che una riduzione delle cosiddette spese di scopo avrebbe danneggiato i destinatari della spesa sociale, e cioè i titolari di pensioni, di sussidi, i fruitori della spesa sanitaria, e via dicendo; viceversa, una riduzione dei pagamenti per interessi avrebbe presentato aspetti positivi, in quanto avrebbe ridotto il monte dei redditi da capitale, che rappresentavano posizioni di pura rendita a favore di imprese e di grandi patrimoni.

 

Insieme con l’integrazione economica mondiale (o globalizzazione), la Struttura della moneta unica rappresenta un vero e proprio vincolo:

 

In prospettiva, l’economia italiana si trova legata da un doppio vincolo: da un lato, l’ingresso nell’Unione monetaria priva le autorità monetarie della possibilità di utilizzare il cambio estero come strumento, mentre la creazione della BCE sottrae loro anche il controllo della quantità di moneta. Dall’altro, l’integrazione economica mondiale espone l’industria italiana alla concorrenza sempre più serrata proveniente sia da paesi tecnologicamente più avanzati, sia da paesi aventi costi del lavoro storicamente più bassi.

Per reggere la concorrenza sui diversi fronti, l’industria italiana, non potendo contare su tecnologie d’avanguardia, fa affidamento sul controllo rigoroso del costo del lavoro e su altrettanto rigorose economie di bilancio. Ne sono conseguenza inevitabile l’arretramento dei redditi da lavoro e l’accrescimento delle disuguaglianze.

Non si tratta di modificazioni esclusive della società italiana. Tutti i paesi avanzati stanno rivedendo la propria struttura produttiva e distributiva lungo le stesse linee. Resta da vedere fino a quale punto e per quanto tempo la via di questa trasformazione potrà essere percorsa. A.Graziani

 

Queste parole, scritte nel 2000, lasciano perplessi, in quanto da un lato danno una lettura del presente (oggi passato) e del futuro (oggi presente) rivelatasi profetica, dall’altro lasciano in sospeso la questione di come e quando si possa sbloccare la situazione. Ma la storia, in parte, una risposta l’ha già data, raccontandoci di un’altra trasformazione, che si manifestò come crollo di un sistema economico simile.

 

 

  1. La grande Trasformazione: storia di una moneta aurea

 

A cavallo tra il XIX e il XX secolo, il mondo attraversò una fase di sviluppo tecnologico ed economico importante, tanto da condizionare anche la visione del futuro, visto come roseo, come una sorta di progresso lineare e inarrestabile, un miglioramento esponenziale (che tuttavia si rivelò alquanto buio, sfociando nelle due guerre mondiali). In quel periodo, insieme con lo sviluppo economico-tecnologico, si sviluppò il sentimento nazionale, il quale si tradusse in mercantilismo, o, peggio, in vero e proprio imperialismo coloniale, già ampiamente conosciuto dal mondo. Il sistema internazionale si reggeva su quattro istituzioni (o pilastri):

 

La prima era il sistema dell’equilibrio del potere che per un secolo impedì che tra le grandi potenze scoppiassero guerre lunghe e devastatrici. La seconda era la base aurea internazionale che simboleggiava un’organizzazione unica dell’economia mondiale. La terza era il mercato autoregolantesi che produceva un benessere economico senza precedenti. La quarta era lo stato liberale. Classificate in un certo modo due di queste istituzioni erano economiche e due politiche. Classificate in un altro modo due di esse erano nazionali e le altre due internazionali. K.Polanyi

 

Concentrandoci sul lato economico di quel sistema, occorre dire che:

 

Nelle condizioni del diciannovesimo secolo commercio estero e base aurea avevano una priorità indiscussa rispetto alle necessità dell’attività economica interna. Il meccanismo della base aurea richiedeva l’abbassamento dei prezzi interni ogni volta che il cambio era minacciato dalla svalutazione. […] Nel campo estero, il ruolo delle monete nazionali aveva un’importanza predominante anche se questo fatto non veniva a quel tempo granché riconosciuto. La filosofia dominante del diciannovesimo secolo era pacifista ed internazionalista; in linea di principio tutte le persone colte erano liberoscambiste, e con riserve che appaiono oggi ironicamente modeste, non lo erano meno nella pratica.[…] Una tale accentuazione posta sulle nazioni e sulle monete sarebbe stata incomprensibile ai liberali le cui menti abitualmente non coglievano le vere caratteristiche del mondo in cui vivevano. Se essi consideravano la nazione come un anacronismo, le valute nazionali non erano neanche considerate degne di attenzione. Nessun economista dell’età liberale che avesse qualche stima di sé dubitava dell’irrilevanza del fatto che pezzi di carta differenti venissero chiamati in modo diverso da una parte e dall’altra di una frontiera. […] L’Europa occidentale stava passando attraverso un nuovo illuminismo e tra i suoi spauracchi si collocava in posizione di evidenza il concetto  «tribale» della nazione la cui presunta sovranità era per i liberali un’espressione di campanilismo. Fino agli anni trenta il “Baedeker” dell’economia includeva l’informazione sicura che la moneta era soltanto uno strumento di scambio e quindi non essenziale per definizione. K.Polanyi

 

La società che ci si presenta davanti è una società “aperta”, a tal punto da far passare per anacronistico il concetto di sovranità nazionale. Ciò è più che comprensibile, in quanto, al di là del pacifismo e dell’internazionalismo, caratterizzanti il piano culturale (o “sovrastrutturale”), l’economia (la struttura) era fondata su un Mercato autoregolato,  il quale ha come caratteristica di portare la società a separare in maniera netta economia e politica, o meglio di estromettere la politica dall’economia, e assolutizzare l’economia, dividendo la società in due sfere:

