ThyssenGroup: la sospensione della pena … per la verità ?

 

Aldo Bianchini

I due manager della Thyssen Group condannati

SALERNO – “È un’offesa ai nostri figli e per l’Italia. Vogliamo che il governo e la sindaca di Torino ci accompagnino in Germania. È una barzelletta: ogni volta ci dicono che è l’ultimo ricorso, invece…”. Rosina Platì, mamma di una delle sette vittime del rogo della Thyssen, parla all’Ansa dei ritardi dell’esecuzione della pena di Harald Espenhahn, uno dei due manager tedeschi condannati, che è stata temporaneamente sospesa perché ha fatto ricorso alla Corte costituzionale federale tedesca. Così scrive Il Fatto Quotidiano nell’edizione del 16 luglio scorso subito dopo l’annuncio che Harald Espenhahn (uno dei due manager della Thyssen condannati) non era entrato nel carcere dove la “presunta giustizia tedesca e la presunta accusa italiana” lo avevano invece spedito.

Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz erano stati condannati in via definitiva a cinque anni di carcere perché ritenuti responsabili del rogo nello stabilimento torinese della Thyssen Group che aveva ucciso ben sette lavoratori italiani; per entrambi, però, la procura  tedesca di Essen ha concesso il regime di semilibertà e potranno andare a lavoro ogni giorno e tornare nel penitenziario solo per la notte, provocando lo sdegno dei familiari dei 7 operai morti nel rogo del ‎6 dicembre 2007. Adesso uno solo dei due (Gerald Priegnitz) va in carcere di notte; l’altro, grazie ad un ricorso in extremis ha ottenuto il beneficio della libertà totale e n on ha varcato, neppure per un minuto, la soglia del carcere.

Nel dolore che, sempre e comunque, deve accompagnarci per la perdita di sette vite, non possiamo non tenere conto che nella fattispecie tutto è stato impostato male, fin dalle prime indagini preliminari che erano incentrate e condotte sull’onda emozionale costruita e voluta caparbiamente da un Procuratore della Repubblica (Raffaele Guariniello) incastrato ossessivamente nel volere a tutti i costi, e per la prima ed unica volta nel mondo, portare avanti l’accusa di “omicidio volontario”, nel caso di infortunio sul lavoro, a carico dei responsabili organizzativi della grande industria tedesca fino a colpire direttamente l’amministratore delegato e il suo braccio destro che fino ad oggi, comunque, non hanno fatto neppure un giorno di carcere reale (uno dei due solo di notte) nonostante le accuse gravissime mosse dalla Procura della Repubblica di Torino, dal primo e secondo grado del processo, ma fatalmente e giustamente cancellate dalla Suprema Corte di Cassazione che incentrò la sua decisione (datata 29 aprile 2014) sul “concetto di responsabilità suddiviso tra omicidio volontario e omicidio colposo cosciente.

A nulla, quindi, è valsa la lettera che i familiari delle vittime hanno scritto e, tramite il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, consegnato direttamente ad Angela Merkel; la rabbia dei parenti, giustamente, è montata ancora di più e tutti si ripropongono di recarsi in Germania per protestare davanti al tribunale di Essen e caso mai di farsi accompagnare addirittura dalla sindaca di Torino Chiara Appendino.

Cosa inutile, a mio avviso; sarebbe soltanto un’altra perdita di tempo e la disperata ricerca di inutile speranze.

I due manager tedeschi vanno certamente puniti e, forse, anche severamente; ma bisognerebbe resettare tutto quello che fin qui è successo e ricominciare tutto daccapo con la formulazione di nuove e più credibili accuse che vadano nel solco dell’omicidio colposo (forzando, anche cosciente), ma mai e poi mai dell’omicidio volontario. Farlo, come è stato fatto, vale a dire mettere la giustizia fuori strada ed alla fine la stessa giustizia finisce per non sapere più cosa seriamente fare; e finisce che uno dei due manager non entra mai in carcere e l’altro ci va solo di notte con la certezza che fra qualche settimana anche lui vedrà la pena sospesa.

 

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