CORONAVIRUS: CARCERE (II PARTE)

Avv. Giovanni Falci

(Penalista – Cassazionista)

 

Il Papa con il presidente del consiglio Giuseppe Conte nell'ultimo incontro di qualche giorno fa

SALERNO – Dopo le parole dei giorni scorsi del Presidente della Repubblica, commentate, anche quelle di Papa Francesco, si sono soffermate sulle difficili condizioni dei detenuti, in tempo di pandemia da coronavirus.

Il pensiero del Pontefice, di particolare vicinanza nei confronti di tutte le persone maggiormente vulnerabili per essere costrette a vivere in gruppo, ha trovato una specifica menzione proprio riferendosi “alle persone nelle carceri”.

Alla già precaria condizione vissuta all’interno degli istituti di pena per le condizioni di sovraffollamento si è aggiunta una ulteriore ed insidiosissima emergenza, quella del rischio di contagio che renderebbe drammaticamente ingestibile la situazione sotto il profilo sanitario.

Fuori dalle strutture, oltre “i cancelli”, l’unico modo per contrastare il diffondersi del virus è quello del distanziamento sociale.

Lo impongono i provvedimenti adottati dalle Autorità centrali e territoriali, lo prescrive la comunità scientifica.

Ed allora, oggi come non mai si è chiamati ad una scelta doverosa nei confronti del diritto alla salute, così come inteso sul piano della prevenzione, che non può essere negato a nessuno.

Una mancata attenzione alle necessità che la situazione impone equivarrebbe ad ignorare il principio di uguaglianza, pilastro fondante della nostra Costituzione e della nostra democrazia.

Pilastro di un patto sociale che non può relegarsi a mera apparenza.

Tutti siamo chiamati a rispettare un piano di profilassi che tuteli, per quanto possibile, dalla diffusione di un virus la cui insidiosità è sotto gli occhi di tutti.

E l’eventuale diffusione del virus all’interno delle strutture di detenzione è un fine da perseguire senza indugi.

Scontare la pena non significa perdere i diritti di uomo ma essere privati della libertà, peraltro con una progettualità riabilitativa, come ci ricorda l’art. 27 della Costituzione.

A tacere, poi, della dignità, che non si perde con la condizione di detenuto né può essere sacrificata.

Così come non si acquisisce per meriti, la dignità non si perde neanche per demeriti in quanto immanentemente connaturata all’essere umano.

Ed ogni uomo, nessuno escluso, ha diritto alla tutela della propria salute e della propria vita.

Poste queste naturali e forse fin troppo ovvie premesse, ci caliamo in un contesto nel quale questi principi di uguaglianza vanno nutriti di sostanza.

avv. Giovanni Falci (penalista - cassazionista)

Un evento drammaticamente epocale, come quello che stiamo vivendo, impone al Governo di assumere misure immediate ed efficaci, calibrate sulle peculiari condizioni dei detenuti.

Nel bilanciamento tra le esigenze di tutela della sicurezza collettiva e quelle di tutela della salute non è possibile non porre mano ad un piano di rivisitazione delle condizioni e delle modalità esecutive della sanzione.

Vanno assicurati spazi adeguati per consentire la necessità dell’isolamento in caso di contagio.

Occorre dunque agire con efficacia e puntare sul ridimensionamento quantitativo per realizzare un rapporto in equilibrio tra detenuti e spazi vitali. Evidente come si debba intervenire con immediatezza sulle pene brevi.

I pochi anni di residuo, potrebbero essere espiati con la detenzione domiciliare e da tale sostituzione discenderebbe un recupero di spazi vitali all’interno degli istituti.

Tanto, a mio avviso, senza la necessità di dover attendere la disponibilità dei singoli mezzi elettronici di controllo a distanza (braccialetti elettronici), i cui tempi di completo approvvigionamento non sembrano compatibili con l’estrema urgenza in cui si deve agire.

Innalzando ad almeno due anni potrebbe interessare già un  numeri più consistenti.

E’ un tema antico quello del sovraffollamento, rispetto al quale, va ricordato, il nostro Paese è già stato condannato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo.

Ma oggi l’emergenza del sovraffollamento è stata fagocitata da un ulteriore e più insidioso allarme che ne ha moltiplicato esponenzialmente la portata del disagio.

Ed allora, solo consentendo all’interno delle strutture la presenza di un numero di detenuti compatibile con l’isolamento degli eventuali contagiati sarà possibile fronteggiare la diffusione epidemica garantendo così condizioni di tutela anche a tutto il personale chiamato ad operare negli istituti.

I detenuti non vivono da soli nelle strutture. Polizia penitenziaria, personale amministrativo, personale sanitario, sono chiamati quotidianamente a prestare servizio al loro interno.

Tutte persone alle quali si deve garantire di lavorare in sicurezza e poter svolgere l’attività funzionale alle rispettive e specifiche attribuzioni.

E qui torniamo, inevitabilmente, al punto di partenza.

La tutela della salute per i cittadini detenuti è una tutela che va garantita senza tentennamenti e senza la paura di esposizioni alla protesta populista di chi tende a confondere e sovrapporre il concetto di certezza della pena con quello della necessità del carcere.

Perché non è possibile, a mio a avviso, non pensare che chi vive il mondo delle carceri non sia parte di noi, non sia parte della società.

Non è possibile pensare che le chiavi di quei cancelli separino “i buoni” dai “cattivi” anche con riferimento a questi diritti elementari.

Non è il tempo di dibattiti, ancorché interessantissimi sulla funzione della pena e sui modelli più o meno virtuosi da seguire.

Se di emergenza si tratta, ed i numeri drammatici dei decessi e dei contagi ce lo ricordano giornalmente, è necessario agire immediatamente ed in modo adeguato alle circostanze.

Tanto consentirebbe al principio di uguaglianza nel diritto alla cura di nutrirsi, in concreto, di effettività solidale e fisicità pulsante.

 

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