 

Un mercato autoregolantesi richiede niente meno che la separazione istituzionale della società in una sfera economica ed una politica. Una simile dicotomia è in realtà semplicemente la riaffermazione da parte della società come insieme dell’esistenza di un mercato autoregolato. K.Polanyi

 

Questa perdita di controllo da parte della politica sull’economia passava necessariamente per l’altra istituzione economica, ossia la moneta cosiddetta aurea, in quanto legata al valore dell’oro e di conseguenza assumente la connotazione di “moneta-merce”; la quale si differenzia dalla “moneta-segno”, sua rivale, principalmente per il fatto di non concedersi ad aumenti di quantità “gratuiti”:

 

La moneta-merce è semplicemente una merce che funziona come moneta e la sua quantità non può perciò, in linea di principio, essere aumentata se non diminuendo la quantità delle merci che non funzionano come moneta. In pratica la moneta-merce è di solito l’oro o l’argento la cui quantità può essere aumentata ma non di molto in un periodo breve di tempo. Tuttavia l’espansione della produzione e del commercio non accompagnata da un aumento della quantità di moneta determinerà una caduta nel livello dei prezzi, cioè proprio quel tipo di rovinosa deflazione che abbiamo in mente. La scarsità di moneta era una delle gravi e permanenti lagnanze delle comunità mercantili del diciassettesimo secolo.

La moneta-segno (token money) si diffuse molto presto per proteggere il commercio dalle deflazioni forzate che accompagnavano l’uso del numerario quando il volume dell’attività economica si gonfiava. Nessuna economia di mercato era possibile senza l’intervento di una simile moneta artificiale. K.Polanyi

 

La fragilità che questo sistema produceva al livello dell’attività interna delle nazioni ben presto venne fuori, portando con sé spinte protezionistiche anche estreme. I primi scricchiolii si registrarono intorno al 1870:

 

[…] a partire dagli anni ‘870 si poteva notare un cambiamento negli atteggiamenti emotivi per quanto non vi fosse alcuna rottura corrispondente nelle idee dominanti. […] una dogmatica fiducia nella base aurea internazionale continuava a raccogliere illimitata fiducia mentre nello stesso tempo si instauravano monete-segno basate sulla sovranità dei vari sistemi bancari centrali.

Il nuovo nazionalismo era in realtà il corollario del nuovo internazionalismo. La base aurea internazionale non poteva essere accettata dalle nazioni alle quali essa avrebbe dovuto servire a meno che queste non venissero assicurate contro i pericoli con i quali essa minacciava le comunità che vi aderivano. […] La moneta-segno nazionale era la salvaguardia certa di questa relativa sicurezza poiché permetteva alla banca centrale di agire come cuscinetto tra l’economia interna e quella esterna. K.Polanyi

 

Tuttavia, sarebbe facile attribuire la caduta del sistema alla forza e alla barbarie dei suoi oppositori, senza considerare i problemi di “coerenza interna” del sistema stesso. La miopia, in questi casi, può giocare brutti scherzi; non vedere i limiti di un’istituzione o di un insieme di istituzioni e indirizzare tutte le proprie energie per difenderle, o peggio non spendersi affatto, lasciando che tutto si aggiusti da sé, lascia campo libero a chi invece ha intenzione di agire, mettendo mano all’organizzazione. Chi ha cercato di riproporre in futuro sistemi simili (vedi Bretton Woods) ha finito per farli cadere, così come li aveva messi in piedi. La mano politica, all’interno dell’economia, è indispensabile. Chi non lo capisce subito, o ci arriva dopo aver provato sulla propria pelle i limiti dell’inazione, o, nonostante i fallimenti, continua a cercare modi di tenere in piedi costruzioni che, prima o poi, gli cadranno addosso:

 

Il libero scambio ed il sistema della base aurea non furono scioccamente distrutti da egoisti sostenitori di tariffe doganali e da una sentimentalista legislazione sociale; al contrario, lo stesso avvento della base aurea affrettò la diffusione di queste istituzioni protezionistiche che erano tanto più bene accette quanto più gravosi erano i cambi fissi. […] L’umanità era nella morsa non di nuove motivazioni ma di nuovi meccanismi. In breve la tensione sorgeva dal settore del mercato, di là passava alla sfera politica e quindi a tutto l’insieme della società. Nell’ambito delle singole nazioni tuttavia la tensione rimase latente fino a che l’economia mondiale continuò a funzionare. Soltanto quando l’ultima delle sue sopravviventi istituzioni, la base aurea, cadde, la tensione all’interno delle nazioni si liberò. Per quanto diverse fossero le loro risposte alla nuova situazione, esse rappresentarono essenzialmente degli adattamenti alla scomparsa dell’economia mondiale tradizionale; quando essa si disintegrò, la stessa civiltà di mercato fu inghiottita. Questo spiega il fatto quasi incredibile che una civiltà veniva fatta crollare dalla cieca azione di istituzioni senza anima il cui unico scopo era quello dell’automatico accrescimento del benessere materiale. K.Polanyi

 

 

 

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Bibliografia essenziale:

 

1)Augusto Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana, 1998 (ristampa 2018), Bollati Boringhieri

 

2)Karl Polanyi, La grande trasformazione, 1944, (ristampa 2010), Piccola Biblioteca Einaudi

 

3)John Maynard Keynes, Come uscire dalla crisi (a cura di Pierluigi Sabbatini), 2017, Laterza

 

 

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